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Fosse capitato in un’annata con qualche film più “forte”, forse Il discorso del re non avrebbe vinto l’Oscar. Ma così si può dire anche, e molto di più, de Il gladiatore (ben lungi dal meritare il premio!) o di American Beauty, tanto per fare due esempi. Partiamo, quindi, con i difetti. Principalmente due: il ritmo non regge sempre bene, e si ha l’impressione di restare un po’ troppo in superficie. La storia riesce solo raramente a catturarti in profondità. Tuttavia, è proprio questa levità che fa de Il discorso del re un film assai piacevole. La storia è interessante e scivola bene (seppure, come ho detto, a volte si vorrebbe più movimento), gli attori sono affiatati e in parte, e la confezione è deluxe. Colin Firth è molto bravo, non tanto per le sue capacità mimetiche che ne fanno un credibile balbuziente, ma perché riesce a trasmettere la fragilità del personaggio. Non ho visto A single man, ed è la prima volta che osservo, con sollievo e senso di liberazione, Colin Firth darsi completamente. Ma Giorgio VI ha una spalla favolosa: un carismatico e delizioso Geoffrey Rush che ti conquista il cuore. La dolce Helena Bonham Carter, il tagliente Guy Pearce, l’ossequioso Derek Jacobi, il travagliato Michael Gambon e tutti gli altri fanno la loro parte con competenza, senza disturbare. Solo, Timothy Spall ha un’espressione un po’ arcigna e caricaturale per interpretare Winston Churchill, dai cui occhi traspirava un’umanità che Spall cerca di trasmettere solo a parole.
Il regista Tom Hooper si è messo al servizio di tutto questo, con perizia. Il suo Oscar mi sembra immeritato, ma probabilmente si è voluto premiare l’intera operazione (e capita spesso che il film vincitore “trascini” anche l’Oscar per la regia). Comunque, a conti fatti, lo spettatore avrà speso i soldi volentieri.
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