Oro Verde - C'era una volta in Colombia

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Capitalismo vs culture indigene Valutazione 4 stelle su cinque

di vanessa zarastro


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venerdì 2 agosto 2019

Spesso, grazie alle rassegne estive, si ha modo di vedere film sfuggiti quest’inverno. È il caso di “L’oro verde – C’era una volta in Columbia” del 2018, uscito nelle sale italiane questa primavera e riproposto in un’arena romana.
Attraverso la regia di questo film, i due colombiani Cristina Gallego e Ciro Guerra, parlano di una popolazione dove le donne avevano un’enorme importanza. Nella cultura Wayuu, infatti, è proprio la donna a essere la vera capo-famiglia.
Il film “Pájaros de verano” (uccelli estivi), titolo originale, narra la trasformazione, dagli anni ’60 in poi, di un popolo - gli indiani Wayuu - che ancora vive di pastorizia e di coltivazione della terra. Oggi in Colombia questa popolazione, che vive prevalentemente nella Penisola della Guajira, è stimata di circa 140.000 unità e di poco più in Venezuela.
È mostrata la vita di una famiglia Wayuu, con un legame ancestrale con la terra, che osserva il passaggio degli uccelli, e che scorre lenta tra rispetto della tradizione e un insieme di credenze o pratiche rituali proprie delle società antiche, specie quelle legate a culti pagani fondate su presupposti magici e soprannaturali, dove i sogni hanno un’importanza profetica. Inoltre, nella cultura Wayuu esiste il culto dei morti e sono rispettate e protette alcune fasce deboli come quelle degli anziani. I Wayuu si distinguono dagli alijunas, ovvero dagli altri popoli e dalle altre etnie.
La prima parte del film mostra con tempi reali l’iniziazione di Zaida - sotto lo sguardo severo della bellissima capo-famiglia Ursula - che dopo aver passato un mese in isolamento, si lancia in una danza colorata e piuttosto seduttiva, dove è la donna a guidare.
Rapajet è un Wayuu ma è stato cresciuto dagli alijunas, quindi se vuole sposare la bella Zaida dovrà rafforzare la sua identità etnica sottoponendosi a varie prove e portando una bella dote in dono alla famiglia della sposa.
Per affrettare il suo matrimonio, e per ambizione personale, da semplice commerciante di caffè, Rapajet si trasforma in narcotrafficante in un crescendo che porta inevitabilmente con sé un aumento della violenza, anche a causa di un socio sballato. Inizia così vendendo la marijuana ai ragazzi del Peace Corps verso laa fine degli anni Sessanta, e man mano diventa un ricco trafficante internazionale di cocaina scatenando l’odio e le invidie di altri gruppi concorrenti.
Lo scontro fra la cultura Wayuu e il progresso diventa il cuore di una differente e inattesa prospettiva. Ci sarà un’inevitabile evoluzione di dissidio fra i clan, un aumento della corruzione con la conseguente perdita dei valori tradizionali fino ad arrivare allo stesso annientamento della famiglia.
Dal giallo di una capanna nel deserto al bianco di una villa costruita in mezzo al nulla che sembra più una fortezza ma che sarà totalmente distrutta, il film cattura emotivamente lo spettatore conducendolo in un’esperienza sensoriale e forse anche esistenziale. Poi resta solo il nero del fumo nel tramonto mentre le mura che crollano.
Pur prendendo spunto da fatti realmente accaduti, i due registi non son interessati alla cronaca, ma alle conseguenze antropologiche e culturali trasmesse dalla questione del traffico di stupefacenti fra gli Stati Uniti e l’America Latina. La tesi dei registi è quindi che una delle sue ripercussioni è la distruzione di quella piccola parte di popolazioni native che ancora sopravvive nel continente americano.
Il film presenta una struttura narrativa lineare e sintetica quasi da diventare surreale, con un tempo ellittico e ipnotico, ma ben agganciato alla matericità dei corpi, così come aveva già fatto Ciro Guerra in “El abrazo de la serpiente” (2015), che ho avuto modo di recensire. Quel film, altrettanto duro, denuncia le follie umane, i soprusi e le violenze perpetuate da uomini su altri uomini, mostra il potere esercitato sui più deboli: i bianchi in cerca di caucciù sugli indios, il missionario che flagella i bambini orfani, il sedicente Messiah che, esercitando un potere psicologico, costringe gli indios ad autoflagellarsi e a suicidarsi, e così via. Alla fine di “El abrazo de la serpiente”, girato in Amazzonia, viene da chiedersi se sia stato giusto importare in quei luoghi “civiltà” e religioni così avulse dal territorio, invece di rispettare quella sorta d’incantato “genius loci”.
Nel 1998, Cristina Gallego assieme a Ciro Guerra ha fondato Ciudad Lunar che ha prodotto parecchi intensi film diretti da Ciro Guerra come “La sombra del caminante” (2004), “La viajes del vento” (2009), oltre al già citato “El abrazo de la serpiente” (2015), tutto girato in bianco e nero.

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