Anno | 2021 |
Genere | Drammatico |
Produzione | Italia |
Regia di | Gabriele Muccino |
Attori | Laura Morante, Francesco Acquaroli, Paola Sotgiu, Simone Liberati, Laura Adriani Francesco Scianna, Euridice Axen, Milena Mancini, Valerio Aprea, Emma Marrone, Silvia D'Amico, Antonio Folletto, Mariana Falace, Federico Ielapi, Maria Chiara Centorami, Francesco Martino, Alessio Moneta, Sveva Mariani. |
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Ultimo aggiornamento giovedì 11 marzo 2021
Una famiglia si trova a sconvolgere la propria vita quando un vecchio segreto minaccia di essere rivelato.
CONSIGLIATO N.D.
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A casa tutti bene è l'esordio di Gabriele Muccino nella serialità televisiva, che riprende l'omonimo suo film e lo traduce in serie TV, con un cast e una timeline diversi, ma mantenendo più o meno gli stessi ruoli: la famiglia Ristuccia, proprietari di un famoso ristorante, viene scossa da un segreto del passato. La serie condivide i temi tipici del lavoro di Muccino, la crisi dei rapporti familiari e le nevrosi e isterie che ne derivano, raccontati tramite una regia che esalta gli eccessi emotivi.
Una stagione che sembra una lunga seduta psicanalitica in cui tutti i fantasmi di Muccino si presentano all'appello
Recensione
di Paola Casella
I destini dei tre fratelli Ristuccia, Carlo, Paolo e Sara, sono segnati dal cliffhanger della stagione precedente che ha riguardato la loro madre Alba. Carlo si sforza di fare il pater familias e continua a cercare l'approvazione di quel padre scomparso nella realtà ma non nel suo immaginario; Sara combatte con il marito fedifrago e con la sensazione di dover sempre fare tutto da sola; Paolo litiga con l'ex moglie che lo tiene lontano dal figlio e cerca conforto fra braccia diverse; e Alba deve confrontarsi con una responsabilità troppo a lungo seppellita con la scusa che "se vado a fondo io andiamo a fondo tutti". Contestualmente i cugini Mariani si dibattono fra i rispettivi guai: l'Alzheimer di Sandro e la scombinatezza di Riccardo. La seconda stagione di A casa tutti bene, seguito anche del lungometraggio omonimo per il cinema, ripropone le dinamiche famigliari distorte e costantemente contrapposte che compongono il ritratto di un gruppo di esseri umani in bilico, incapaci di stare l'uno senza l'altro ma anche di convivere in armonia, intenti a nascondere i loro errori e le loro debolezze agli altri, e soprattutto a se stessi.
Bentornati nell'universo mucciniano concitato e ansiogeno in cui ogni conversazione è un match di pugilato verbale: il che, nel caso della serie A casa tutti bene, è un complimento.
Nella serialità da piccolo schermo Muccino sembra infatti aver trovato la sua cifra e la sua dimensione migliore, perché gli è consentito entrare nel dettaglio delle lacerazioni interiori di ognuno dei suoi personaggi e raccontarle con maggiore profondità: questa seconda stagione in particolare sembra una lunga seduta psicanalitica che va alla radice traumatica di rapporti famigliari ulcerati e irrisolvibili, dei quali dipanare tutte le conseguenze. Inoltre il regista e sceneggiatore (con la head writer Barbara Petronio e il team di scrittura composto da Camilla Buizza, Gabriele Galli e Andrea Nobile) riesce finalmente a raccontare con complessità i personaggi femminili, persino attribuendone la "lettura misogina" a quelli maschili, invece che ad una presunta "natura diabolica" muliebre. Di più: in questa stagione il buonsenso è interamente appaltato alle donne (con l'eccezione di Alba, "persona con dei problemi che ha cresciuto tre figli infelici"), mentre i personaggi maschili restano infantili, irrazionali e agìti da demoni interiori e pressioni esteriori. Muccino ne racconta registicamente l'agitazione stando loro addosso e tirandone fuori il lato tribale e ferino, per cui non si fa l'amore ma un sesso animalesco e brutale, si mente, si tradisce e ci si sente traditi. Le coppie scoppiano e si riformano su una giostra impazzita, e come canta Moby "tutto è destinato ad andare in mille pezzi, come sempre succede". Il regista mette a nudo tutte le sue ossessioni e le affida ad un caleidoscopio di figure inconsapevoli con un'immediatezza e uno strazio che "bucano" la confezione laccata, perché alla cura formale della serie non corrisponde la "cura dei propri ricordi" dei suoi protagonisti .
