Sembra mio Figlio

Il viaggio di Ismail sulle tracce della madre nell'Afghanistan lacerato dalla guerra

La storia personale di Ismail, fuggito in Europa dall'Afghanistan quando aveva nove anni, diventa metafora della tragedia di un popolo intero, quello dell'etnia hazara, perseguitato da due secoli e, in tempi recenti, decimato prima dai sovietici poi dai talebani. E non solo: il suo è il dramma degli immigrati di tutto il mondo, costretti dalla guerra a lasciare la loro terra e a separarsi dai genitori, senza mai poter davvero dimenticare le proprie radici. Ha un valore universale il film di Costanza Quatriglio Sembra mio figlio, presentato fuori concorso all'ultimo festival di Locarno e in uscita dopodomani. Una piccola grande opera, tra fiction e documentario, che parla soprattutto di esseri umani, ma che acquista un significato politico nell'epoca in cui il tema dei migranti è al centro di polemiche accese e prese di posizione discutibili. Sarà difficile cancellare dalla memoria i lineamenti dolci e arcaici, i lunghi capelli sciolti, gli occhi a mandorla (segno inconfondibile di appartenenza) del protagonista Basir Ahang, poeta e giornalista afghano residente in Italia. Il suo Ismail è un ventinovenne che conduce nel nostro Paese (la prima parte del lungometraggio è girata a Trieste) un'esistenza piena di inquietudine, ma fiera e dignitosa, svolgendo molti lavori per sopravvivere e aiutando il fratello maggiore Hassan (Dawood Yousefi), torturato dai talebani prima della fuga, a rilevare una piccola sartoria. La monotonia quotidiana è spezzata solo dagli incontri con Nina, immigrata slava di cui il giovane si sta innamorando (Tihana Lazovic), e soprattutto dalle telefonate in Afghanistan con quella che potrebbe essere la madre ancora viva. Ma l'ambiguità della donna, che non lo riconosce, l'intervento del potente patrigno, che vorrebbe trascinarlo in Pakistan per darlo in moglie a una sconosciuta, e la rigidità ortodossa di Hassan che cade nel tranello, lo convincono che l'unica soluzione sia partire per un viaggio nel passato e rintracciare da solo la vera mamma. Lo seguiamo dunque al confine tra Pakistan e Afghanistan, nelle terre della disperazione e della violenza (in realtà le riprese sono state realizzate in Iran, che torna ad essere sede di un set italiano a cinquant'anni da II deserto dei Tartari di Valerio Zurlini), tra montagne rocciose, trafficanti di uomini, donne imprigionate, uccisioni efferate e strazianti sepolture, sino alla sequenza finale dove cercherà di riconoscere tra tanti volti tormentati e solcati dalle lacrime chi lo ha generato. Una storia reale quella raccontata dalla regista palermitana, che mentre stava girando il mondo addosso ha conosciuto Mohammad Jan Azad: già nel doc Breve film d'amore e libertà, da lui stesso interpretato, Quatriglio aveva preso spunto dalla sua esperienza, simile a quella di Ismail e fissata in alcuni scritti. Un inferno che ora diventa materia di un lavoro asciutto, minimalista, poetico, sicuramente non facile, lontano dal ricatto sentimentale e un po' furbetto dei libri di Khaled Hosseini (II cacciatore di aquiloni, Mille splendidi soli). Non c'è bisogno di troppe parole, basta la forza evocativa delle immagini e degli sguardi per riportare all'attenzione il dolore troppo spesso dimenticato di una nazione spezzata, che, si spera, continui a destare sdegno dopo l'ultima, commovente, scena del film.
Da La Repubblica, 18 settembre 2018


di Paola Zonca, 18 settembre 2018