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Che lingua parla l'Infinito Valutazione 4 stelle su cinque

di Riccardo Tavani


Feedback: 33555 | altri commenti e recensioni di Riccardo Tavani
mercoledì 1 febbraio 2017

Film vestito di fantascienza ma che più di noi umani “qui e ora” non potrebbe parlare. Ma che lingua parla una specie che viene dall’infinito? Ancora prima: siamo sicuri che essa si esprima attraverso qualcosa di simile a ciò che noi chiamiamo “linguaggio”? Queste sono le disperate, immani domande che una delle massime linguista Louise Banks della Terra si pone, pressata non solo dalle proibitive difficoltà dell’impresa assegnatale ma anche dal tempo vertiginosamente ristretto concessole. Tutto il mondo è già con il dito sul grilletto nucleare. Dei molti, vani tentativi di Louise, arrovellandosi con le sue alte conoscenze e teorie linguistiche, al governo americano interessa solo che lei arrivi immediatamente la alla domanda capitale: “Cosa siete venuti a fare qui?”. È qui che il film diventa urgentemente umano e attuale. Louise, infatti, è soprattutto angosciata dalla possibilità di equivoco. La stessa parola “arma” potrebbe significare proprio “lingua” per questi extraterrestri Eptapodi. È esattamente quello che capita agli umani. Insistono sempre sul “dialogo”, ma il più delle volte sono destinati all’ambiguità, all’incomprensione, allo scontro linguistico e fisico. La base di questo equivoco ontologico, strutturale è nello stesso linguaggio umano. Le parole sono qualcosa di diverso dagli oggetti che indicano. La parola “pipa” – per citare un celebre quadro di Magritte – non è affatto la stessa cosa materiale che indica (e neanche l’immagine dipinta della pipa è la pipa stessa). L’indicare nominalmente un oggetto non significa per niente comprendere o comunicare l’essenza di quell’oggetto, che resta inesorabilmente e in gran parte inespressa. A uno stesso oggetto o stato di cose, sotto un diverso parallelo storico, geografico, emozionale gli uomini possono assegnare significati diversi. Il film prede a riferimento la teoria neurolinguistica di Sapir-Whorf. La estremizza, si è obiettato. Sì, ma qui si tratta di un film, non di un saggio accademico, e quante volte opere narrative hanno saputo intuire prima della scienza? Questa teoria dice che parlare, pensare, scrivere un’altra lingua cambia il modo di percepire il mondo. Mettiamo ora un sistema di segni – grafici, geometrici, matematici, acustici, mentali, epidermici (quello che volete) – che affondi le proprie radici nell’infinito spazio-temporale. Per la stessa teoria della relatività di Einstein in una tale dimensione tutto “avviene” simultaneamente. Anche le regioni più remote giacciono su uno stesso piano fisico universale, connesse in un presente storico permanente, senza tempo. Una lingua che “parlasse” tale dimensione non potrebbe che esprimersi attraverso un’indistinzione tra passato e futuro. Vedere l’uno insieme all’altro. Non solo, ma esprimere anche una compenetrazione tra stati percettivi, logici e corporei-emozionali. Forse allora sarà davvero possibile immediatamente sentire lo stesso significato nell’espressione, anche se appena bisbigliata: “In guerra non ci sono vincitori, ma solo vedove”. Il regista Denis Villeneuve, dopo “La donna che canta”, che sale su dalle viscere infuocate, mediorientali della terra in guerra, ci immerge in questa atmosfera cinematografica fredda, biancastra, opaco-sporca da “movie-scienze” abissalmente contemporaneo, offrendo anche alla protagonista una possibilità davvero stellare di prova d’attrice. Possibilità che Amy Adams – dopo la sua recente grande interpretazione di “Animali Notturni” – riesce a mettere a segno in pieno.
 

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