Io, Daniel Blake

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La dignità ultima a morire Valutazione 4 stelle su cinque

di vanessa zarastro


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sabato 22 ottobre 2016

Burocrazia, tecnologia e privatizzazione, sono, in ordine, le malattie del mondo occidentale nel XXI secolo. Se potevamo pensare che in Gran Bretagna le cose potessero andare meglio che da noi, questo film ci fa provare una grande delusione. E perché allora mandiamo i nostri figli a studiare e a lavorare lì dove la gente muore di burocrazia? La vicenda che Ken Loach narra nel suo Io Daniel Blake, fa paura perchéè una storia che potrebbe succedere anche a noi o a qualche nostro amico o conoscente.
Siamo a Newcastle sul Tyne nel nord dell’Inghilterra, e un onesto carpentiere cinquantanovenne rimasto vedovo da non molto tempo, ha avuto un serio attacco cardiaco che sta superando con medicine e terapia riabilitativa. Naturalmente non può lavorare – o almeno per un certo periodo finché lo ritengono i medici – e fa domanda di invalidità per ottenere l’indennità di malattia. Con tutte le difficoltà burocratiche del caso, dalla compilazione di moduli obbligatoriamente on-line, a una serie di domande assolutamente inutili e idiote che non prendono in esame il caso particolare ma che generalizzano sull’impossibilità ad autogestirsi - «Ho già compilato cinquanta pagine del formulario» - afferma Blake. Una vola che il sussidio gli è stato negato Daniel Blake è costretto a fare domanda per quello di disoccupazione. Per dimostrare la sua buona volontà allo Stato Blake dovrà prima fare un workshop, poi passare le sue giornate a scrivere curricula e a portarli in varie fabbriche, officine, e vivai. La cosa più assurda è che casualmente troverà pure chi lo vuole assumere ma è costretto a rifiutare perché ancora inabile al lavoro. In un crescendo di difficoltà tecnologiche – dall’uso esclusivo del computer alle foto con lo smartphone come prova - il nostro eroe arriverà solo alla fine a fare ricorso per l’indennità di malattia. Nel frattempo, in uno di questi assurdi uffici burocratici, incontra Daisy, una ragazza con due figli anch’essa disoccupata e indigente, appena arrivata da Londra. Lui l’aiuterà sia nel mettere su casa – «So aggiustare di tutto dice Blake» – sia nell’occuparsi dei suoi figli. L’umanità, la solidarietà e la dolcezza di queste persone sono il lato più commovente del film. Molto toccante è la scena nella “banca alimentare” organizzata da volontarie che suppliscono a quell’assistenza che lo Stato dovrebbe fornire. Daniel Blake pian piano e con pazienza riesce a conquistare i figli di Daisy, Kattle e perfino lo scorbutico e problematico Dylan, entrambi figli di padri assenti, che gli si affezioneranno. Sarà poi proprio Daisy, riconoscente, a essergli vicino nella sua ultima battaglia.
Loach è sempre dalla parte degli onesti, dei disoccupati, delle persone semplici che abbiano comunque subìto dei soprusi. Il suo è un cinema militante. Ho letto da qualche parte che Ken Loach, ormai ottantenne, aveva deciso di smettere di fare film ma quando ha sentito della possibile privatizzazione della polizia, ha voluto lo stesso girare ancora un film duro e amaro – infatti fa dire a Daniel Blake rivolto ai poliziotti «Fra un po’ privatizzeranno anche voi».
Con il cinema di Ken Loach si entra nelle vite dei personaggi passando direttamente dalla porta principale, vivendoci insieme e affrontando con loro il senso d'impotenza e la ricerca di un’alternativa. La storia di Daniel Blake, come tutte le altre rappresentate da Loach, è una storia di uomo onesto che non si piega né alle regole della burocrazia né ai compromessi facili.  Il protagonista è oggettivamente un perdente, nel senso e dal punto di vista materiale, che man mano perde tutto, è invece un vincente sul piano etico e gli rimane ciò che non sono riusciti a togliergli, cioè la dignità di persona.

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