Lamb

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Un film di Valdimar Jóhannsson. Con Noomi Rapace, Björn Hlynur Haraldsson, Hilmir Snær Guðnason, Ingvar Eggert Sigurðsson.
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Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 106 min. - Islanda 2021. - Wanted uscita giovedì 31 marzo 2022. MYMONETRO Lamb * * * - - valutazione media: 3,10 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Un film politico? O demistificazione dell’umano? Valutazione 0 stelle su cinque

di Alessandro Spata


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venerdì 30 settembre 2022

Tra incubo scientifico, speculazione filosofica e parodia dell’esistenza si dipana una trama su due piani,quello realistico e quello immaginario (“chimerico” nello specifico), che si avvicendano e si sovrappongono. Gli ordini di significato qui sono svariati (pure troppo forse), ma questo non è un difetto necessariamente. È proprio grazie alla sua ricchezza di simboli in fondo che l’opera cinematografica “visionaria” riesce a prestarsi a varie letture tutte ugualmente plausibili, alla fine. E l’abbondanza del virgolettato starebbe qui a segnalare anche tutta la difficoltà nel catalogare eventi e personaggi. Persino la forma sintattica e grammaticale risente di una certa qual “ibridizzazione” dei contenuti, dunque.
Un’interpretazione che vi propongo è quella della “tragica ironia da commedia nera più che da horror vero e proprio” contenuta nel racconto di questa fusione tra due soggetti così incompatibili in partenza, apparentemente contraddittori, “uomo-pecora”. Intanto questo nuovo accostamento “specifico” mi richiama lo humor leggero di “Crimini e misfatti” il film di Woody Allen quando in una sequenza Cliff-Allen accosta - il discorso del tronfio cognato Lester-Alda ai ragli di un asino - nel tentativo di demistificarlo o meglio di smascherarne la pochezza di essere umano. In questa tragica satira esistenziale di “Lamb” il re è nudo e la sua presunzione umana di volersi elevare a dio viene “punita” con la condanna a diventare un “satiro” mezzo uomo e mezzo capro. In questo scenario, l’emancipazione dell'umanità si realizza al rovescio. Come se per essere “Dei” non ci fosse altro modo che quello di trasformarsi in un fauno rifugiandosi quasi in un mondo incantato o quello della fuga in avanti lasciandosi ingravidare da un auto come in “Titane”, eventualmente. Tertium non datur. Nonostante il fondersi dell’umano con una macchina possa dare l’idea di un risultato più tecnologicamente avanzato ci rimane sempre l’amaro sapore di una regressione dell’umano anziché di una sua evoluzione. Questa volta la condizione post umana non è rappresentata dall’androide automa di forma umana, ma da un “umanoide” o meglio ancora un “caprinoide” che ricorda il mondo fatato della mitologia romana (più fauno che satiro) comunque un “dio minore”. L’essere umano in (de)formazione troverà finalmente la sua compiutezza rinunciando alla propria integrità fisica umana e con l’aggiunta di qualche tratto tipicamente ovino? Questo passaggio da completamente umano a semidio seppure con le sembianze di pecora è pur sempre un progresso a pensarci bene, ma dipende sempre dai punti di vista ovviamente.
Nella sua vis provocatoria l’autore sembra volerci proporre quasi una forma di “transumanesimo al contrario” e non senza una punta di velata ironia, ribadisco. In fondo, sembra emergere davvero la caricatura dell'uomo che “pretende” di trascendere se stesso per elevarsi a dio, ma che nel suo delirio di onnipotenza (o di trascendenza), in questa sua foga permanente di non voler rimanere completamente umano, finisce per realizzare le nuove potenzialità della sua natura umana dimezzandola: la trasformazione post umana si compie diventando questa volta mezzo umano e mezzo pecora. Punizione? Disastro tecnologico? Oppure gli Dei hanno davvero un discutibile senso dell’umorismo?
