boyracer
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martedì 10 settembre 2013
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milano (italia) da ricostruire.
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Gianni Amelio è un grande regista, Antonio Albanese un grande attore (prima ancora che comico), su questi due dati di fatto, due ovvietà, potremmo azzardare, crediamo non si possano avere dubbi.
Dal loro incontro non poteva che nascere un grande film… Eppure c’è qualcosa che non torna in questo pur buon lavoro, qualcosa che lascia l’amaro in bocca e la classica impressione di occasione sprecata.
L’idea di partenza, il soggetto, è certamente azzeccata: Antonio, il protagonista (Albanese), è un lavoratore molto atipico, rimpiazza gli altri quando per qualsiasi motivo non possono recarsi sul luogo di lavoro, ma nemmeno possono restare assenti, neanche per malattia (perché magari non è contemplata nel contratto… quando il contratto c’è!).
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Gianni Amelio è un grande regista, Antonio Albanese un grande attore (prima ancora che comico), su questi due dati di fatto, due ovvietà, potremmo azzardare, crediamo non si possano avere dubbi.
Dal loro incontro non poteva che nascere un grande film… Eppure c’è qualcosa che non torna in questo pur buon lavoro, qualcosa che lascia l’amaro in bocca e la classica impressione di occasione sprecata.
L’idea di partenza, il soggetto, è certamente azzeccata: Antonio, il protagonista (Albanese), è un lavoratore molto atipico, rimpiazza gli altri quando per qualsiasi motivo non possono recarsi sul luogo di lavoro, ma nemmeno possono restare assenti, neanche per malattia (perché magari non è contemplata nel contratto… quando il contratto c’è!). E li rimpiazza nei lavori più umili e faticosi che esistono a Milano, un vero tuttofare che si adatta con “passione” a qualsiasi impiego, anche se poi non sempre viene pagato. Ha un figlio adulto ed è separato dalla moglie, si arrabatta come può in attesa un giorno di trovare uno di questi lavori in maniera stabile. Un giorno incontra una giovane ragazza sfortunata più o meno come lui, e, come sempre fa con tutti, cerca di aiutarla.
Questo buon soggetto, che può favorire la trattazione di tanti argomenti attualissimi, viene però reso “improbabile” dall’eccessiva esasperazione del personaggio. Non sappiamo se esistano veramente figure di questo tipo, ma anche se fosse non potrebbero realmente fare (e così bene) tutti i lavori che Albanese fa nel film. La precarietà è certamente uno dei mali maggiori della nostra società, ma caratterizzarlo in modo così estremo e irrealistico, rischia di farne quasi una macchietta.
Da questo spunto vengono poi affrontati diversi altri mali dell’Italia disastrata di questi anni, insieme alle sue vittime (decine di palazzi in costruzione che cancellano il cielo dalla vista e coprono di cemento la terra, extracomunitari sfruttati, giovani disadattati senza futuro né speranza, cittadini indifferenti, personaggi senza scrupoli, persone sole che non sanno più parlare con nessuno…), forse in un eccesso di argomenti che lascia un po’ confusi.
Inoltre la recitazione eccessivamente lirica e teatrale, sicuramente chiesta da Amelio ad Albanese, e non certo una peculiarità negativa di quest’ultimo, e i tempi particolarmente lunghi delle scene, pregiudicano il piacere di apprezzare la poesia delle immagini e dei dialoghi che raggiunge in certi momenti livelli molto elevati.
Un film comunque da vedere, una buona prova d’autore e da attore, ma le aspettative (giustamente) alte dall’incontro di due grandi del cinema italiano, non sono state del tutto soddisfatte.
Nota di folklore a margine.
