Cento minuti di pellicola per raccontare la vita di un uomo, riassumerne il passato e concentrarsi sul suo presente: Daniel Blake. Siamo a Newcastle, di cui si vede qualche strada, qualche casa, dei capannoni, alcuni marciapiedi con steccati, interni casalinghi, un supermarket e uffici. La società contemporanea fa mostra di sé: mossa da una burocrazia schiacciante, che fa del computer uno strumento infallibile di potere e degli impiegati soltanto dei burocrati senza cuore, disumani, ciechi, incapaci di riconoscere l’umano quando è davanti a loro. Il rispetto delle regole non concede un barlume di dubbio, esitazione, strappo. Solo poche eccezioni tradiscono il quadro, come se pochi fossero “l’anello che non tiene” o il “varco” montaliano: appaiono per questo come sparuti sopravvissuti di un mondo scomparso, in cui l’umano era umano e non doveva protestare per ribadirlo, era evidente. Ora invece l’uomo deve scrivere su di un muro di un ufficio con una bomboletta spray: “I, Daniel Blake”, IO, sono un nome e cognome e non una pratica, un numero, un turno, un codice. Un gesto dal sapore liberatorio, un reato davanti alla legge, un grido d’aiuto raccolto da passanti e altri ‘diseredati’ che sanno ancora offrire un briciolo di solidarietà, o meglio di fratellanza (si pensa che il barbone che offre il cappotto a Daniel Blake prima che questi sia portato via dalla polizia, con le sue parole e i suoi gesti incarni il regista stesso).
Si ha timore nel vedere una simile rappresentazione, perché è lo specchio fedele della realtà.
Loach, il grande Ken Loach, con una grazia e una delicatezza senza paragoni gira un film senza mai cedere al buonismo, senza mai cedere alla tentazione di mostrare la crudeltà nei suoi risvolti più cruenti: tutto si svolge senza bisogno di attraversare fino in fondo una soglia, quella della decenza. C’è un rispetto verso la persona che è autentico, come autentico è da sempre lo sguardo di questo coraggioso regista britannico.
Gli attori sono bravi, bravissimi, in particolar modo il protagonista, interpretato da Dave Johns, e una ragazza, Kattie (nei panni dell’attrice Hayley Squires), madre di due bambini, venuta da Londra e destinata a incrociare con il protagonista il triste destino segnato dalla burocrazia.
Una scena segna la pellicola in maniera eccezionale: si svolge in una “banca del cibo”, una sorta di centro d’aiuto in cui si offrono generi di prima necessità, in cui il semplice gesto di apertura di una scatola di fagioli e il tentativo di cibarsene diventa megafono di una fame, di uno stato di povertà che lascia senza via di scampo, che inchioda tutti ad una riflessione. Si assiste a cosa vuol dire oggi umiliazione, disumanizzazione, imbarbarimento. E questo non riguarda tanto le vittime, quanto i carnefici, perché la vittima è salva, anche laddove sembra soccombere, rimanendo umana dall’inizio alla fine. È salvo Daniel Blake, uomo delicato, amante del legno, capace di aggiustare le cose e di crearne delle altre, capace di ascolto, sentinella di giustizia, generoso dispensatore di piccoli gesti salvifici, che quando esci dalla sala ti accompagna ovunque tu vada…
Un film bellissimo che ha meritato la Palma d’oro per il miglior film a Cannes nel 2016, pochi giorni prima dell’ottantesimo compleanno di Ken Loach, uomo stra-vagante e magnifico del nostro tempo.
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