blumarius
|
mercoledì 26 giugno 2019
|
film complesso e sublime
|
|
|
|
in questo caso non mi sento di scrivere una vera recensione perché per questo film non ne sono all'altezza.
vorrei tuttavia esprimere una mia opinione molto positiva su un film che lascia il segno ed entra di diritto nella storia del cinema italiano.
il soggetto, solo apparentemente semplice, di favola moderna, è in realtà decisamente complesso, con tematiche etiche e filosofiche. si intrecciano tematiche come il rapporto tra l'uomo e la natura, tra l'uomo e l'uomo, e tra l'uomo e la religione.
il giusto è giusto solo in senso assoluto, ma il rapporto tra il giusto e il resto del creato depotenzia (apparentemente) il giusto.
[+]
in questo caso non mi sento di scrivere una vera recensione perché per questo film non ne sono all'altezza.
vorrei tuttavia esprimere una mia opinione molto positiva su un film che lascia il segno ed entra di diritto nella storia del cinema italiano.
il soggetto, solo apparentemente semplice, di favola moderna, è in realtà decisamente complesso, con tematiche etiche e filosofiche. si intrecciano tematiche come il rapporto tra l'uomo e la natura, tra l'uomo e l'uomo, e tra l'uomo e la religione.
il giusto è giusto solo in senso assoluto, ma il rapporto tra il giusto e il resto del creato depotenzia (apparentemente) il giusto. eppure il giusto indica la via nella coscienza.
attori di altissimo livello, sia il protagonista, sia gli altri, tra cui spicca Ragno, seppur per poche scene.
fotografia coinvolgente e poetica. colonna sonora molto adatta.
sono stati già citati Olmi, Pasolini, citerei anche le atmosfere di Bertolucci. la natura... da lì veniamo, e lì torniamo...
grazie per questo film
ps molto bello il commento di sergio caregnato
[-]
|
|
[+] lascia un commento a blumarius »
[ - ] lascia un commento a blumarius »
|
|
d'accordo? |
|
caregnato sergio
|
lunedì 4 febbraio 2019
|
lazzaro e il lupo
|
|
|
|
Per la tensione tra realismo crudo, esplicito impianto sacro e locale ed amara critica sociale, il film mette in campo qualità che, non solo per i registri narrativi asciutti, avrebbero incontrato il gusto di Pasolini. I riferimenti alla figura biblica di Lazzaro, all'agiografia francescana, a quella di martire assunta dalle vicende del protagonista, si intrecciano con la realtà della vita nei campi, svuotata da ogni rassicurante retorica pastorale. Anzi, nel primo tempo il film può sembrare ripetitivo, lento, a tratti persino noioso. In verità, scopriremo più tardi, questa lentezza servirà due scopi: il primo è quello di favorire il crescendo emotivo legato al finale e alla denuncia sociale, il secondo è che la lentezza è il ritmo del sacro, la presentazione dell'ingenuità del martire ha bisogno di un tempo 'lungo'.
[+]
Per la tensione tra realismo crudo, esplicito impianto sacro e locale ed amara critica sociale, il film mette in campo qualità che, non solo per i registri narrativi asciutti, avrebbero incontrato il gusto di Pasolini. I riferimenti alla figura biblica di Lazzaro, all'agiografia francescana, a quella di martire assunta dalle vicende del protagonista, si intrecciano con la realtà della vita nei campi, svuotata da ogni rassicurante retorica pastorale. Anzi, nel primo tempo il film può sembrare ripetitivo, lento, a tratti persino noioso. In verità, scopriremo più tardi, questa lentezza servirà due scopi: il primo è quello di favorire il crescendo emotivo legato al finale e alla denuncia sociale, il secondo è che la lentezza è il ritmo del sacro, la presentazione dell'ingenuità del martire ha bisogno di un tempo 'lungo'.