Antonio Albanese ha regalato domenica una breve presentazione del film al pubblico delle 20,00. Prima si è concesso ad autografi e foto di rito con l’entusiasmo e la disponibilità che tutti gli attori italiani dovrebbero avere (“dovrebbero”, sì). Antonio è un vero artista appassionato del suo lavoro e pieno di riconoscenza verso il suo pubblico, che scherza e gioca con i suoi fan come un bambino felice, divertito e quasi incredulo della sua notorietà, ancora adesso dopo oltre venti anni di carriera straordinaria che l’hanno portato ad essere uno dei principali attori del panorama italiano. Ancora con l’umiltà e l’entusiasmo di un principiante. Chapeau!
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lucyelisa
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lunedì 9 settembre 2013
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film interessante
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Gianni Amelio, con la grande sensibilità che caratterizza tutta la sua produzione artistica , affida la rappresentazione della tragedia umana della disoccupazione , dello sfruttamento e della precarietà alla splendida interpretazione di Antonio Albanese, attore eclettico e versatile , capace di passare dal cinismo e rozzezza di Cettolaqualunque alla delicatezza , ingenuità e sensibilità di Antonio Pane, un uomo buono e generoso , maestro elementare privo di stabile occupazione ( separato dalla moglie ) che fa di mestiere il "rimpiazzo" ma con levità, motivazione , serietà e senza autocommiserarsi , sullo sfondo di una Milano plumbea con una efficace fotografia . Riaffiorano i temi cari ad Amelio , la realtà dell'Albania ( "Lamerica" ) i rapporti tra padre e figlio ( "le chiavi di casa" ) ed ,in genere ,l'inquietudine giovanile, ma i due giovani protagonisti , mi sembrano appena abbozzati rispetto al protagonista e le sequenze risultano un po' slegate e scarsamente omogenee ; ne risulta un ritmo narrativo piuttosto lento e cupo ,senza sussulti , con un risultato complessivo di una certa pesantezza che nuoce all'originalità dell'idea di fondo ed alla memorabile performance del protagonista.
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Gianni Amelio, con la grande sensibilità che caratterizza tutta la sua produzione artistica , affida la rappresentazione della tragedia umana della disoccupazione , dello sfruttamento e della precarietà alla splendida interpretazione di Antonio Albanese, attore eclettico e versatile , capace di passare dal cinismo e rozzezza di Cettolaqualunque alla delicatezza , ingenuità e sensibilità di Antonio Pane, un uomo buono e generoso , maestro elementare privo di stabile occupazione ( separato dalla moglie ) che fa di mestiere il "rimpiazzo" ma con levità, motivazione , serietà e senza autocommiserarsi , sullo sfondo di una Milano plumbea con una efficace fotografia . Riaffiorano i temi cari ad Amelio , la realtà dell'Albania ( "Lamerica" ) i rapporti tra padre e figlio ( "le chiavi di casa" ) ed ,in genere ,l'inquietudine giovanile, ma i due giovani protagonisti , mi sembrano appena abbozzati rispetto al protagonista e le sequenze risultano un po' slegate e scarsamente omogenee ; ne risulta un ritmo narrativo piuttosto lento e cupo ,senza sussulti , con un risultato complessivo di una certa pesantezza che nuoce all'originalità dell'idea di fondo ed alla memorabile performance del protagonista.
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tiberiano
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domenica 22 settembre 2013
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una fiaba amarissima
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Antonio Pane sembra uscito da una fiaba di altri tempi, tanto è improbabile il personaggio interpretato da Albanese, qui in un ruolo per nulla comico o grottesco.
Ingenuo a livelli patologici, portato ad aiutare gli altri senza chiedere nulla in cambio, magari mettendoci pure di tasca sua. Disponibile a oltranza anche sul piano lavorativo, sa far tutto, ma senza tutele, diritti o pretese.
Una specie di tappabuchi factotum, per incarichi di basso profilo, a breve termine e a costo quasi nullo. il profilo ideale del lavoratore dipendente nel XXI secolo, se vuol esserci una metafora ideologico-sociale, in questo film.
