Seconda Guerra Mondiale. Gli americani avanzano inesorabili all’interno della Germania nazista, incontrando tuttavia una forte resistenza da parte dei tedeschi. Il sergente carrista Don Collier (Pitt) e l’equipaggio del suo carro (nome di battaglia “Fury”), con il quale ha combattuto per 3 anni in giro per il mondo, dall’Africa alla Normandia, perde in combattimento il copilota/mitragliere. Come sostituto il comando gli invia il giovane Norman, un dattilografo, reclutato otto settimane prima, che non ha mai visto il fronte né ucciso un uomo, per il quale arriva il momento del battesimo del fuoco. Seppur riluttante a prendere parte alla guerra, il ragazzo si farà coinvolgere rapidamente, sotto la rude, ma paterna guida di Don, fino all’ultima eroica missione.
Il film parte bene, con un ritmo incalzante, incentrato sulla figura dei carristi, soldati spesso dimenticati nei film del genere, ma non per questo meno valorosi (un carrista sopravviveva in media 6 settimane durante il conflitto e spesso moriva bruciato vivo dentro il proprio carro) e martella fin dalle prime scene sulle metafore carro/casa e equipaggio/famiglia, dove si litiga, si scherza, ci conforta, ci si protegge. La narrazione segue il percorso di crescita di Norman, inizialmente contrario a prendere parte al conflitto, poi costretto e spronato dagli eventi a “diventare uomo” e ad iniziare a uccidere i nazisti senza pietà. Il mutamento di Norman è repentino, asettico, come a sottolineare quanto la guerra sia in grado di cambiare l’uomo rapidamente. In questo contesto spicca la figura di Don “Wardaddy” Collier, il sergente interpretato da Brad Pitt, duro, gagliardo e gloriosamente bastardo (ma meno riuscito del tenente Aldo Raine del film di Tarantino), che con un atteggiamento duro ma protettivo lo inizierà alla guerra, all’amore, alla fratellanza, all’eroismo.
Dan Ayer si avventura per la prima volta sul terreno dei film di guerra e produce, dirige e sceneggia questo buon lungometraggio, attingendo a mani basse da Spielberg e dai film del genere, ma, nonostante alcune scene memorabili (su tutte la scena nella casa delle due tedesche, ma anche quella della battaglia contro il Tiger tedesco, con i carri che si affrontano come cavalieri medievali con cannoni al posto delle lance) pecca sulla sceneggiatura, dopo gli ottimi risultati di Training Day End of Watch.
Infatti, pur scimmiottando il finale di Salvate il Soldato Ryan (la difesa della posizione a qualunque costo, la scarsità di munizioni, il sacrificio estremo) il regista non riesce a darle quell’intensità ed espressività del film di Spielberg, trasformandola in una lunga e spettacolare battaglia, dove gli eroi riescono fino all’ultimo, non si sa bene come, a tenere sotto scacco e a decimare un intero battaglione di SS, che seppur equipaggiato con armi anticarro non riesce ad aver la meglio di un carro danneggiato e impossibilitato a muoversi; il tutto condito da scene al limite del fantascientifico, (la ricerca delle munizioni fuori dal carro o l’esplosione delle granate dentro il carro che lasciano miracolosamente integri i corpi dei soldati) cosa che i puristi del genere non tollereranno. Ma anche per i più inclini a queste “americanate” risulterà indigesta l’inverosimiglianza e l’autoesaltazione del finale, che fa perdere credibilità e quindi la drammaticità alla pellicola, macchiando nel finale un buon film di guerra.
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