Nelle loro dimore un centinaio di mezzadri e le loro famiglie vivono 'ammucchiati', regolati da ruoli di inclusione ed esclusione tipici del branco: “bestie” li definisce infatti la 'marchesa', padrona delle loro vite e non solo della terra che coltivano. E tuttavia, nonostante essi presentino ora tratti deformi ora impulsi sadici, il gruppo resta una comunità coesa coinvolta com'è nei riti tradizionali del mondo contadino.
Lazzaro è l'unico membro della comunità le cui origini rimangono incerte. Per la sua condizione di orfano egli è costretto a subire, senza ribellarsi, una doppia discriminazione – da un lato la discriminazione esercitata sui mezzadri dall'aristocratica famiglia che possiede le terre, dall'altro anche quella dei mezzadri. Significativa, a questo proposito, è la conversazione tra la Marchesa e il figlio, Tancredi. Qando il giovane obietta alla madre che la relazione della famiglia con in contadini è 'tutto un inganno', la marchesa respinge l'accusa: secondo lei, tutta la vita sarebbe regolata da un rapporto di sopraffazione tra forte e debole. Allora, ribadisce Tancredi, quale sarebbe lo statuto di chi nella vita, come Lazzaro, si trova nello scalino più basso e non ha nessuno su cui esercitare una qualche 'forza'?
Sfruttato da sfruttatori e da sfruttati, Lazzaro è degradato allo statuto di 'sub-schiavo'. Una delle scene iniziali in cui gli viene riservato il ruolo di 'cane da guardia' contro i possibili attacchi dei lupi, testimonia di una condizione di inferiorità che egli accetta come 'naturale'. La scena è la prima di una serie che infittisce le allusioni ad una relazione con gli uomini mediata da un rapporto privilegiato con il mondo dei cani e dei lupi. I riferimenti al mondo dei lupi consente a Lazzaro di articolare due opposti livelli simbolici – quello 'basso' (o quasi-umano) e, d' altro canto, quello di una spiritualità 'alta' attraverso l'allusione alla riconciliazione tra lupo e uomo associata all'agiografia francescana. Il cane da salotto di Tancredi, vero e proprio 'lap-dog', costituisce un filo che consentirà il finale ritrovamento dei due. Lazzaro, cane egli stesso e in simbiotica relazione coi lupi, reincontra Tancredi grazie al 'lap-dog', simbolo innocente di una diminuzione urbana e borghese del cane/lupo.
La sua seconda vita , a partire dalla morte e resurrezione, è sotto la tutela dello spirito della selva e del selvatico, delle piante, delle erbe, delle cose e della parola degli uomini, entità mescolate ma sempre, per Lazzaro, portatrici di un segno unico di verità. Le cose, coinvolte tra loro, non hanno mai l'aspetto 'altro': sono come appaiono o come sono dette – questo è l'aspetto sacrale di Lazzaro. Nessuna duplicità o molteciplità semantica è ammessa – l'assenza di sotterfugio, di qualsiasi lasco tra parola e cosa, indicano lo spazio di una sacralità primitiva. Essa è intangibile e incomprensibile al mondo dei 'normali', siano essi dandy urbani (Tancredi), oppure appartenenti al micro cosmo della società rurale.