Una macchietta amarissima, come tutta la storia, ambientata in una Milano crepuscolare, decadente, periferica e proletaria, assai ben resa dalla fotografia di Bigazzi.
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Antonio Pane sembra uscito da una fiaba di altri tempi, tanto è improbabile il personaggio interpretato da Albanese, qui in un ruolo per nulla comico o grottesco.
Ingenuo a livelli patologici, portato ad aiutare gli altri senza chiedere nulla in cambio, magari mettendoci pure di tasca sua. Disponibile a oltranza anche sul piano lavorativo, sa far tutto, ma senza tutele, diritti o pretese.
Una specie di tappabuchi factotum, per incarichi di basso profilo, a breve termine e a costo quasi nullo. il profilo ideale del lavoratore dipendente nel XXI secolo, se vuol esserci una metafora ideologico-sociale, in questo film.
Una macchietta amarissima, come tutta la storia, ambientata in una Milano crepuscolare, decadente, periferica e proletaria, assai ben resa dalla fotografia di Bigazzi.
Antonio è fallimentare anche sul piano affettivo, ha una ex-moglie (che incontrerà per caso una sera in un ristorante, in una delle scene più deprimenti di tutto il film) e un figlio musicista, con cui ha un rapporto gratificante, ma problematico; rapporto che, a conti fatti, rappresenta la parte edificante del film, che troverà il suo culmine nel finale.
Lo sviluppo narrativo presenta alcune lungaggini, che danno al film un taglio un po' documentaristico (il mercato ittico, la lavanderia, lo stadio, la biblioteca, i palloncini sotto il palco sindacale) lungaggini che si potevano evitare, essendo di suo il film tutt'altro che dinamico e avvincente.
Amelio non lascia molta speranza ai giovani (qui pochi, disperati e senza un futuro definibile), presenta una prospettiva buonista della globalizzazione, (un minimo di rapporti sociali Antonio li ha soltanto con i vicini nordafricani fino a trovare una sistemazione in una miniera in Albania, assai improbabile come Terra Promessa, per un italiano di mezza età senza un lavoro fisso !). Il contesto milanese e nazionale non ne esce bene: caporalato urbano becero, riciclaggio di denaro sporco mediante eleganti negozi di facciata, il lavoro manuale e artigianale, un tempo eccellenza italiana in molti ambiti, oggi squalificato e sottoretribuito (oggi fanno tutto i cinesi, si sa).
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lisa casotti
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venerdì 4 ottobre 2013
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pane albanese
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Mi è parso un film inutile di cui mi è sfuggito il significato.
Non mi sembra nemmeno si possa definire un discorso sulla precarietà visto che il protagonista sceglie di fare il “rimpiazzo a ore” quasi per vocazione (lo dichiara nel dialogo che ha con Lucia). A voler pensare bene e a dirne fin troppo bene: Antonio Pane sostituisce gli altri per aiutarli a realizzarsi, o almeno questo suggerisce il finale, quando motiva il figlio a reagire. Ma a parte quel poco di tenerezza che ispira, retto e caparbio nel cercare il lato positivo e abituato a comunicare con perle di saggezza, il suo sguardo incantato sul mondo non basta a riempiere i vuoti di senso e men che meno a spazzare le brutture del reale.
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Mi è parso un film inutile di cui mi è sfuggito il significato.
Non mi sembra nemmeno si possa definire un discorso sulla precarietà visto che il protagonista sceglie di fare il “rimpiazzo a ore” quasi per vocazione (lo dichiara nel dialogo che ha con Lucia). A voler pensare bene e a dirne fin troppo bene: Antonio Pane sostituisce gli altri per aiutarli a realizzarsi, o almeno questo suggerisce il finale, quando motiva il figlio a reagire. Ma a parte quel poco di tenerezza che ispira, retto e caparbio nel cercare il lato positivo e abituato a comunicare con perle di saggezza, il suo sguardo incantato sul mondo non basta a riempiere i vuoti di senso e men che meno a spazzare le brutture del reale. Lucia purtroppo è un personaggio mozzato e la crisi di panico di Ivo somiglia più che altro a una crisi d’astinenza.
