Viggo Mortensen dirige un'opera crepuscolare che parla di persone ferite, devastate, che parla di rabbia e di disperazione. Una storia di violenza, e la storia della forza, del coraggio, della dignità e della vulnerabilità di un grande personaggio femminile. Dal 24 ottobre al cinema.
di Giovanni Bogani
Vivienne. Vien voglia di riassumerlo tutto in un nome, il senso di The Dead Don’t Hurt, opera seconda da regista di Viggo Mortensen, che del film – presentato alla Festa del cinema di Roma e in uscita il 24 ottobre con Movies Inspired – è anche sceneggiatore, coproduttore, protagonista e autore delle musiche. Protagonista, sì: ma accortamente capace di farsi da parte, di lasciare che la luce si posi sul viso spigoloso e magnifico di Vicky Krieps. È lei Vivienne, è lei – magnetica, bella senza averne l’aria – il cuore e l’anima del film.
Un western femminista, è stato detto e scritto. Ma sì, in fondo è vero: ma non in modo tedioso, programmatico, dettato dai tempi. Un western femminista, crepuscolare, intimo, che parla di persone ferite, devastate, che parla di rabbia e di disperazione. Un western che accoglie il femminile anche nei personaggi maschili.
Ed è, il film di Viggo – celebrato con il premio alla carriera alla Festa del cinema di Roma – un film che inizia come uno spaghetti western di Sergio Leone: una sparatoria fuori dal saloon, uomo contro uomo, uno dei due a terra, nella polvere, per sempre. Ma capiremo prestissimo che non siamo da quelle parti. Del West, della sua epopea cinematografica, ci sono gli spazi, i campi lunghi, i costumi, i saloon, i duelli. Ma sono soltanto il guscio, per raccontare una storia di violenza, e la storia della forza, del coraggio, della dignità e della vulnerabilità di un personaggio femminile.
È Vivienne, interpretata da Vicky Krieps – la avevamo vista, ed amata, ne Il filo nascosto (guarda la video recensione), e successivamente ne Il corsetto dell’imperatrice – che sceglie, che rischia, che porta la vita in un mondo raggelato, fatto solo di polvere, di denaro, di armi da fuoco, di morte. È lei, Vivienne, immigrata canadese, che a San Francisco nel 1860 circa preferisce, alle avances di un pretendente ricco e odioso, la flemma sorniona di un tipo che se ne sta in un angolo, cappellaccio e baffoni: è Viggo Mortensen, immigrato danese. Si scelgono, istintivamente, immediatamente. E quando lo porta, con cappellaccio e giacca impolverata, a un’esposizione di quadri a casa del pretendente, proprio per mostrarglielo sotto il naso, è bellissima l’impertinenza, adolescenziale, di lei. Che sceglie, poco dopo, di seguire Mortensen, dovunque stia andando.
Nasce un embrione di film romantico: un amore come incontro di due persone che costruiscono una bolla, un rifugio in mezzo a un mondo infame. Una casetta di legno che Mortensen mostra a Vicky Krieps: come Buster Keaton che prova sempre a costruire casette e nidi d’amore, nei suoi film comici degli anni Venti, casette e sogni d’amore regolarmente distrutti. E anche qui il mondo, tenuto fuori dalla porta, rientrerà, mandando in frantumi finestre e sogni.
The Dead Don’t Hurt è, anche, una storia di outsider, di migranti: canadese lei, danese lui. Il loro incontro è un incontro di linguaggi diversi, lui che maneggia male l’inglese e le dice “tu sei handy”, per dire “in gamba”, e lei che lo guarda strano, e poi sceglie di usare la parola in senso letterale, con la mano nei pantaloni di lui. O quando lei insegna a Viggo la pronuncia corretta di “omelette”.
È un film di stranieri, è un film di prepotenti e di vittime, come se tutta la storia del West – o tutta la storia della società umana – non fosse altro che quello. Violenti, persecutori e persone che subiscono questa violenza. Ma la violenza è legata anche al denaro, al possesso. Il figlio del boss è il figlio di chi possiede la terra, e con essa le miniere, e quindi il denaro. Si possiedono i soldi, si possiede il potere, si crede di possedere anche i corpi delle donne, le vite degli altri. C’è uno stretto legame fra capitalismo e maschilismo. E la legge è solo una mano di vernice, una patina di giustizia finta su di un processo farsa, nel quale si impiccherà un innocente.
