Il film di Fiorella Infascelli si rifà ai film giudiziari, con La parola ai giurati di Lumet come massimo esempio del genere. Dal 20 novembre al cinema.
di Paola Casella
I film giudiziari dove una giuria è chiamata a decidere del futuro degli imputati sono diventati un sottogenere a sé, e hanno come esempio massimo quel La parola ai giurati di Sidney Lumet che nel 1957 descrisse le dinamiche all’intero di un gruppo di persone con in mano i destini di un indiziato. La camera di consiglio di Fiorella Infascelli prende a prestito i topos di quel genere per raccontare però una storia che si innesca in modo molto significativo nella Storia d’Italia, e ne rivela un momento altissimo: quello in cui "due magistrati onesti e sei persone perbene hanno inchiodato la Mafia".
Il contesto è infatti quello del Maxiprocesso di Palermo durato quasi due anni, in cui 460 imputati, rinchiusi nell’aula bunker dell’Ucciardone, hanno atteso la sentenza per i loro atti criminali. Il presidente Alfonso è un giudice molto rispettoso dello stato di diritto, cui non bastano le confessioni dei pentiti e pretende prove concrete per formulare ogni giudizio, mentre il giudice a latere Pietro (Pietro Grasso, che ha fatto da consulente per La camera di consiglio) darebbe sufficiente credito alle testimonianze incrociate di Buscetta e Contorno per comminare pene severissime ai mafiosi.
La battaglia diventa dunque fra rispettare la legge e far fallire il Maxiprocesso, impuntarsi sulla forma lasciando impunti degli assassini o agire come in guerra, senza “fare prigionieri” (o meglio: facendo dei mafiosi dei prigionieri a vita). È un dilemma importante, perché segna la differenza fra legalità e giustizia reale (ma anche sete di vendetta). Sergio Rubini nei panni di Alfonso Giordano e Massimo Popolizio in quelli di Pietro Grasso (in una sorta di continuità ideale con il film precedente di Infascelli, Era d’estate, in cui Popolizio interpretava Giovanni Falcone), sono molto efficaci nell’incarnare quel dilemma, battibeccando con una chimica recitativa che denota tutta la loro esperienza teatrale.
I sei giurati popolari hanno provenienze diverse: ci sono Maria Nunzia la levatrice e Franca l’insegnante, Renato il laureato in Legge e Luigi il “suonatore di armonica a bocca”, Lidia che ricorda il dolore del padre nel dover cedere alle richieste della criminalità organizzata e Francesca che ha una figlia in procinto di sposarsi, e non potrà essere presente al matrimonio. La sceneggiatura di Infascelli, insieme a Mimmo Rafele e con la collaborazione di Francesco La Licata, tratteggia le loro personalità con brevi pennellate, meno interessata a collegare quelle personalità al verdetto finale (come ha fatto Lumet in La parola ai giurati) che ad illuminarne l’umanità intrappolata fra le mura dell’Ucciardone.
Quelle mura diventano il nono personaggio di La camera di consiglio: pareti metafisiche, alla De Chirico che in una scena, inquadrate dall’alto, creano un triangolo evocativo dell’occhio di Dio, la cui pupilla sono Maria Nunzia e Renato in rappresentanza degli otto giurati. Perché davvero quegli otto giurati sono diventati in quel momento il giudizio divino, e soprattutto sono stati indispensabili per certificare, senza ombra di dubbio, che la mafia esiste, e che esiste anche una società civile in grado di punirla, nel pieno rispetto della Legge, grazie a uomini e donne di buona volontà e di coscienza.