lbavassano
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sabato 2 giugno 2018
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dubbi
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Se "Dogman" mi ha deluso, "Lazzaro felice" accresce i miei dubbi sulla giuria dell'ultimo Festival di Cannes. Se "Le meraviglie" mi aveva piacevolmente sorpreso, per la capacità dell'autrice di rielaborare in forma poetica una materia, credo, a lei ben nota, qui mi pare puntare troppo in alto.
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francesca meneghetti
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venerdì 1 giugno 2018
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peace and love (ma a senso unico)
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Chi va a vedere Lazzaro Felice, è attirato non solo dal riconoscimento di Cannes, ma anche dalla dichiarazione della regista-sceneggiatrice Alice Rohrwacher. E’ un film, dichiara la Rorhrwacher (Alice), che racconta “la santità dello stare al mondo e di non pensare al male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani”. Di questi tempi, il messaggio appare come una boccata di ossigeno: aria fresca, pura, sana. Si vorrebbe, inconsciamente, il trionfo della bontà sullo schifo, con dimostrazione che essa produce felicità, per uscirne confortati, più fiduciosi nell’umanità. Naturalmente, se nel proprio cuore si coltiva questo sentimento. Ma la narrazione sorprende. In un microcosmo contadino fuori dal tempo, in una sperduta località di calanche dell’Appennino centrale, vivono dei mezzadri, al servizio della marchesa De Luna, che faticano restando sempre debitori.
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Chi va a vedere Lazzaro Felice, è attirato non solo dal riconoscimento di Cannes, ma anche dalla dichiarazione della regista-sceneggiatrice Alice Rohrwacher. E’ un film, dichiara la Rorhrwacher (Alice), che racconta “la santità dello stare al mondo e di non pensare al male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani”. Di questi tempi, il messaggio appare come una boccata di ossigeno: aria fresca, pura, sana. Si vorrebbe, inconsciamente, il trionfo della bontà sullo schifo, con dimostrazione che essa produce felicità, per uscirne confortati, più fiduciosi nell’umanità. Naturalmente, se nel proprio cuore si coltiva questo sentimento. Ma la narrazione sorprende. In un microcosmo contadino fuori dal tempo, in una sperduta località di calanche dell’Appennino centrale, vivono dei mezzadri, al servizio della marchesa De Luna, che faticano restando sempre debitori. Tra di loro c’è il giovane Lazzaro, bestia da soma della comunità. Presto si insinuano dei segnali dissonanti, degli anacronismi verrebbe da credere: un telefono Motorola con l’antenna, un ragazzo, Tancredi, (figlio della marchesa) seguace di David Bowie. Il solo a diventare amico, anche se di un’amicizia superficiale, del povero Lazzaro, privo di genitori. A un certi punto, Lazzaro, febbricitante e alla ricerca di Tancredi, precipita in un dirupo. Lo salva (?) un lupo, figura ricorrente nel film, per presenza diretta o peri suoi ululati. Lazzaro dorme, non 700 anni come il pastore Aligi della dannunziana opera teatrale La figlia di Jorio, ma abbastanza, circa trent’anni. Così da ritrovare, abbandonato, il suo microcosmo: che, una volta scovato dagli elicotteri dei carabinieri, è stato a suo tempo ricondotto alla "civiltà". In realtà, i protagonisti di quell’arcaica comunità, dopo aver scoperto di essere stati ingannati, essendo la mezzadria scomparsa, resteranno emarginati. Si comprende allora che il film mescola con estrema libertà realismo (e temi sociali) con la fantasia o il simbolismo, su tutti i livelli. In particolare, è il lupo la figura-simbolo ricorrente, sino alla fine. Se si concede questa licenza, che per altro si ritrova nel cinema italiano (Fellini, più che Olmi), il giudizio sul film è positivo,tanto più che i due piani narrativi sono assecondati da una fotografia ed un registro coerente. Se si pretende rigore narrativo in senso classico, la sceneggiatura può risultare bislacca, come ha ammesso la stessa regista.. Ma, per concludere la storia, seguendo dei ladri giunti a saccheggiare la villa della marchesa, il risorto Lazzaro ritrova i compagni di infanzia, persino l’amico-quasi-fratello Tancredi. Gli scenari, ora urbani e degradati, sono nettamente cambiati. I vecchi amici sono invecchiati, ma lui no. E,nonostante, gli sgarbi e le violenze, persiste nella sua missione di innocenza accompagnato da uno sguardo limpido, diretto, buono. Perdente purtroppo. Per queste ragioni, Lazzaro, interpretato da uno splendido, nel suo candore, Adriano Tardiolo, richiama alla mente la vittima buona e sacrificale per eccellenza: Gesù Cristo. Non è necessario condividere credo religiosi improntati a dogmatismo per riconoscere qualità umane come la bontà e l’amore per il prossimo. Peace and Love, ma, quest’ultimo, a senso unico.
