Al di là della vita

Un paramedico del pronto soccorso passa le sue notti da un ferito all’altro, vede gente morire e deve pure fare i conti con le reazioni, le speranze e i problemi dei familiari delle vittime. Il nostro (Nicolas Cage) tenta di salvare quelle vite – anche quelle dei familiari – come meglio può, ma in lui vi è ora la convinzione di non esserne più capace, è in crisi perché forse, idealmente, vorrebbe salvare tutti, perché vedere qualcuno morire, sul momento oppure più tardi all’ospedale, è un’esperienza che cancella una parte della sua stessa vitalità. Il film è tutto pervaso da un disagio profondo di fronte al vivere e al morire, e pone il paramedico al confine fra le due cose; la sua atmosfera mistica e metafisica è chiaramente influenzata dalla cultura religiosa, cristiana, del suo regista. Però non sa che percorsi tracciare: non che il cinema, la letteratura, o l’arte in genere, debbano comunicare certezze, ma questo affidarsi alle divagazioni del protagonista, al continuo indugiare sui ricordi delle vite non salvate, ad un finale “catartico” anche se tutto sommato difficile da interpretare, fa correre il rischio di enfatizzare argomenti che potrebbero essere trattati con reale profondità, piuttosto che con un piglio mistico il quale – seppure all’interno di un contesto realista – rende molto vago il discorso filmico, privo di una qualsiasi riflessione compiuta. Il film resta “assorto”, tale e quale al suo protagonista, che d’altronde segue fedelmente. Le luci dell’ambulanza, che splendono sulle teste dei personaggi rendendoli dei santini, che gettano le ultime speranze di vita sul buio della morte, a un certo punto diventano accecanti, le riflessioni di Nicolas Cage si fanno forzate ed estenuanti, e il troppo “al di là” di un film che è pur sempre ambientato nell’“al di qua” genera una storia povera di consistenza.