Bella solo la Milano delle grandi opere, degli spazi alternativi e/o periferici, resa imponente dall’ottima fotografia. E il caro Albanese, buono come il Pane, che riesce a non apparire ridicolo in un ruolo così borderline.
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mangiaracina
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lunedì 9 settembre 2013
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albanese, buddista per caso
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Nel '71 Elio Petri realizzava "La classe operaia va in paradiso" denunciando il lavoro maledetto, vissuto con rabbia, quello alienante della catena di montaggio nell'era delle rivendicazioni sindacali per i dirirtti e la sicurezza. Dopo quasi mezzo secolo Gianni Amelio realizza un'opera pregevole che coglie il segno dei tempi con una rara apologia del lavoro al tempo della crisi, un lavoro desiderato in tutte le sue forme che non è più fatica ma autorealizzazione, che non logora ma nobilita davvero. Il protagonista (Antonio Albanese) lavora per il piacere non per il dovere, e in ogni lavoro trova l'autorealizzazione, la voglia di "farsi la barba tutte le mattine".
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Nel '71 Elio Petri realizzava "La classe operaia va in paradiso" denunciando il lavoro maledetto, vissuto con rabbia, quello alienante della catena di montaggio nell'era delle rivendicazioni sindacali per i dirirtti e la sicurezza. Dopo quasi mezzo secolo Gianni Amelio realizza un'opera pregevole che coglie il segno dei tempi con una rara apologia del lavoro al tempo della crisi, un lavoro desiderato in tutte le sue forme che non è più fatica ma autorealizzazione, che non logora ma nobilita davvero. Il protagonista (Antonio Albanese) lavora per il piacere non per il dovere, e in ogni lavoro trova l'autorealizzazione, la voglia di "farsi la barba tutte le mattine". E' in fondo il luogo delle relazioni umane profonde, dell'empatia, della solidarietà, della crescita personale. Buddista per caso, Albanese incede con lieve sicurezza fra i drammi grandi e piccoli dell'esistenza, osservandoli con lo sguardo di un professionista navigato più che con quello di un bambino. Un film gradevole per la sua leggerezza, che si gode d'un fiato, che permette ilstacco per guardare alla vita con disincanto, e un tema ben trattato cinematograficamente come mai è stato fatto nel passato. Regia e protagonista rendono il miglior servizio al soggetto, con un grande Albanese che rende il meglio di sé nel cinema impegnato, addirittura meglio de "La seconda notte di nozze" di Pupi Avati.
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[+] tu che ne sai dei buddisti?
(di giofredo')
[ - ] tu che ne sai dei buddisti?
[+] per la sua leggerezza?
(di gianmaurizio)
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deborissimah
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mercoledì 11 settembre 2013
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l'intrepido - come non arrendersi mai
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"Fortunato chi lavora, almeno può scioperare". E' tutta racchiusa in questa frase la filosofia di fondo di un film che rispecchia se non i tempi, sicuramente la situazione psicologica in cui si trovano oggi tantissime persone che hanno perso il lavoro e non sanno cosa fare. Tanti italiani si possono riconoscere nella figura di Antonio Pane che, forse un po' paradossalmente, ogni giorno è disposto a cambiare lavoro, pur di alzarsi la mattina, farsi la barba e uscire di casa per sentirsi utile in qualche maniera perché "è brutto la mattina quando ti alzi e non sai dove andare". E allora tutti i lavori diventano belli purché lo tirino fuori da questa situazione intollerabile, dal rischio di sentirsi inutile, inadeguato, ai margini.