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(di mariaf.)
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vanessa zarastro
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venerdì 1 giugno 2018
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ideologia antiurbana
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Nei suoi possedimenti di coltivazione di tabacco de l’Inviolata, una ventina di anni fa la Marchesa de Luna (interpretata da Nicoletta Braschi), teneva una cinquantina di contadini - li chiamava ancora “mezzadri” - in condizione di semi-schiavitù. Lontani dal mondo e dai media, senza alcuna istruzione, ai sequestrati sempre in debito con lei, la Marchesa faceva credere di essere padrona anche delle loro vite. Suo figlio Tancredi (interpretato da Luca Chikovani da giovane), allampanato e stravagante, vorrebbe ribellarsi ed emanciparsi da lei e cerca un alleato nell’ingenuo contadino Lazzaro.
Questi ha un cuore d’oro, con un sorriso serafico aiuta tutti coloro che glielo chiedono e, per questo, viene facilmente sfruttato, anche da parte degli altri lavoratori.
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Nei suoi possedimenti di coltivazione di tabacco de l’Inviolata, una ventina di anni fa la Marchesa de Luna (interpretata da Nicoletta Braschi), teneva una cinquantina di contadini - li chiamava ancora “mezzadri” - in condizione di semi-schiavitù. Lontani dal mondo e dai media, senza alcuna istruzione, ai sequestrati sempre in debito con lei, la Marchesa faceva credere di essere padrona anche delle loro vite. Suo figlio Tancredi (interpretato da Luca Chikovani da giovane), allampanato e stravagante, vorrebbe ribellarsi ed emanciparsi da lei e cerca un alleato nell’ingenuo contadino Lazzaro.
Questi ha un cuore d’oro, con un sorriso serafico aiuta tutti coloro che glielo chiedono e, per questo, viene facilmente sfruttato, anche da parte degli altri lavoratori. Non ha genitori, non sa di chi sia figlio, ma ha una nonna e vive nella comunità dei contadini, stipati uno sull’altro in due camere. Il ragioniere contabile (interpretato da Natalino Balasso) che riscuote i prodotti agricoli (tabacco, capponi, uova ecc.) per conto della Marchesa, ha una figlia che vorrebbe si fidanzasse con il marchesino.
Una serie di vicende legherà Tancredi e Lazzaro in una strana, ma leale, amicizia. Lazzaro, febbricitante per aver preso troppa pioggia, per andare ad occuparsi di Tancredi, avrà un incidente e cadrà da un dirupo. Si risveglierà parecchio tempo dopo (vent’anni?) e non troverà più nessuno. Infatti durante la sua caduta, erano arrivati i carabinieri per cercare il Tancredi supposto rapito, così avevano scoperto in quale situazione indegna vivevano tutte queste persone, le avevano salvate, portate via. la Marchesa era stata incriminatoa per tutta una serie di reati che l’avevano portata sulle prime pagine dei giornali per un “grande inganno”.
