Anatomia di un rapimento

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Un film di Akira Kurosawa. Con Toshirô Mifune, Tatsuya Nakadai Titolo originale Tengoku to jigoku. Giallo, b/n durata 142 min. - Giappone 1963. MYMONETRO Anatomia di un rapimento * * * - - valutazione media: 3,42 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

opera pedagogica sottoforma di thriller Valutazione 3 stelle su cinque

di carloalberto


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giovedì 28 ottobre 2021

 Kurosawa indora la pillola e propina al grande pubblico americaneggiante del suo paese, con un evidente intento pedagogico, una serie di quadretti morali edificanti sottoforma di un popolare thriller poliziesco in stile hollywoodiano. Segue con spoiler.
Prologo: l’etica dell’imprenditoria buona, intesa come duro lavoro al servizio della collettività, che ha come effetto collaterale l’arricchimento individuale, incarnata dal dirigente d’azienda che si è fatto dal nulla, è messa a confronto con il cattivo capitalismo impersonato dai suoi soci in affari, i cinici azionisti che mirano soltanto al guadagno personale senza farsi scrupolo delle esigenze del cittadino consumatore.
Nel Giappone del boom economico e della crescita industriale esponenziale degli anni ’60, suona come monito e vademecum per i giovani imprenditori.
Primo quadretto: dramma da camera con dilemma morale. L’eroe, Toshiro Mifune, da veder recitare in lingua originale, deve scegliere tra il lavoro vissuto come missione, sua unica ragione di vita, con annesse comodità e lussi per sé e la propria famiglia, e la vita di un bambino, il figlio del suo autista.  
Confucio indica quale sia la scelta giusta da fare e parlando per bocca della moglie, simbolicamente vestita con l’abito tradizionale giapponese, suggerisce all’eroe la via della compassione e dell’empatia verso il prossimo. Nella scala dei valori, prima la difesa della vita dei più deboli, poi il lavoro come servizio sociale.
Secondo quadretto: la polizia, la stampa e l’opinione pubblica, tutta la società civile, compresi i tutori dell’ordine in divisa, sono al fianco dell’imprenditore etico e si schierano compatti contro i cattivi capitalisti che si sono impossessati, nel frattempo, dell’azienda, approfittando della momentanea debolezza di Mifune impoveritosi per pagare il riscatto. Polizia e stampa collaborano utopicamente nella caccia al rapitore, che rappresenta la feccia della società per aver ostacolato l’opera benefattrice dell’onesto capitalista.
La società si deve dimostrare coesa nel difendere gli antichi valori tradizionali in pericolo nello scenario economico e sociale imposto dalla modernità, che genera nuove diseguaglianze con conseguenti odi sociali che minano la civile convivenza ed intralciano il progresso in atto.
Terzo quadretto: il rapitore di bambini è anche un assassino e forse addirittura uno psicopatico. Occorre, infatti, essere folli per non riconoscere il Bene scambiandolo per il Male, ma anche stupidi per aver scambiato il figlio del povero con quello del ricco. Il reietto vive in una baracca fatiscente e dalla finestra è costretto a vedere tutti i giorni la bella villa di Mifune, in posizione dominante in alto sulla collina. Roso dall’odio verso i ricchi è destinato all’inferno in terra, rappresentato icasticamente dal villaggio dei drogati zombies nel quale cerca la sua vittima cavia per sperimentare la dose letale di eroina da iniettare ai suoi complici, non prima di essere passato in un bar, non a caso frequentato da americani, dove regna il vizio.
Ovvio l’invito, nella nascente società consumistica del dopoguerra, a non desiderare smodatamente la roba d’altri e ad accontentarsi del poco che si ha, tenendosi a debita distanza dal modello americano che rappresenta la strada che conduce diritta all’inferno.
Epilogo: l’omicida, prima di essere giustiziato, chiede di incontrare non il prete ma l’imprenditore. L’arrivo in carcere dell’eroe è inquadrato da dietro le sbarre, a significare che siamo tutti un po’ colpevoli, anche se in diversa misura, del peccato di invidia verso chi è più fortunato e quindi tutti bisognosi dell’opera educatrice di Kurosawa, che, nell’ultima sequenza, indica quale sia la parte giusta da cui stare e colloca la cinepresa alle spalle dell’eroe, mentre pietoso guarda il poveretto farneticare di inferno e paradiso nella cella.
Il mentecatto non ha compreso l’insegnamento contenuto nelle ultime parole del maestro che gli chiede “sei sicuro di essere stato così sfortunato?”.
A prescindere dal valore estetico dell’opera, il film appare discutibile nei contenuti, soprattutto per la visione ingenuamente idilliaca del capitalismo e per l’ambigua aspirazione a fornire alle masse dei modelli esemplari da seguire per accogliere il progresso senza rinunciare ai valori tradizionali.

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