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"Fortunato chi lavora, almeno può scioperare". E' tutta racchiusa in questa frase la filosofia di fondo di un film che rispecchia se non i tempi, sicuramente la situazione psicologica in cui si trovano oggi tantissime persone che hanno perso il lavoro e non sanno cosa fare. Tanti italiani si possono riconoscere nella figura di Antonio Pane che, forse un po' paradossalmente, ogni giorno è disposto a cambiare lavoro, pur di alzarsi la mattina, farsi la barba e uscire di casa per sentirsi utile in qualche maniera perché "è brutto la mattina quando ti alzi e non sai dove andare". E allora tutti i lavori diventano belli purché lo tirino fuori da questa situazione intollerabile, dal rischio di sentirsi inutile, inadeguato, ai margini. Tutti i lavori, purché siano onesti, ma questo purtroppo non succede sempre, anzi si rischia, al giorno d'oggi, di trovare o lavori non pagati o situazioni poco chiare che velocemente sfociano nell'illegalità.
La ricostruzione dell'Italia di oggi di Gianni Amelio passa dall'improbabile "impiego" del protagonista, commissionato da un uomo senza scrupoli con la gotta, "la malattia dei re" che si lamenta quando gli viene chiesto il dovuto "tutti uguali, prima fammi lavorare, fammi lavorare e poi vonno esse pagati subbito"; in un improvvisato ufficio di collocamento che è una via di mezzo tra una palestra e la sala d'attesa di una stazione: spoglio, sterile, triste, che non lascia presagire nulla di buono. Nonostante tutto però Antonio Pane non perde mai la speranza e trova la forza anche per aiutare suo figlio quando è lui ad averne bisogno.
Sono forse troppe le cose che ci vuole raccontare Gianni Amelio e qualcosa si perde per strada; non aiuta la scarsità dei personaggi satellite, appena accennati e resi malino dagli interpreti. Strepitoso come sempre Albanese, che da solo regge tutto il film e che ci fa identificare in questa figura positiva, credere che è possibile, anche in un momento nero come questo, uscire dal baratro e cavarsela in qualche modo.
Consigliato a tutti.
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riccardo tavani
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venerdì 10 gennaio 2014
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misconosciuto ma destinato alla rivalutazione
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Amelio ci mostra, senza falsa retorica, la nuda, cruda realtà della condizione di lavoro, e dunque di esistenza, di un’intera generazione. Anzi, dovremmo dire, di un’intera macro-generazione, in quanto non è più soltanto l’ultima generazione, ovvero quella dei più giovani. No, è un attraversamento di strati diversi di fasce di età, fino alla più adulta, se pensiamo alla beffa crudele inferta ai cosiddetti esodati, ovvero a coloro che, in procinto di andare in pensione, sono stati privati di ogni reddito e lasciati nudi alle nuove forme di intemperie sociali. Una cross-generazione per la quale, considerati gli elevati livelli di istruzione, è stato coniato il termine di cognitivato, in sostituzione di quello orami obsoleto di proletariato. Solo la fame, sia quella di giustizia che quella fisica, materiale, con i suoi morsi allo stomaco vuoto, rimane la stessa. Antonio Pane, questo il nome del personaggio interpretato magistralmente da Albanese, fa di mestiere il rimpiazzo. Lui rimpiazza quella moderna forma impermanente e polivalente di figura lavorativa che è il precario. Il suo cognome già lo dice: il pane si accompagna con qualsiasi tipo di companatico. Inoltre, il vocabolo pan, in greco antico, significa anche tutto, che sta dappertutto. Il suo livello di cultura è tale che in uno di quei concorsi monstre con migliaia di concorrenti, è in grado di compilare in pochi minuti e senza nessun errore le centinaia di quiz sottoposti e di consegnarli, segnalando ai professori addetti le scorrettezze linguistiche che essi contenevano. Il film ci mostra una congerie di lavori ad