Hair

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Arianna Finos

Il Venerdì di Repubblica

A ventun anni Antonio Banderas, dopo aver visto Hair, decise di fare L’attore: scese in strada con un gruppo di amici e per un anno intero portò il musical in giro sui marciapiedi di Madrid. «Quel ifim» ha ricordato «ha cambiato la mia vita per sempre».
E non solo la sua. Anche quella di legioni di spettatori che nel più irriverente dei musical hippie si sono riconosciuti, o quantomeno hanno rivisto il proprio disagio storico, l’avversione ai diktat della politica e della morale. Soprattutto alla guerra. Si tratti del vecchio Vietnam, o più recentemente di Cecenia e Iraq. È anche puntando su un’attualità che sconfina oltre i leggendari Seventies che oggi, venticinque anni dopo, l’Istituto Luce ha deciso di far tornare Hair, il film di Milos Forman, nei cinema italiani. Trentacinque copie distribuite tra le principali città, per scommessa di Luciano Sovena, amministratore dell’Istituto Luce: «Hair è il musical contro la guerra più bello che sia mai stato fatto. Di questi tempi sarebbe bello rivedere ragazzi che sognano l’Era dell’Acquario». Cioè l’epoca felice, tutta love & peace, profetizzata nel musical.
Da quando nel ‘68, dopo un rapido debutto al Greenwich VIllage, irruppe nel leggendario Balthimore Theatre di Broadway, questo musica! tribale di pace, amore e rock ha scioccato i benpensanti, con il primo nudo integrale di gruppo sul palco e conquistato i ragazzi, disposti a credere alle sue speranze: mai più «sporche guerre», una vita ispirata alla mistica hippie: amore libero e Lsd per tutti: entrambi aiutano ad aprire le porte della percezione.
Tra le migliaia di attori che hanno portato in scena «i capelloni» c’è stata una giovanissima Diane Keaton, scelta per il debutto dall’autore James Rado «perché piangeva mentre recitava». All’edizione italiana del musica! hanno partecipato Renato Zero e Loredana Bertè, anche a loro Hair ha cambiato la vita.
L’effetto coinvolgente e catalizzante dello spettacolo, scritto da Rado insieme a Gerome Ragno, musicato da Galt MacDermot, si moltiplicò nel 1979 con la trasposizione per il grande schermo realizzata da Milos Forman, uno dei rari casi in cui il film si fa più bello dell’opera teatrale.
Il ritratto dei giovani protestatari statunitensi, che negli anni Sessanta si lasciavano crescere i capelli e bruciavano le cartoline di precetto per evitare il Vietnam, è stato assunto come manifesto di pace in tutto il mondo. Sono trentasei anni che la sua versione teatrale viene proposta ai quattro angoli del pianeta: una versione bosniaca andò in scena a Sarajevo nel 1992 mentre sulla città piovevano le bombe serbe: torce elettriche usate come luci di scena, le cassette musicali riprodotte da un’autoradio, gli attori militari che, smesse le camicie a fiori, tornavano a indossare le divise e combattere. Ancora, neI ‘99, ha debuttato a Mosca un Hair con chiare allusioni al conflitto in Cecenia, le scenografie disegnate dal famoso scultore russo Zurab Tsereteli, amante della cultura underground. In Italia non c’è stagione in cui non sia stato riproposto a Roma, a Milano, a Bologna.
Il ritratto delle istanze di rinnovamento umano e sociale degli anni Sessanta americani, poi livellate dalla supremazia conservatrice dei decenni successivi, si è trasformata in manifesto universale di pace grazie a Milos Forman, che al cinema ha attenuato le connotazioni politiche a favore delle aspirazioni umanistiche del Flower power, decisamente ingenue, ma vitali e coinvolgenti. Forman, i cui genitori erano morti nei campi nazisti, lasciò la sua città, Praga, all’arrivo dei carri armati sovietici, proprio in quel ‘68, trasferendosi negli Usa: «Mi chiedono spesso» ha raccontato «perché nei miei film, da Qualcuno volò sul nido del cuculo a Hair, il tema della libertà individuale sia così importante. Semplice: ho vissuto sulla mia pelle il regime nazista e poi quello comunista».
Oggi, nella stagione del pantano iracheno e del terrorismo globale, il musical pacifista è una favola che si vede volentieri nella consapevolezza che, quand’anche il ticket KerryEdwards vincesse le prossime elezioni americane, difficilmente «il Sole entrerà nella settima casa e Giove si allineerà con Marte e sarà la pace a guidare i pianeti e l’amore a dirigere le stelle». I misticismi sono stati consumati dalla New Age, i pantaloni a zampa d’elefante si comprano a prezzi salati nelle boutique del vintage, eppure la freschezza, l’energia della tribù del Central Park conquista. Tra le battute più celebri vale la pena di ricordare quella del personaggio Woof al tenente dell’esercito che lo interroga sui suoi gusti sessuali: «Mi sta chiedendo se sono omosessuale? Sinceramente se mi trovassi Mick Jagger nel letto non lo caccerei via».
Il regista Milos Forman in stato di grazia fa uscire la bravura di attori
che qui toccano acuti sconosciuti alle loro carriere. John Savage, nel ruolo del provinciale Claude che dall’Oklahoma arriva a New York prima di partire per la guerra in Vietnam, e Treat Wiiliams, nel ruolo di Berger, capo della tribù del Central Park, che predica l’amore libero e dimostra una capacità d’amicizia fedele fino al sacrificio.
Soprattutto, in Hair funziona lo spettacolo: le potenti coreografie disegnate da Twayla Tharp sono una festa per gli occhi, piene di energia e passione, con i loro passi fuori sincronia e perfettamente armonici. La colonna sonora colora il suono rock della versione teatrale con ritmi pop, funky e disco lasciando però per strada qualcosa dello spirito ribelle dei Sessanta. Ma i brani sono indimenticabili:
da Aquarius fino alla canzone-manifesto Let the sunshine in, «Lasciate entrare la luce del sole». Nella scena finale la tribù la canta nel cimitero di guerra per salutare Berger, figlio dei fiori morto in Vietnam al posto dell’amico Claude.
Da Il Venerdì di Repubblica, 6 agosto 2004


di Arianna Finos, 6 agosto 2004

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