Così Lazzaro, salvatosi miracolosamente (da cui si capisce il nome), comincerà a vagare in cerca di Tancredi e per raggiungere la città. Incontrerà, guarda caso, Antonia (Alba Rohrwacher) e alcuni altri membri della sua famiglia tutti homeless – ecco così conquistata la libertà! - che bivaccano in una periferia vicino allo scalo merci e vivono di espedienti rubacchiando qua e là.
Antonia lo riconosce subito mentre gli altri lo scansano pensando sia un fantasma - «I fantasmi non hanno fame» dice la vecchia nonna – o convinti che porti sfortuna. Lazzaro riconoscerà alcune erbe commestibili nate spontaneamente nel degrado urbano e si metteranno tutti insieme a raccoglierle iniziando un nuovo business.
Un giorno in città rincontrerà Tancredi (interpretato da adulto da Tommaso Ragno) cresciuto e invecchiato, lo porterà nel loro tugurio e in cambio lui inviterà tutti per un pranzo. Ma quando tutti i senzatetto e gli ex contadini arriveranno a casa sua scopriranno che anche lui moriva di fame perché le banche gli hanno portato via ogni bene. Vorrei evitare di narrare il finale che è comunque prevedibile e costituisce un di più sulla vicenda umana e sociale dei suoi protagonisti.
Una metafora del lupo buono, solo e anziano, allontanato dal gruppo, e di cui l’uomo nonostante tutto ha paura, si intreccia con la storia dei cinquantaquattro contadini.
Le storie narrate da Alice Rohrwacher sono sempre un po’ bucoliche, in questo caso si è ispirata a un libro per bambini di Chiara Frugoni. I suoi film mostrano un sociale sommerso, persone spesso sotto la soglia di povertà che fanno mestieri improbabili, spesso arrangiandosi. Spesso si difendono da un mondo “altro” come il padre delle quattro sorelline in Le meraviglie. Da un lato la regista demitizza l’arcadia perduta, dall’altro presenta un’alternativa disperante che forse è anche peggiore. La sua sembra essere un’ideologia anti-urbana, se solo il bene vincesse sul male, almeno una volta!
Il linguaggio che la regista usa, qui molto più maturo de Le meraviglie del 2014, è tra il verismo e il simbolico. Le vedute del paesaggio agreste sembrano uscite dai quadri dei macchiaioli toscani mentre la città, nonostante sia Milano o altra città del nord, sembra uscita da un quadro di Vespignani. Il simbolico surreale è da riscontrarsi più nella storia che nel linguaggio figurativo. La regista intervistata ha dichiarato di ispirarsi a Ermanno Olmi e ai fratelli Taviani, probabilmente per l’avvicendarsi delle stagioni sul paesaggio naturale e sulla presenza materica della roccia.
Il film a mio avviso va visto perché fa riflettere sulle condizioni degli emarginati, che oggi sembrerebbe essere una prerogativa degli immigrati o dei rom (vedi ad esempio il recente “A Ciambra” di Jonas Carpignano).
Le musiche sono scelte con cura: ad esempio la contrapposizione tra l’elegante Preludio di Bach n. VIII per clavicembalo, stride volutamente con le immagini di povertà dei senza tetto. Bravi gli attori, specialmente l’attonito Adriano Tardiolo e la truffaldina Alba Rohrwacher.
Presentato al Festival di Cannes di quest’anno, il film ha ottenuto il premio per la migliore sceneggiatura.