alta instabilità dei quali non avremmo immaginato neanche l’esistenza, né le assurde modalità di esecuzione. È il tema questo dell’estrema flessibilità, indifferenziazione di ruoli e prestazioni alle quali è sottoposto il macro-cognitivato contemporaneo. Più generica, immediatamente rimpiazzabile è la prestazione, più dura è la condizione di sfruttamento, sotto retribuzione e umiliazione di questa cross-generazione acculturata e raffinata nei sentimenti, nei desideri e nelle idee. A una condizione senza più dio né tetto né legge corrispondono anche lavori di questa risma fuori ormai di ogni norma etica e morale. Una condizione imposta brutalmente quanto illegalmente dal capitale finanziario e monetario, ben rappresentato in una scena del film, come uno strabiliante ammasso di belle scatole vuote nel sottoscala di un negozio di scarpe nel quale L’uomo, come la scatola, la confezione deve apparire bello, infiocchettato ma essere un vuoto: un vuoto, un corpo, una mente a perdere, da consumare, logorare come un qualsiasi altro mezzo, strumento. Eppure Immanuel Kant, uno dei padri dei valori fondanti la nostra civiltà ha lasciato scritto: “L’imperativo pratico deve dunque essere il seguente: agisci in modo, da non usare mai l’umanità sol come mezzo, ma pur sempre come fine tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro”. Un film destinato ad essere riscoperto, riconosciuto nel suo stringente valore poetico, drammatico e di verità. È l’esordio di una nuova forma di neo-realismo italiano, il quale ha richiamato per molti la lezione del 1951 di De Sica e Zavattini in Miracolo a Milano.
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eugenio
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giovedì 2 gennaio 2014
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il gioco del rimpiazzo
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Nella pulsante Milano, colma di luci e di altrettanti ombre esiste un substrato di lavoratori che “sopravvive” con lavori stagionali, spesso in nero e sottopagati in condizioni ultra-precarie privi di sicurezza e stabilità.
E’ una pagina di cronaca scottante che non coinvolge soltanto lavoratori extra-comunitari ma anche (e soprattutto) in quest’ultimo periodo italiani. Gente che prima disponeva di una vita sufficientemente agiata, un lavoro e una famiglia si trova improvvisamente costretta dalla crisi ad abbandonare i propri progetti, sogni e speranze affogando giorno dopo giorno nella disperazione più nera. In pratica, cessa di vivere pur vivendo.
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Nella pulsante Milano, colma di luci e di altrettanti ombre esiste un substrato di lavoratori che “sopravvive” con lavori stagionali, spesso in nero e sottopagati in condizioni ultra-precarie privi di sicurezza e stabilità.
E’ una pagina di cronaca scottante che non coinvolge soltanto lavoratori extra-comunitari ma anche (e soprattutto) in quest’ultimo periodo italiani. Gente che prima disponeva di una vita sufficientemente agiata, un lavoro e una famiglia si trova improvvisamente costretta dalla crisi ad abbandonare i propri progetti, sogni e speranze affogando giorno dopo giorno nella disperazione più nera. In pratica, cessa di vivere pur vivendo.
Di storie così il cinema abbonda e non suona originale l’ultimo film in concorso al precedente festival del cinema di Venezia di Gianni Amelio L’intrepido incentrato sulla figura di Antonio Pane, emblema del precariato all’ennesima potenza che ogni giorno sostituisce i “titolari, quelli che un posto di lavoro l’hanno ancora, nelle loro mansioni quotidiane. Un supplente tuttofare assunto e licenziato anche solo dopo una mezza giornata in grado di eseguire opere di muratura, di guidare un tram, di lavare piatti, di usare una vecchia Singer per opere di cucitura per poi rincasare stanco in un bilocale di ringhiera affacciato direttamente sulla stazione e di mettersi costantemente a studiare alla ricerca di un futuro migliore.
