Vizio di forma |
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Un film di Paul Thomas Anderson.
Con Joaquin Phoenix, Katherine Waterston, Eric Roberts, Josh Brolin, Benicio Del Toro.
continua»
Titolo originale Inherent Vice.
Commedia,
Ratings: Kids+16,
durata 148 min.
- USA 2014.
- Warner Bros Italia
uscita giovedì 26 febbraio 2015.
- VM 14 -
MYMONETRO
Vizio di forma ![]() ![]() ![]() ![]() ![]() |
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Un'opera politica mascherata da noir.
di Bruce HarperFeedback: 1664 | altri commenti e recensioni di Bruce Harper |
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venerdì 11 settembre 2015 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Non è facile trovare la quadra di ‘Vizio di forma’ se A) non si è letto il libro o B) non si ha un minimo di infarinatura della ‘New Hollywood’ degli anni 70 per cui gli assi cartesiani di tutta la corrente erano nostalgia & paranoia. Esattamente i due binari su cui si muove l’opera di Anderson che sotto una crosta sgangherata di eccessi farseschi e virtuosismi stilistici nasconde un cuore tragico e politico: il crollo disastroso di un’epoca in cui libertà e spontaneità cedono il passo ad autocontrollo e calcolo capitalistico. Ma il ‘vizio intrinseco’ a mio avviso (e non il ‘vizio di forma’ come erroneamente ma comprensibilmente tradotto) è la molecola di caos che giocoforza si nasconde dietro qualunque sistema basato su ordine e repressione (paranoia) e che basta da sola a far crollare lo status quo lasciando una flebile speranza per un ritorno al reale, essenziale ed autentico (nostalgia).
Il concetto stesso di contro-cultura è per definizione un vizio intrinseco ma non credo sia il movimento hippy il vero candidato alla palingenesi, non nella visone del regista almeno. Rispetto alla filosofia del libro il film di Anderson accelera sul piano dei sentimenti riducendo il conflitto politico di Pynchon ad una malinconica danza identitaria e umanista. La fuga lisergica di una generazione nasconde in realtà la ricerca di un habitat, affettivo, spirituale e familiare. E solo nei sentimenti e negli affetti veri, genuini, autentici, l’autore sembra ravvisare quei valori astorici, laici e irriducibili, non subordinabili a una dottrina, convertibili a un sistema, manipolabili da un’ideologia, da cui partire per costruire la rinascita.
La trama è ovviamente un giocattolone, un pretesto, un diversivo (al pari delle droghe) come lo è da sempre in qualsiasi noir del’età classica in cui i personaggi non sono dei costrutti funzionali a un intreccio che li alimenta e giustifica ma, al contrario, vivono di vita propria trovando peso e identità nel rapporto sotterraneo tra l’Io e gli altri, tra l’io e l’ambiente, tra l’io e la propria ricerca personale. Non meravigliamoci quindi se ci ritroviamo a fine film con il classico cerino in mano e l’amara sensazione di essere mentalmente marci e compromessi. Perché in questa partita autoreferenziale e meta-testuale Pynchon e Anderson non si limitano a giocare con gli schemi della costruzione drammaturgica ma con gli spettatori stessi, le ‘porte della percezione’ e i meccanismi sottesi alla comprensione cognitiva. Attenzione, ci ammoniscono, quello a cui state assistendo è un grande bluff, una truffa, una finzione, ma la differenza tra il nostro racconto e le narrazioni che vi propinano ogni giorno (i media, la pubblicità, le istituzioni) è che noi lo facciamo in maniera dichiarata non subdola, ci autodenunciamo, perché il nostro non è un mezzo per controllarvi, per distrarvi, ma tuttalpiù per aprire gli occhi, oltrepassare la superficie e guardare quello che c’è sotto, il fine dietro il mezzo, la tragedia dietro la farsa, la verità dietro la menzogna, e mettere questa consapevolezza al servizio della vostra causa, qualunque essa sia.
In fin dei conti si tratta di una logica politica e per certi versi militante, un richiamo alle armi, che in Pynchon si trasforma in romanzo civile e sociale e in Anderson in un nostalgico ma spassosissimo lungo addio.
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