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francesca meneghetti
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giovedì 31 maggio 2018
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peace and love
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Chi va a vedere Lazzaro Felice, è attirato non solo dal riconoscimento di Cannes, ma anche dalla dichiarazione della regista-sceneggiatrice Alice Rohrwacher. E’ un film, dichiara la Rorhrwacher Alice), che racconta “la santità dello stare al mondo e di non pensare al male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani”. Di questi tempi, il messaggio appare come una boccata di ossigeno: aria fresca, pura, sana. Si vorrebbe, inconsciamente, il trionfo della bontà sullo schifo, per uscirne confortati, più fiduciosi nell’umanità. Naturalmente se nel proprio cuore si coltiva questo sentimento. La narrazione sorprende. In un microcosmo contadino fuori dal tempo, in cui dei mezzadri, residenti in una sperduta località di calanche dell’Appennino centrale, faticano senza guadagnare nulla al servizio della marchesa De Luna, e tra i quali si disegna il profilo del giovane Lazzaro, bestia da soma della comunità, si insinuano dei segnali dissonanti dal punto di vista cronologico: un telefono Motorola con l’antenna, un ragazzo, Tancredi, (figlio della marchesa) seguace di David Bowie.
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Chi va a vedere Lazzaro Felice, è attirato non solo dal riconoscimento di Cannes, ma anche dalla dichiarazione della regista-sceneggiatrice Alice Rohrwacher. E’ un film, dichiara la Rorhrwacher Alice), che racconta “la santità dello stare al mondo e di non pensare al male di nessuno, ma semplicemente credere negli altri esseri umani”. Di questi tempi, il messaggio appare come una boccata di ossigeno: aria fresca, pura, sana. Si vorrebbe, inconsciamente, il trionfo della bontà sullo schifo, per uscirne confortati, più fiduciosi nell’umanità. Naturalmente se nel proprio cuore si coltiva questo sentimento. La narrazione sorprende. In un microcosmo contadino fuori dal tempo, in cui dei mezzadri, residenti in una sperduta località di calanche dell’Appennino centrale, faticano senza guadagnare nulla al servizio della marchesa De Luna, e tra i quali si disegna il profilo del giovane Lazzaro, bestia da soma della comunità, si insinuano dei segnali dissonanti dal punto di vista cronologico: un telefono Motorola con l’antenna, un ragazzo, Tancredi, (figlio della marchesa) seguace di David Bowie. Il solo amico, anche se di un’amicizia superficiale,di Lazzaro. Ma Lazzaro, febbricitante, precipita in un dirupo. Lo salva un lupo,figura ricorrente nel film, per presenza diretta o peri suoi ululati. Lazzaro dorme non 700 anni come il pastore Aligi della dannunziana opera teatrale La figlia di Jorio, ma abbastanza per ritrovare, abbandonato, il suo microcosmo: che, una volta scovato dagli elicotteri delle forze dell’ordine, è stato ricondotto alla civiltà. In realtà, i protagonisti di quell’arcaica comunità resteranno emarginati, nonostante il riconoscimento dei loro diritti. Casualmente,seguendo dei ladri giunti a saccheggiare la villa della marchesa, ritrova i compagni di infanzia, persino l’amico-quasi-fratello Tancredi. Gli scenari, ora urbani e degradati, sono nettamente cambiati. I vecchi amici sono invecchiati, ma lui no. E,nonostante, gli sgarbi e le violenze, persiste nella sua missione di innocenza. Perdente purtroppo. Per queste ragioni, Lazzaro, interpretato da uno splendido, nel suo candore, Adriano Tardiolo, richiama alla mente la vittima sacrificale per eccellenza: Gesù Cristo. Non è necessario condividere credo religiosi improntati a dogmatismo per riconoscere certe qualità umane come la bontà e l’amore per il prossimo. Peace and Love.
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martedì 15 maggio 2018
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ammirazione
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Non ho ancora visto il film ma mi sono trovata per poco tempo immersa in quella atmosfera. Ne ho avvertito la musica interiore e la bellezza del suo linguaggio, quella che ho letto magnificamente espressa nel suo articolo. Sono ancora commossa da quelle sensazioni. Grazie di aver scritto anche per me. Liliana
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