La precarietà dell’esistenza di Antonio è riflessa negli affetti familiari, figli di una solitudine e di una frammentarietà avuti luogo dopo la separazione dalla moglie che ha scelto qualcuno con un futuro assai più roseo, un imprenditore nel campo delle scarpe. A questi si aggiunge la delicata condizione del figlio per fortuna non più adolescente ma comunque ansioso e fragile per gli studi al conservatorio da sassofonista di contralto; un figlio che malgrado la sua precarietà si prende teneramente cura del padre che immancabilmente rifiuta ogni sostegno economico.
Perché Antonio Pane (interpretato da un Antonio Albanese più oscuro e drammatico del solito) è un uomo coerente, moralmente dignitoso, sempre col sorriso sulle labbra, fiducioso in quel genere umano che spesso non sembra ripagarlo della sua benevola intenzione. Generoso d’animo, Antonio, durante un concorso pubblico, conosce Lucia, la sua “controparte” specchio delle determinazione professionale dei giovani under 30 definiti choosy dal ministro Fornero, incapaci di poter trovare aspirazioni professionali consone ai propri studi ma non per questo rinunciatari e impotenti. Lucia accetta il conforto di Antonio, le due anime paiono congiungersi, trovare un punto di incontro comune, in un connubio che malgrado le buone intenzioni iniziali, non sarò mai propriamente goduto.
Amelio abbandonati i riferimenti letterari esistenzialisti del Primo uomo di Camus, traccia il ritratto denigrante di un’Italia sull’orlo di un abisso di cui pare non scorgersi il fondo, un’Italia di gente senza scrupoli, arrivisti venditori di fumo (come il nuovo compagno della moglie di Antonio) ma anche di lavoratori indefessi e disciplinati.
Albanese, nel suo one-man-show è abile nel conferire al personaggio una giusta aurea mediocritas senza scadere nel pathos o , peggio ancora, nella sua pietà ma la sua verve qui è schiava di una sceneggiatura caratterizzata da troppe “ombre”. Ombre nel voler confondere la dimensione provata affettiva sia familiare che non col contesto sociale, nel muovere il protagonista attraverso un dedalo di macchiette talvolta senza la giusta contestualizzazione, nel voler spostare senza un preciso schema logico l’attenzione sulla “storia alternativa” del figlio studente e delle sue paturnie esistenziali al concerto.
Le premesse c’erano e per buona parte del primo tempo, il film appare un’intelligente e costruttiva analisi sulla condizione dei quarantenni disoccupati d’oggi ma l’attenzione via via scema nella ripetizione stancante di lavoretti instabili o di fugaci quanto amare amicizie, un aspetto che la sceneggiatura non fa che evidenziare negativamente.
Mezza stella in più per la bravura di Albanese e per la fotografia di una Milano livida,dura e operaia. Ma è troppo poco. Peccato.
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liuk!
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venerdì 3 gennaio 2014
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implausibile
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Commedia amara per il duo Amelio/Albanese che decisamente non convince. Si fa leva sulla crisi e sui lavori occasionali per costruire una pellicola artificiale, forzata ed incentrata unicamente su un Albanese abbastanza in forma ma lontano dal suo genere e dal genere dove il pubblico lo riconosce.
Nel complesso un prodotto scarso che annoia e che non si fa ricordare.
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(di gianleo67)
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gianleo67
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lunedì 3 febbraio 2014
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grottesca favola di una moderna precarietà sociale
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Antonio è un mite quarantenne, abbandonato dalla moglie, che si arrabatta ogni giorno con lavori precari e malpagati facendo il sostituto, per poche ore od un'intera giornata, nei più disparati contesti lavorativi e che ripone tutte le sue speranze e aspettative nel giovane e talentuoso figliolo che studia il sax e si esibisce con una jazz band. Il suicidio di una sua giovane amica, di cui è segretamente innamorato, e l'ennesima delusione professionale lo convincono ad emigrare, come umile operaio, in una miniera albanese. Ritornerà in Italia solo per incoraggiare il figlio afflitto da una grave crisi personale e professionale.