Quando il gruppo viene integrato nella società moderna, si sperde in mille rivoli. Ognuno si potrà difendere, forse, individualmente, o per piccole bande, disperse, che vivono di espedienti. Il degrado e l'emarginazione sono il 'campo' degli ex-lavoratori schiavi, persino peggiore di quel recinto concluso organizzato dalla signora marchesa. In quel mondo nuovo, luogo di salvazione secondo l'ipocrisia mediatica, gli emarginati si degradano ulteriormente, e il sub-umano Lazzaro, ultimo tra gli ultimi, scende l'ultimo gradino e affronta, inconsapevole, la condanna e la morte.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a caregnato sergio »
[ - ] lascia un commento a caregnato sergio »
|
|
d'accordo? |
|
caregnato sergio
|
lunedì 4 febbraio 2019
|
lazzaro e il lupo
|
|
|
|
Per la tensione tra realismo crudo, esplicito impianto sacro e locale ed amara critica sociale, il film mette in campo qualità che, non solo per i registri narrativi asciutti, avrebbero incontrato il gusto di Pasolini. I riferimenti alla figura biblica di Lazzaro, all'agiografia francescana, a quella di martire assunta dalle vicende del protagonista, si intrecciano con la realtà della vita nei campi, svuotata da ogni rassicurante retorica pastorale. Anzi, nel primo tempo il film può sembrare ripetitivo, lento, a tratti persino noioso. In verità, scopriremo più tardi, questa lentezza servirà due scopi: il primo è quello di favorire il crescendo emotivo legato al finale e alla denuncia sociale, il secondo è che la lentezza è il ritmo del sacro, la presentazione dell'ingenuità del martire ha bisogno di un tempo 'lungo'.
[+]
Per la tensione tra realismo crudo, esplicito impianto sacro e locale ed amara critica sociale, il film mette in campo qualità che, non solo per i registri narrativi asciutti, avrebbero incontrato il gusto di Pasolini. I riferimenti alla figura biblica di Lazzaro, all'agiografia francescana, a quella di martire assunta dalle vicende del protagonista, si intrecciano con la realtà della vita nei campi, svuotata da ogni rassicurante retorica pastorale. Anzi, nel primo tempo il film può sembrare ripetitivo, lento, a tratti persino noioso. In verità, scopriremo più tardi, questa lentezza servirà due scopi: il primo è quello di favorire il crescendo emotivo legato al finale e alla denuncia sociale, il secondo è che la lentezza è il ritmo del sacro, la presentazione dell'ingenuità del martire ha bisogno di un tempo 'lungo'.
Nelle loro dimore un centinaio di mezzadri e le loro famiglie vivono 'ammucchiati', regolati da ruoli di inclusione ed esclusione tipici del branco: “bestie” li definisce infatti la 'marchesa', padrona delle loro vite e non solo della terra che coltivano. E tuttavia, nonostante essi presentino ora tratti deformi ora impulsi sadici, il gruppo resta una comunità coesa coinvolta com'è nei riti tradizionali del mondo contadino.
Lazzaro è l'unico membro della comunità le cui origini rimangono incerte. Per la sua condizione di orfano egli è costretto a subire, senza ribellarsi, una doppia discriminazione – da un lato la discriminazione esercitata sui mezzadri dall'aristocratica famiglia che possiede le terre, dall'altro anche quella dei mezzadri. Significativa, a questo proposito, è la conversazione tra la Marchesa e il figlio, Tancredi. Qando il giovane obietta alla madre che la relazione della famiglia con in contadini è 'tutto un inganno', la marchesa respinge l'accusa: secondo lei, tutta la vita sarebbe regolata da un rapporto di sopraffazione tra forte e debole. Allora, ribadisce Tancredi, quale sarebbe lo statuto di chi nella vita, come Lazzaro, si trova nello scalino più basso e non ha nessuno su cui esercitare una qualche 'forza'?
Sfruttato da sfruttatori e da sfruttati, Lazzaro è degradato allo statuto di 'sub-schiavo'. Una delle scene iniziali in cui gli viene riservato il ruolo di 'cane da guardia' contro i possibili attacchi dei lupi, testimonia di una condizione di inferiorità che egli accetta come 'naturale'. La scena è la prima di una serie che infittisce le allusioni ad una relazione con gli uomini mediata da un rapporto privilegiato con il mondo dei cani e dei lupi. I riferimenti al mondo dei lupi consente a Lazzaro di articolare due opposti livelli simbolici – quello 'basso' (o quasi-umano) e, d' altro canto, quello di una spiritualità 'alta' attraverso l'allusione alla riconciliazione tra lupo e uomo associata all'agiografia francescana. Il cane da salotto di Tancredi, vero e proprio 'lap-dog', costituisce un filo che consentirà il finale ritrovamento dei due. Lazzaro, cane egli stesso e in simbiotica relazione coi lupi, reincontra Tancredi grazie al 'lap-dog', simbolo innocente di una diminuzione urbana e borghese del cane/lupo.
