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Prisoner, nessuno è davvero libero. Una serie che riflette sulle conseguenze della paura

Da Oz a Orange is the New Black, le serie carcerarie hanno spesso raccontato il punto di vista dei prigionieri. Qui al centro troviamo le guardie. In streaming su MYmovies ONE. GUARDA ORA »
di Emanuele Sacchi

Sofie Gråbøl (57 anni) 30 luglio 1968, Frederiksberg (Danimarca) - Leone. Interpreta Miriam nel film di Frederik Louis Hviid, Michael Noer Prisoner.
martedì 14 ottobre 2025 - Focus

Di serie ambientate in carcere ne abbiamo viste molte, da Oz a Wentworth, fino a Orange Is the New Black e Inside the World’s Toughest Prisons. Tutte, in un modo o nell’altro, raccontano la reclusione dal punto di vista dei detenuti: corpi costretti, vite sospese, sopravvivenza come unica regola. Prisoner (Huset in originale, ossia “Casa”), nuova serie danese diretta da Michael Noer, - disponibile in streaming su MYmovies ONE - sceglie invece di guardare l’inferno dall’altra parte delle sbarre. Qui i protagonisti non sono i prigionieri, ma le guardie: uomini e donne incaricati di mantenere l’ordine, in un mondo in cui l’ordine non esiste. L’idea, in apparenza semplice, produce un ribaltamento radicale.

Le mura del penitenziario non sono più una frontiera che separa i colpevoli dai giusti, ma una membrana porosa attraverso cui la violenza e la corruzione filtrano in entrambe le direzioni. L’istituzione totale, direbbe Foucault, divora chiunque vi entri, indipendentemente dal ruolo. Prisoner è proprio questo: un lento contagio morale, una discesa progressiva in cui i custodi finiscono per somigliare ai prigionieri. Tutti i cliché del genere ci sono – le gang rivali che si dividono il cortile, gli abusi, le alleanze temporanee, le regole non scritte – ma Noer li utilizza per costruire qualcosa di più ambiguo.

Non c’è romanticismo né eroismo: solo la fatica quotidiana, il peso delle scelte impossibili, la consapevolezza che la legge, dentro la Casa, vale meno del silenzio. Le due fazioni dominanti – da una parte i musulmani, dall’altra un gruppo di suprematisti bianchi mai nominati apertamente – delineano un equilibrio instabile che le guardie devono amministrare come diplomatici in zona di guerra. A emergere è una tensione costante tra principio e compromesso. C’è chi, come il veterano Henrik, ha imparato a sopravvivere piegandosi alle logiche interne, e chi, come Miriam, tenta disperatamente di mantenere una linea morale in un contesto che la divora.
 


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In foto una scena della serie.

La serie osserva con precisione chirurgica come la paura, la frustrazione e il senso di impotenza possano deformare anche la persona più integerrima, fino a farle perdere la percezione del confine tra il bene e il male. Se Oz mostrava l’inferno come spettacolo, e Orange Is the New Black lo travestiva da dramedy sociale, Prisoner punta tutto sul realismo: luci fredde, ambienti claustrofobici, una messa in scena quasi documentaria. Lo sguardo di Noer – già autore del notevole Northwest – è intriso di un rigore scandinavo che rifiuta ogni eccesso. La violenza non è mai spettacolare, ma insinuante: non esplode, corrode.

All’opposto del panopticon in cui ogni detenuto è osservato costantemente e privato della propria esistenza privata, in Prisoner vige il tentativo di occultare la vista: le tapparelle tirate e i vetri offuscati che separano i due mondi sono una garanzia per entrambe le forze opposte. Una questione, quella del “non vedere”, talmente centrale da essere evidenziata anche dal suo opposto, la dimensione privata del protagonista Sammi, giovane e ambiziosa matricola, che vive in una casa priva di porte e dal vasto e un po’ esibizionistico balcone. Un contrasto sapientemente sottolineato dalla regia, che sottolinea la natura contraddittoria del personaggio, scisso tra origini marocchine e rigore danese, tra volontà di affermare la legge e dubbi morali che si insinuano gradualmente in lui, man mano che introietta le regole della Casa.
 


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In foto una scena della serie.

Sotto l’apparente calma del welfare nordico si nascondono tensioni etniche, solitudini, dipendenze e una progressiva disumanizzazione del lavoro pubblico. Prisoner è anche un racconto sul burnout, sul prezzo emotivo del controllo e sul modo in cui le istituzioni – anche quelle più civili – producono alienazione. Inevitabile pensare a un illustre precursore della serialità danese, anch’esso con un solo sostantivo come titolo: quel Riget (ma è per tutti The Kingdom) che rivelava al mondo il talento di Lars Von Trier, condensando incubi e surreale ironia negli spazi chiusi di un ospedale. Se il registro è radicalmente differente – là eccentrico e autoriale, qui popolare e orientato al contenuto più che alla forma – a permanere è la sensazione di un microcosmo isolato, in cui le storture del mondo esterno e di una società multiculturale ma contraddittoria, come quella danese, sono fedelmente rappresentate.

Pur senza reinventare del tutto il genere carcerario, Prisoner mantiene viva l’attenzione grazie alla qualità della scrittura e all’intelligenza dello sguardo. Ogni episodio scava un po’ più a fondo, ricordandoci che il carcere non è solo un luogo fisico ma uno stato mentale, un equilibrio precario tra sopravvivenza e colpa. L’originalità non sta tanto in quel che racconta, ma nel come lo fa: capovolgendo la prospettiva, la serie mostra che nessuno è davvero libero, nemmeno chi tiene le chiavi in mano e le fa tintinnare per preannunciare il proprio arrivo.


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Prisoner
Serie TV, Drammatico, Poliziesco - Danimarca, Norvegia, Svezia, Islanda, Finlandia, 2023, 6x60’

Prisoner

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