A casa tutti bene è un po' feuilleton e un po' melò, un po' soap opera e un po' sceneggiata, e codifica fino in fondo quello stile "mucciniano" che, piaccia o non piaccia, è istantaneamente riconoscibile, e si presta molto bene ad una serialità che ha il tempo di elaborare le conseguenze dei comportamenti (nevrotici) individuali. Tutti i fantasmi di Muccino - Kronos, Medea e infiniti altri archetipi - si presentano all'appello, ma vengono qui chiaramente identificati come proiezioni dei protagonisti, soprattutto maschili, chiamati a prendersene la responsabilità. Questi uomini fragili in cerca di approvazione e di conforto, ossessionati dall'idea di dimostrare il proprio valore, si aggirano facendo danno a se stessi e agli altri, mentre le donne, più forti e pragmatiche, commettono atti di ingenuità per amore, o cedono al richiamo della carne: vicine al vero e capaci di prendere con coraggio le decisioni necessarie mosse a tenerezza e compassione davanti alla fallibilità maschile, con uno struggimento a metà fra il materno e l'infermieristico. Il cast è in gran forma, ma su tutti spiccano Alessio Moneta, Emma Marrone ed Euridice Axen, e soprattutto Valerio Aprea, straordinario nel raccontare le contraddizioni dell'Alzheimer senza mai farne teatro: è lui il personaggio maschile più nobile e più capace di guardare oltre a se stesso. Eccellente il commento musicale di Paolo Buonvino, con quel violoncello che scava nel subconscio, e la scelta di brani che vanno da Kiwanuka a Modugno, da Nina Simone a Brahms alla Carrà. Molti brani sono eseguiti dalla voce delicata di Serepocaiontas, uno per tutti quel "Creep" che descrive bene alcuni personaggi non tanto nella loro essenza, quanto nella loro percezione di sé. A casa tutti bene racconta un microcosmo che crolla addosso a chi lo abita e da cui molti scappano come animali braccati, dove molti ragionano secondo l'assioma narcisistico "se mi ami capiscimi", e tutti si mandano sonoramente affanculo. "Tu chi sei?" chiederà Ginevra a Carlo, il personaggio che meno si conosce, in mezzo al cumulo di segreti e bugie in cui i Ristuccia sono cresciuti: e la risposta non è facile. Muccino alza continuamente la posta e l'asticella, ma non dimentica la coazione a ripetere in cui tutti ci dibattiamo, all'interno di quella "gabbia in cui siamo nati" e per uscire dalla quale ci tocca diventare adulti.
Una centrifuga emotiva dal classico linguaggio mucciniano concitato e pop
Recensione
di Paola Casella
Pietro Ristuccia è un ristoratore affermato e un padre padrone per i suoi tre figli adulti: Carlo, prono a lanciarsi in investimenti rischiosi pur di dimostrare il suo valore; Sara, organizzatrice dedita e precisa e consorte infelice di un marito fedifrago; e Paolo, scrittore e poeta squattrinato cui la ex ha tolto la custodia del figlio. In occasione del settantesimo compleanno di Pietro la moglie Alba prepara una grande festa cui sono chiamati a partecipare figli, nipoti, consorti e amici di famiglia. Ma il festeggiato esclamerà: "Basta con questa farsa della famiglia perfetta!", poiché durante il pranzo di compleanno "alla Festen" emergeranno le più svariate problematiche: tradimenti, richieste di denaro, rivendicazioni, rancori, e alcuni segreti che riguardano più di uno dei componenti del clan famigliare allargato.