La sua seconda vita , a partire dalla morte e resurrezione, è sotto la tutela dello spirito della selva e del selvatico, delle piante, delle erbe, delle cose e della parola degli uomini, entità mescolate ma sempre, per Lazzaro, portatrici di un segno unico di verità. Le cose, coinvolte tra loro, non hanno mai l'aspetto 'altro': sono come appaiono o come sono dette – questo è l'aspetto sacrale di Lazzaro. Nessuna duplicità o molteciplità semantica è ammessa – l'assenza di sotterfugio, di qualsiasi lasco tra parola e cosa, indicano lo spazio di una sacralità primitiva. Essa è intangibile e incomprensibile al mondo dei 'normali', siano essi dandy urbani (Tancredi), oppure appartenenti al micro cosmo della società rurale.
Quando il gruppo viene integrato nella società moderna, si sperde in mille rivoli. Ognuno si potrà difendere, forse, individualmente, o per piccole bande, disperse, che vivono di espedienti. Il degrado e l'emarginazione sono il 'campo' degli ex-lavoratori schiavi, persino peggiore di quel recinto concluso organizzato dalla signora marchesa. In quel mondo nuovo, luogo di salvazione secondo l'ipocrisia mediatica, gli emarginati si degradano ulteriormente, e il sub-umano Lazzaro, ultimo tra gli ultimi, scende l'ultimo gradino e affronta, inconsapevole, la condanna e la morte.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a caregnato sergio »
[ - ] lascia un commento a caregnato sergio »
|
|
d'accordo? |
|
stefanocapasso
|
giovedì 27 dicembre 2018
|
essere buoni aiuta a salvarsi
|
|
|
|
Nei primi anni 90 c’è una comunità che risiede nell’appennino centrale ed è rimasta legata a valori della società superati da tempo. L’Inviolata è un podere in cui famiglie di contadini lavorano per la proprietaria, Marchesa De Latte in condizione di servitù. Tra questi Lazzaro è un ragazzo buono e semplice al quale tutti si rivolgono per affidare lavori e al quale nessuno presta attenzione. Casualmente stringe amicizia con Tancredi, figlio ribelle della marchesa, un’amicizia che durerà nel tempo, anche quando Lazzaro si ritrova catapultato nella società contemporanea.
Il lavoro di Alice Rohrwacher è diviso in due parti piuttosto nette, la prima quella più lirica è la ricostruzione della vita dei contadini nel podere, la seconda è il ritorno al contemporaneo dove a tratti i personaggi faticano a calarsi in quella parte straniante che è la cifra linguistica di tutto il film, e dove la presenza di attori diviene preponderante rispetto a quella dei non professionisti cosi efficace nella prima.
[+]
Nei primi anni 90 c’è una comunità che risiede nell’appennino centrale ed è rimasta legata a valori della società superati da tempo. L’Inviolata è un podere in cui famiglie di contadini lavorano per la proprietaria, Marchesa De Latte in condizione di servitù. Tra questi Lazzaro è un ragazzo buono e semplice al quale tutti si rivolgono per affidare lavori e al quale nessuno presta attenzione. Casualmente stringe amicizia con Tancredi, figlio ribelle della marchesa, un’amicizia che durerà nel tempo, anche quando Lazzaro si ritrova catapultato nella società contemporanea.
