Io, Daniel Blake

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La bomboletta di Daniel contri il muro dello Stato Valutazione 3 stelle su cinque

di Riccardo Tavani


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sabato 26 novembre 2016

Serena l’arte e tremenda la vita: in questo contrasto si può riassumere la forza di I, Daniel Blake, il film che strappa la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2016. La serenità è nella forma che l’autore conferisce alla sua opera. Alle inquadrature, alla sequenza delle scene, al montaggio, ai dialoghi. Tutto scorre sullo schermo di luce pulita, con toni drammatici, cromatici e acustici discreti, ma proprio questo fa salire meglio – poco alla volta e da dentro l’immagine stessa – la tremenda crudeltà amministrativa dell’assistenza sociale capitalistica, qui nella sua versione più formale, ossia più squisitamente british. Una scelta stilistica, quella di Loach, che gli consente una tale internità alla realtà da sfumare davvero i confini tra questa e il cinema, come mera riproduzione fotografica esterna. Sereni, luminosi, puliti, garbati, sono anche i personaggi messi in scena da Loach. Daniel Blake, un anziano, provetto carpentiere di Newcastle, che ha subito un infarto proprio sul cantiere e ora non può riprendere il lavoro. Daisy, una giovane donna ridotta sotto la soglia di povertà, appena arrivata da Londra con due figli, per un appartamento che le è stato assegnato dall’assistenza sociale. L’avversario tremendo di questi semplici e onesti cittadini inglesi è proprio chi dovrebbe sostenerli nel momento di maggiore bisogno: il servizio di assistenza sociale, lo Stato. Ricordiamo che lo Stato moderno nasce teoricamente proprio per difendere i cittadini da ciò che minaccia la loro vita. La mancanza di reddito mette radicalmente in forse la possibilità di sopravvivenza delle persone. Dalla perdita del lavoro, alle crisi bancarie e finanziarie, molti sono i fattori che oggi privano di reddito le persone e minacciano direttamente la loro vita. Il Welfare State, lo stato sociale, come forma di sostegno che un Paese deve offrire ai suoi cittadini nasce proprio in Inghilterra, in Europa, a seguito dei conflitti sociali e politici dello scorso secolo. Oggi anche questa forma sociale è messa in discussione, giorno per giorno sgretolata, smantellata, e così lo Stato dalla protezione che dovrebbe garantire, diventa la minaccia più grave nei confronti dei singoli e della collettività. Minaccia più grave perché contro di essa, contro la forza immane del Leviatano di Stato non c’è difesa. Nell’ordine della cifra stilistica che connota tutto il film, Loach ci fa sentire sulla pelle come questo Moloch non si presenti nelle vesti della brutalità, della prepotenza e del sopruso più appariscente. No, esso si esemplifica nei modi del mondo amministrato, di un muro inaccessibile, sordo, cieco, impassibile. Di un sottile stillicidio di crudeltà – che assumono oggi anche la forma elettronica computerizzata – calibrate per far soccombere lentamente ma inesorabilmente l’individuo. Lo Stato viene così sollevato anche dall’incombenza dell’eliminazione materiale della persona, provvedendo essa stessa ad auto-eliminarsi in modi diversi, dagli espedienti variamente illeciti per sopravvivere alla prostituzione, al proprio improvviso crollo finale. Serena è l’arte di Ken Loach ma non il senso di giustizia la cui mancanza ci fa sentire come un dolore lancinante, insopportabile, ché basta appena bisbigliarlo, scriverlo con una bomboletta su un muro per ricordarci che le persone hanno un nome e un cognome e l’anonima spietatezza dello Stato non può schiacciarle.

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