Mortensen, alla seconda prova da regista dopo Falling – Storia di un padre, nel 2020, compie delle scelte molto precise. Una, narrativa, è quella di iniziare mostrandoci subito qualcosa che accade alla fine, per poi lavorare di flashback e di incastri temporali. Una scelta quasi “anti-climatica”: invece di procedere in crescendo, dall’idillio tenero che lega i due personaggi fino alla violenza che esplode, Mortensen sceglie quasi di disinnescare la potenza della suspense, la molla emotiva. Non è quello il cuore del racconto: il cuore del racconto è la reazione di lei. Lei che è eroina e vittima, lei che ha la forza di affrontare tutto e tutti, a testa alta, ma che ne pagherà le conseguenze. Togliendoci un po’ di suspense, il racconto ci dà tempo e modo di entrare meglio nella interiorità di lei.
E poi c’è una seconda scelta del regista Mortensen. Quella di tenere la Storia fuori campo. La sentiamo, la percepiamo, ma quando Mortensen decide di arruolarsi, con i soldati unionisti, nella guerra di Secessione, noi non vedremo un solo cannone, un solo fucile, non vedremo reggimenti a cavallo o il fumo degli spari. La camera resta, ostinatamente, su di lei. Quando lui tornerà, tutto il racconto sulla guerra che lui farà si riassumerà in tre parole: “È stata lunga”.
Infine, visivamente, Mortensen non indulge mai alla bella inquadratura. Ci sono i campi lunghi, ci sono cavalli e vallate, ma neppure una volta si ha la sensazione che ci sia un regista che si è innamorato di un’immagine. Al contrario di quello che accade, per esempio, in Horizon di Kevin Costner, dove hai la percezione di righello e compasso su ogni inquadratura, o anche in Revenant – Redivivo di Alejandro G. Iñárritu, western “panico” in cui l’immagine, l’ambiente dominano e divorano il personaggio.
Il film di Mortensen, al contrario, si dedica principalmente, se non esclusivamente, ai suoi personaggi. Si concentra sui volti. E fa bene, perché nel viso spigoloso di Vicky Krieps, che si apre a volte in sorrisi bellissimi, stanno tutta la forza e la poesia del film. Un film nel quale, senza di lei, tutto appare grigio e arido, come quella casa di polvere e legno marcio che Mortensen le mostra, fiero, come casa dei loro sogni. “È il posto che hai scelto, fra tutti quelli che hai visto?” gli chiede lei, sconvolta. E lui, seraficamente, “yes”. Ma lei non si scompone, e lavorerà a portare colori e fiori in quella realtà decolorata e polverosa. In realtà, senza colori e senza vita sembrano tutte le esistenze maschili nel film. Tutti chiusi in un universo senza affetti, senza amore, solo denaro, alcol e armi da fuoco.
Se c’è un tema “moderno” che emerge dal film, è quello della accettazione. Vivienne accetta la decisione di Olsen di arruolarsi nell’esercito degli unionisti, e non pensa di fermarlo: è la sua vita, la sua scelta, il suo modo di integrarsi, di diventare “americano”, e lei non pensa per un solo istante di fermarlo. Così lui, al suo ritorno, deve accettare ciò che è accaduto, e amare quel che resta di un sogno, anche se è un sogno andato in frantumi, schegge taglienti rimaste sul pavimento.
Infine, l’ultimo tema che affiora: la paternità. Un tema che Mortensen aveva esplorato anche in Falling - Storia di un padre e, in altri modi, in Captain Fantastic (guarda la video recensione) di Matt Ross, del 2016. Qui la paternità è prendersi cura, proteggere e nutrire di affetto a prescindere dalla discendenza di sangue. E anche questa è una scheggia di modernità in un western solo apparentemente classico, che devia costantemente dai cliché e che disegna un grande personaggio femminile. Che si aggiunge ad alcuni memorabili personaggi femminili del western, come la Marlene Dietrich di Rancho Notorius e o la Joan Crawford di Johnny Guitar.