Se è vero che - ora si potrà viaggiare nel tempo - e magari anche - tornare indietro nel tempo - allora tutto può diventare possibile e plausibile. Le leggi della natura e della fisica così come oggi le abbiamo apprese potrebbero non  essere più.
Qui forse, la vera questione è che, comunque la vediamo, questa “natura umana” ci sta stretta e diventa una sorta di prigione da cui vogliamo evadere ad ogni costo. La fuga all'indietro versoun mitico stato di natura simboleggia come da copione la volontà di liberarsi dai pregiudizi e dalle convenzioni che limitano la nostra libertà e la nostra autonomia. Un modo di affermare alla fin fine un’identità propria e non più subordinata a un nemico comune: il mito della “struttura sociale” che ci vuole tutti donne e uomini sottomessi; tutti “condannati ai rispettivi corpi, talenti e ruoli”. Insomma, la mescolanza o l’unione genetica diventano qui lo strumento essenziale per realizzare la trascendenza come metafora (o una sua parodia) della “libertà” totale e rientrano nel processo “naturale” (o via obbligata) di mutamento stesso della condizione umana, quindi.
Il titolo del film sembra volersi porre sulla scia di altre opere cinematografiche che “idealmente” intendono contestare il “meccanicismo dualistico cartesiano”.
 Qui si vuol perorare idealmente la causa dell’estrema rinuncia ad ogni - dualismo tra uomo e animali, tra uomo e piante, tra anima e corpo, tra pensiero e materia -. In sostanza, si ammette l’«unitarietà del reale». L’impostazione filosofica del film è “apertamente materialista”, potremmo dire.
Allora, assistiamo alla nascita di una “bambina” con un corpo metà umano e metà agnello partorita da una pecora appartenente cioè ad una specie animale non umana. Gli animali cosiddetti “inferiori” sembrano in realtà superiori agli umani pure nella capacità di generare individui originali seppure un po’ bizzarri oltre che per la loro maggiore attitudine a sopravvivere anche senza gli umani, mentre gli umani non potrebbero sopravvivere senza le altre specie animali (non al momento almeno). L’analogia tra l’animale umano e le altre specie animali è qui chiara e colpisce tutti. Il regista non ricorre ad alcuna artificio retorico, non utilizza alcun infingimento politicamente corretto allo scopo di non “sconcertare il borghese”. Invece, punta schiettamente ad aggirare la censura interiore dello spettatore: “La cosa” è qui per allarmare e affascinare contemporaneamente l’osservatore. Tenerezza e simpatia, avversione e angoscia sentimenti apparentemente inconciliabili si mescolano senza soluzione di continuità nella mente dello spettatore così come la piccola “Ada diventa il simbolo di una continuità tra specie geneticamente incompatibili (ma non totalmente, a pensarci bene),  “rediviva creatura-sintetica” o meglio ancora risultato della “reazione di precipitazione” di tutte le proiezioni delle nostre ansie e preoccupazioni e dei nostri desideri e bisogni più reconditi.
 È questo un film ecologista? Uomini, animali, macchine, piante: siamo tutti uguali sotto molti aspetti. Sono più le somiglianze che ci accomunano che le differenze che ci dividono, in fondo. Puri meccanismi che “si muovono da sè” senza alcun - intervento dall’Alto -. Alla fine, - Esiste una sola Sostanza cosmica variamente modificata che tutto pervade -.
“Ada”rappresenta la sintesi di due mondi apparentemente “incompatibili” o che tali si (rap)presentano nelle intenzioni e nei comportamenti scellerati degli umani tante volte. Il corpo-chimera della piccola “Ada” risulta  libero da qualsiasi  intralcio dogmatico di tipo contemplativo, astratto, metafisico, fisico e biologico.È “libertà” allo stato essenziale.