Foraggiato e prodotto con il sostanzioso contributo pubblico (Rai Cinema e Ministero della Cultura in primis) questa tragicommedia dai toni surreali e dal retrogusto amaro segna, con esiti modesti ed una preoccupante involuzione del linguaggio, il ritorno di Amelio sulla ribalta festivaliera lagunare dove passa (giustamente) quasi o del tutto inosservato.
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Antonio è un mite quarantenne, abbandonato dalla moglie, che si arrabatta ogni giorno con lavori precari e malpagati facendo il sostituto, per poche ore od un'intera giornata, nei più disparati contesti lavorativi e che ripone tutte le sue speranze e aspettative nel giovane e talentuoso figliolo che studia il sax e si esibisce con una jazz band. Il suicidio di una sua giovane amica, di cui è segretamente innamorato, e l'ennesima delusione professionale lo convincono ad emigrare, come umile operaio, in una miniera albanese. Ritornerà in Italia solo per incoraggiare il figlio afflitto da una grave crisi personale e professionale.
Foraggiato e prodotto con il sostanzioso contributo pubblico (Rai Cinema e Ministero della Cultura in primis) questa tragicommedia dai toni surreali e dal retrogusto amaro segna, con esiti modesti ed una preoccupante involuzione del linguaggio, il ritorno di Amelio sulla ribalta festivaliera lagunare dove passa (giustamente) quasi o del tutto inosservato. Pur incentrando il soggetto sugli allarmanti segni di una contemporanea precarietà sociale ed economica, sulle macerie di un'Italia post-industriale tra cui si muove, con garbata indolenza, lo spettro di un lavoratore senza identità e senza futuro incarnato dal camaleontico e ostinato ottimismo di Antonio Albanese, Amelio finisce per smarrire il senso di un discorso cinematografico altrove forte ed emozionante (L'America, La Stella che non c'è) ed incartarsi in una sorta di sgomento apologo su di una squallida modernità in cui sembrano frammentarsi e disperdersi non solo le qualità umane e professionali del protagonista ma finanche i suoi rapporti sociali e familiari, disgregando così il nucleo fondamentale di una smarrita convivenza civile. Alle buone intenzioni tuttavia non fa seguito una coerente e credibile scrittura cinematografica, pesando da un lato le indecisioni di una struttura narrativa incerta tra didascalismo (letterale) e metafora e dall'altro l'inconsistenza di personaggi che sembrano abbozzati su di uno sfondo scenografico posticcio, ridicole e patetiche macchiette che dovrebbero rappresentare i vizi o le virtù esemplari di un irredimibile individualismo sociale (dall'intrepido ed eroico protagonista al laido e cinico 'caporale', dal tormentato e talentuoso figlio sassofonista alla disperazione anaffettiva di una disadattata figlia di buona famiglia). Film che ci vuole dire qualcosa ma finisce per farlo poco e male, indebolito dall'incertezza di una forma cinematografica impropria e confusa (non propriamente nelle corde dell'autore) e da un'episodica concezione dello sviluppo narrativo, che cerca di far sorridere riflettendo (si diceva un tempo 'a denti stretti') ma finisce per suscitare solo una indistinta smorfia di irridente disapprovazione. Bravo come al solito Albanese nel cercare la quadra di un personaggio indecifrabile e caleidoscopico che ripropone con garbo e misura le coloriture dialettali di un apolide senza identità e senza futuro a cui basta la mattina riuscire ad avere un motivo per guardarsi ancora una volta allo specchio facendosi la barba.
Melanconiche note jazz nel finale struggente e didascalico. Un misterioso oggetto del desiderio artistico spiaggiato sulla battigia della laguna di Venezia quale simbolico naufragio di un cinema italiano che sembra aver smarrito definitivamente la propria identità.
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