Gabriele Muccino rimpolpa l'ossatura della trama e i personaggi del suo film A casa tutti bene ma trasporta la vicenda a Roma e affida i ruoli ad un gruppo di attori completamente diverso.
L'idea è buona perché la serialità consente di approfondire i componenti di un cast corale ampio e concedere a ciascuno il suo quarto d'ora (o più) di visibilità individuale. Inoltre il lusso in cui nuota la famiglia e l'aggressività predatoria che la attraversa rimandano a celebri serial d'oltreoceano come Dallas e Dynasty, e la cifra narrativa è quella del feuilletton da grande pubblico, sottolineato da un commento musicale che combina Jovanotti alla Carmen, Rossini a un'aria incalzante a metà fra L'ultimo bacio e il valzer n.2 di Shostakovich (le musiche originali, come ne L'ultimo bacio, sono di Paolo Buonvino). Il linguaggio è quello classico mucciniano: concitato, ansiogeno, smaccatamente pop, sempre sopra le righe. Può non piacere, ma è certamente ben definito, e congegnato sulla base di meccanismi oliati a perfezione. Il piano sequenza iniziale o il 360° intorno ai personaggi sono promemoria della consumata professionalità del regista, e il codice espressivo richiesto agli attori, spesso eccessivo al punto di diventare irritante, lungo il respiro ampio della serialità può risultare più convincente, come la sceneggiatura a incastro di Barbara Petronio insieme allo stesso Muccino, ben cosciente di ciò che "aggancia" il pubblico, soprattutto quello televisivo. Il paradigma è quello della centrifuga emotiva, questa volta con un'insolita aggiunta crime.
Le tematiche restano quelle care al regista, o meglio le sue ossessioni autoriali: la gelosia, il rapporto simbiotico fra amore e denaro, l'incomprensione fra uomini e donne, la custodia contesta dei figli. Gli attori si calano senza remore nell'universo mucciniano (con particolare abilità nel caso di Francesco Acquaroli nel ruolo di Pietro, Valerio Aprea in quello di Sandro ed Emma Marrone nei panni di Luana), riproducendo gli archetipi ricorrenti di quell'universo - la moglie acida e insicura, la groupie ingenua, il maschio alfa dai piedi di argilla - in cui "le cicatrici ce l'hanno tutti", e la disarmonia disfunzionale è una regola di vita.
Bel cast, trama convincente e credibile che mai cade nella banalità. Le puntate si vedono tutte d'un fiato, ma ritengo una scelta deludente lasciare in sospeso le storie di tutti i personaggi. Nessuna delle vicende narrate, infatti, trova il suo epilogo, lasciando il racconto interamente incompleto. Sembra che manchi la puntata finale...
Intorno a un ristorante ruotano le vite dei Ristuccia e dei Mariani, rami di una famiglia che, alla morte del patriarca, dovranno condividerne la gestione. Muccino fa del suo fortunato film, via reboot, una serie di cui dirige ogni episodio, insistendo sul confronto tra una generazione che ha costruito una fortuna (ma a quale prezzo?) e la successiva che, per avidità, rischia di distruggerla: il perpetuarsi [...] Vai alla recensione »
Il giudizio sulla prima creazione seriale di Gabriele Muccino si potrebbe riassumere comodamente in una frase: se amate senza riserve il suo cinema andrete in brodo di giuggiole, altrimenti vi sembrerà di essere stati sottoposti a una cura Ludovico lunga otto episodi. Difatti come i titoli di testa (stilosamente realizzati all'americana, ma con sigla cantata da Jovanotti a ribadire l'italianità dell'operazi [...] Vai alla recensione »