| Anno | 2025 |
| Genere | Thriller, Drammatico |
| Produzione | USA |
| Regia di | Antonio Campos |
| Attori | Matthew Rhys, Susan Pourfar, Matthew James Thomas, Claire Danes, Brittany Snow Natalie Morales, David Lyons, Tim Guinee, Raphael Sbarge, Scott Vogel, Eric William Morris, Matt Dellapina, Frank Harts, Brian Faherty, Emilio Cuesta, Jonathan Banks, Kate Burton, Julie Ann Emery, Deirdre O'Connell, Bill Irwin, Amir Arison, Hettienne Park, Will Brill, Aleyse Shannon. |
| MYmonetro | Valutazione: 2,50 Stelle, sulla base di 1 recensione. |
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Ultimo aggiornamento lunedì 17 novembre 2025
Il confronto tra una madre e scrittrice che ha perso il figlio e un affascinante imprenditore che potrebbe avere ucciso la moglie.
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CONSIGLIATO NÌ
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Nile Jarvis (Matthew Rhys), erede spregiudicato di un impero immobiliare e accusato in passato dell'omicidio della moglie, si trasferisce nei boschi di Oyster Bay con la seconda moglie Nina (Brittany Snow). Nella casa accanto, Aggie Wiggs (Claire Danes), scrittrice premiata con il Pulitzer e ora bloccata dal lutto insuperato per la morte di suo figlio, osserva il nuovo vicino con un misto di repulsione e curiosità. Un banale conflitto di vicinato diventa la scintilla di una relazione pericolosa: Jarvis si offre come soggetto del prossimo libro di Aggie, promettendo accesso alla propria vita in cambio di una narrazione capace di riforgiare la sua immagine pubblica.
L'indagine sul possibile femminicidio si intreccia così alla rinascita professionale e alla fragilità emotiva della scrittrice, mentre sullo sfondo incombe il padre di Jarvis (Jonathan Banks), un patriarca che tratta il mondo come un appezzamento da recintare.
The Beast in Me rimanda direttamente a una lunga tradizione di thriller del vicinato, che da Hitchcock (La finestra sul cortile) in avanti è stata laboratorio di paranoie domestiche.
La miniserie Netflix aggiorna il tropo spostando l'ansia dalla finestra al bosco in comune, e dal teleobiettivo di un fotografo alla pagina di una scrittrice di biografie: il crimine potenziale diventa materiale letterario, che porta il conflitto in un più ampio contesto politico-economico. La serie intreccia infatti la figura pubblica di una ricca famiglia di affaristi edili con il contesto sociale, e molto attuale, americano, portando nel racconto - in maniera coerente e non gratuita - dibattiti su gentrificazione, potere dinastico e media condizionabili e voraci di informazioni, che tradiscono la presenza di Conan O'Brien tra i produttori esecutivi.
A differenza di altre declinazioni del genere, The Beast in Me ha il pregio di non fondarsi su capovolgimenti a effetto, ma di avanzare con lentezza calcolata, lasciando che lo spettatore interroghi la propria complicità con il fascino del predatore, fino a riconoscere in sé lo stesso moto di attrazione che nasce, per quanto improbabile, nella protagonista - oltretutto lesbica, e dunque segnata da un'attrazione profondamente umana che esclude la dimensione esplicitamente sessuale.
Ottima la costruzione scenografica che caratterizza l'instabile protagonista - la precarietà emotiva è ormai una cifra interpretativa di Danes - che ancor prima dell'estro attoriale viene raccontata da una casa guasta. L'acqua che esce color ruggine, le carte da parati che fioriscono di muffe, i corridoi che si strozzano nelle porte: tutto parla di un corpo che non metabolizza la perdita. All'opposto, gli spazi di Jarvis (Matthew Rhys) sono lucidati da showroom: una vetrina in esposizione che però cela, sotto il design levigato, una funzionalità spietata, riconfigurandosi come una trappola.
I due personaggi vengono raccontati, entrambi, come due rapaci: Aggie è una predatrice etica, consapevole che la scrittura - ancor più se biografica come nel suo caso - è spesso un atto di vampirismo, seppur necessiti di un substrato di verità. Matthew Rhys, per contro, orchestra costantemente tattiche predatorie: la sua cortesia è un'arma, la confessione è funzionale a intrappolare la sua preda, l'empatia uno strumento per anestetizzare i dubbi dell'altro, fino a trasformarli in paranoie. È evidente l'ottimo lavoro di costruzione dei protagonisti, che beneficia della supervisione vigile di Jodie Foster come produttrice esecutiva, capace di mantenere il registro psicologico teso, asciutto e coerente in ogni passaggio.
The Beast in Me è, d'altronde, una serie molto patinata, ed è questo il suo tallone d'Achille: la forte personalizzazione del prodotto - caratterizzato da un cast importante e da un ancor più solida produzione esecutiva - ne mina le capacità di coinvolgimento, rendendo molti momenti di svolta estremamente prevedibili sin dai primi episodi. Tanto la cura scenografica quanto la solidità della sceneggiatura, pensate per rendere ogni passaggio chiaro e decifrabile, unite a un titolo - la bestia dentro di me - già programmatico, finiscono per rendere evidente da subito che il centro della serie non è la scoperta di un colpevole, ma lo svelamento della propria disponibilità alla colpa. Il core narrativo della serie, cioè che l'orrore non sia qualcosa che irrompe dall'esterno ma un'opzione latente, resa plausibile dal contesto (emotivo, culturale, sociale, economico, politico), è un'idea vera, giusta, interessante... ma che la serie rende fin troppo chiara già entro il secondo episodio.
The Beast in Me esita nel radicalizzare questa tesi, preferendo una chiarezza espositiva che facilita l'orientamento; al contempo è, però, anche capace di scongiurare la lezioncina teorica grazie a un solido asset produttivo, che ne definisce la buona struttura narrativa. Ne deriva così una serie che ricorda da vicino le migliori infrastrutture politiche democratiche americane: impeccabile negli intenti e nella missione dichiarata, ma incapace di produrre un impatto sociale o emotivo altrettanto incisivo, rivelando non solo la distanza tra progetto e realtà sociale, ma anche la scelta di non colmarla, bensì di strumentalizzarla, di farne materia narrativa da usare più che da mettere in discussione.