In più non c’è spazio per salti ontologici. Dall’animale uomo all’animale ibrido il movimento non è traumatico e non servono nemmeno millenni di metamorfosi genetiche per dare origine ad un nuovo organismo, per innescare “un nuovo inizio”. E se adesso “mi chiedi di spiegarti che cazzo significa” tutto questo, ti rispondo “felicità”. Qualunque cosa dia pura gioia è lecita, dunque? E cosa avrebbero dovuto fare dopotutto i due coniugi? Rassegnarsi al destino di una sofferenza senza fine? Invece, hanno inteso opporsi a questa loro “condanna”: hanno sfidato le convenzioni per di più violando le leggi scritte e quelle non scritte. Farsi carico di Ada è autentica “felicità” solo questo conta. Risuona una accenno di “Epicureismo” tra le righe?
Non è un film catartico di sicuro. I carnivori non smetteranno di mangiare agnelli a Pasqua, né diventeranno vegetariani nel resto dell’anno e i cacciatori non smetteranno di uccidere animali per “sport” o puro divertimento, purtroppo.
È un film animalista, dunque? La “valorizzazione” del mondo animale non è qui il nocciolo della questione, mi pare. Semmai la “macchina umana”, si serve dell’animalità del gregge come emblema di certa realtà. L’animale uomo e l’animale pecora sembrano programmati nella stessa identica maniera: - Vittime! Non lo siamo tutti? -. La banale quotidianità delle pecore stipate nei recinti che mangiano e attendono e figliano all’occorrenza con i loro sguardi che sembrano persi costantemente nel vuoto ci sembra abbastanza triste, ma ciò che è peggio forse è che quella quotidianità non sembra nemmeno tanto diversa dalla routine di Maria e Ingvar che non si parlano nemmeno più.
Ada non è “dis-umana”, non è un mostro contro natura, è semmai “sovr-umana” in questo suo - assomigliarci sotto diversi aspetti, ma mai del tutto -. Ada è un “dono” una creatura chiamata a riempire un vuoto, eletta a sostituire un’assenza cui non ci si rassegna (sta qui l’aberrazione autentica, forse) e anche se la subentrante è un po’ “strana” poco importa. E poi gli anni passano e Ada vestita come una bambina è sempre più intenta a fare cose da umani insieme ai genitori (“acquisiti?”, “putativi?” O soltanto “ladri di cuccioli?”) e sembra passo dopo passo sempre più umana tanto che ci aspettiamo che acquisisca alla fine del film forme definitivamente umane con tanto di “parola” d’ordinanza. C’è in questa aspettativa forse il bisogno di inglobare il “diverso”, di fagocitarlo annullandone l’identità? Ma “Ada” non ha bisogno di parlare. Sa farsi intendere benissimo lo stesso in un mondo in cui le parole non servono più tante volte nemmeno per comunicare.
O forse si tratta di una velata critica a quella sorta di antromorfizzazione forzosa cui sottoponiamo tante volte i nostri animali domestici ai quali tendiamo ad attribuire aspetto, attitudini e destini umani cominciando a trasferire su di loro sentimenti, emozioni e sensazioni tante volte a sproposito.
 Fino al punto da bardarli in modi francamente ridicoli che mal si conciliano col rispetto che si deve loro e alla loro animalità. Tendenza sia chiaro che manifestiamo soltanto con gli animali di piccola taglia più accomodanti generalmente perché ci guardiamo bene dal mettere la tutina o il fiocco in testa a un Doberman o a un Rottweiler per paura di una loro inconsulta quanto sacrosanta reazione, verosimilmente. Siamo bravissimi noi umani a parlare con cani e gatti ma poi non riusciamo a parlare tra di noi. Strano destino il nostro
E siamo disposti pure ad uccidere pur di difendere il simulacro di una bambina ormai persa per sempre o pur di proteggere l’immagine di un “focolare domestico” divenuto il feticcio di un’intimità familiare che sa tante volte di prigione, di sopraffazione e di volontà di isolamento e chiusura più che essere fonte di sicurezza e protezione. Maria e Ingvar prima privano la madre biologica del suo parto incuranti del dolore che le infliggono e poi Maria esasperata la uccide. E dov’è l’umanità qui? È proprio vero che in nome e per conto della “famiglia” o del suo mal interpretato senso, si possono commettere nefandezze inaudite. Gli istinti di genitorialità possono essere davvero “bestiali”. Di sicuro contengono una certa dose di aberrazione di fondo in diversi casi. Chi è qui la mostruosa creatura, il vero mostro? “Ada” o Maria con il fucile in mano?
 O forse si tratta della solita presuntuosità di chi crede di essere stata plasmata  con “un fango più pregiato” e per ciò stesso si sente legittimata ad imporre la propria “superiorità” al resto degli esseri viventi ritenuti inferiori. Maria uccide la madre biologica di Ada e così facendo si arroga il diritto di esercitare impunemente il suo presunto dominio. Non sa Maria che in realtà col suo gesto efferato si sta valendo di un potere illegittimo: è un’egemonia “innaturale” la sua.
Nella scena finale, il fauno furioso non vuole semplicemente vendicare l’omicidio di un “animale” privato del suo cucciolo, non sta mettendo nemmeno le cose al loro posto riaffermando l’idea di un confine invalicabile tra le specie. E non è nemmeno la solita nenia della natura che “si vendica” e che riafferma il proprio dominio sulla volontà di potenza del genere umano. Non esiste una natura  matrigna. La natura non agisce in vista di scopi precostituiti, non è né cattiva, né buona, non ha fini morali, per così dire. Tuttavia escludere una “concezione provvidenzialistica e finalistica della natura” e riaffermare invece una visione materialistica della natura e dell’umanità non significa esimersi  dall’imputare agli umani la responsabilità delle loro azioni e omissioni: in quanto membri a pieno titolo della natura e in quanto dotati pare di maggiore complessità e intelligenza gli umani hanno pur sempre il dovere di una maggiore consapevolezza nella conservazione e preservazione del pianeta.
 E se la trascendenza passasse davvero per “l’ibridizzazione” fra l’animale umano, animali di altre specie e le piante persino? A conti fatti siamo compartecipi da sempre di un’idea di socialità assolutamente primordiale. Millenni di comunanza antica ci uniscono. In un certo senso viviamo in uno stato di interdipendenza fin dall'inizio dei tempi con le piante e gli altri animali. Invece ci consideriamo estranei all’ecosistema di cui invece siamo parte integrante. La natura siamo noi tutti. Dunque, tra animali e uomini non vi è un «salto» (come direbbe Cartesio): vi è invece uno “specifico” continuum, tra uomini, piante e animali. Come direbbe “La Mettrie”, uomini e animali “siamo” «piante mobili».
Qui se “salto” esiste è il “salto di specie” (ironia della sorte ancora una volta) al contrario, cioè sono le altre specie animali che dovrebbero temere che attraverso un processo artificiale il “patogeno umano” evolva (trascenda) e finisca per infettare, riprodursi e trasmettersi all'interno di altre specie animali. A questo proposito pur con tutti i suoi limiti estetici e cinematografici del caso è interessante l’Idea espressa in un altro film “Annientamento” Annihilation (2018) tratto da un romanzo di Jeff VanderMeerche un po’ si ricollega al nostro discorso.Anche in questo caso le leggi della natura come le conosciamo sono rivoluzionate. Qui si narra in forma distopica dell’«area X» dove si trovano piante con forma di esseri umani quasi fossero “cristallizzati” in foglie, rami e tronchi (le piante pensano?). Pare che il “Bagliore” scomponga e ristrutturi il DNA delle varie specie ridistribuendolo secondo una logica non ben precisata in organismi mutati. E ci sono orsi che riproducono le urla disperate della loro preda umana la cui anima adesso vive nella bestia mutante. Osserviamo varie piante dai fiori variopinti mutanti e dalle proprietà non propriamente benefiche, forse. E poi alligatori mutanti, con delle fauci contenenti più file di denti come in uno squalo. Ops! Ok, tutto bellissimo, ma vediamo di essere più costruttivi.  N'est-ce-pas?

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