Il lavoro di Alice Rohrwacher è diviso in due parti piuttosto nette, la prima quella più lirica è la ricostruzione della vita dei contadini nel podere, la seconda è il ritorno al contemporaneo dove a tratti i personaggi faticano a calarsi in quella parte straniante che è la cifra linguistica di tutto il film, e dove la presenza di attori diviene preponderante rispetto a quella dei non professionisti cosi efficace nella prima. E’ una fiaba amara sulla bontà necessaria in un mondo che pur cambiando nel tempo, negli oggetti, nelle apparenze mantiene la logica dell’oppressione verso il più debole, creando una ripetizione infinità. Mantenere la capacità di amare, l’integrità morale e la fedeltà ai valori più importanti permette di passare quasi indenne attraverso il gioco dei poteri attuato costantemente dagli uomini. Una rivisitazione in chiave favolistica di san Francesco e anche un forte rimando al neorealismo Zavattiniano di Miracolo a Milano
[-]
|
|
[+] lascia un commento a stefanocapasso »
[ - ] lascia un commento a stefanocapasso »
|
|
d'accordo? |
|
lizzy
|
giovedì 25 ottobre 2018
|
fra "l'albero degli zoccoli" ed "accattone".
|
|
|
|
Si, lo so cosa potrebbe pensare qualcuno leggendo il titolo: che ci azzeccano gli Olmi con Pasolini... E beh.. il degrado e le miserie umane, le ambientazioni bucoliche, la povera vita dei contadini chiusi in una gabbia medievale, i mezzucci per sopravvivere… No, io non posso gioire per un protagonista evidentemente con gravi problemi psichici e comportamentali. La sua non è bontà, non ci vedo nessuna gioia di vivere. Non sa chi sono i genitori, non riesce a distinguere fra bene e male… E poi ci sono troppe discrepanze nel film: cellulari che non dovrebbero funzionare che all’ improvviso prendono il segnale, i contadini che non si fanno nessuna domanda sulle varie tecnologie e su cosa c’è oltre il territorio dove abitano (va bene esser schiavi, ma l’umana curiosità???).
[+]
Si, lo so cosa potrebbe pensare qualcuno leggendo il titolo: che ci azzeccano gli Olmi con Pasolini... E beh.. il degrado e le miserie umane, le ambientazioni bucoliche, la povera vita dei contadini chiusi in una gabbia medievale, i mezzucci per sopravvivere… No, io non posso gioire per un protagonista evidentemente con gravi problemi psichici e comportamentali. La sua non è bontà, non ci vedo nessuna gioia di vivere. Non sa chi sono i genitori, non riesce a distinguere fra bene e male… E poi ci sono troppe discrepanze nel film: cellulari che non dovrebbero funzionare che all’ improvviso prendono il segnale, i contadini che non si fanno nessuna domanda sulle varie tecnologie e su cosa c’è oltre il territorio dove abitano (va bene esser schiavi, ma l’umana curiosità???). Ovvio poi che la seconda parte del film è esclusivamente “onirica”: Lazzaro morto e reincarnato in Lupo “resuscita” dopo poco (appena vent’anni?) e comincia a scorrazzare in giro per il mondo nemmeno invecchiato di un giorno (e nessuno se ne chiede il perchè) solo per poi morire in una banca linciato dai clienti forse più innervositi dal fatto che lui volesse saltar la fila che tentare una rapina finendo per clonare di brutto il Gesù Cristo-Accattone del film di Pasolini (e se fate bene attenzione e mettete a confronto le due scene gli attori alla fine si assomigliano in maniera lampante) che, dopo morto, torna Lupo. Qua siamo lontanissimi da “Le Meraviglie”, filmetto deboluccio, ma con una sua idea di fondo, dove comunque ambientazione e tematiche “rurali” la fanno quasi sempre da padrone come in questo Lazzaro Felice. Ma poi “Felice” perchè… io non vedo felicità in questo Lazzaro, ma solo tanta rassegnazione e incapacità di capire la vita per quel che è. Da “Accattone” credo venga mutuata la “malattia” che porta Lazzaro a cadere dal dirupo lasciandolo prima in una sorta di catatonia (“Si è bloccato”) e poi confondendolo fino a fargli mettere il piede in fallo. Una fine (di Accattone) qua suddivisa in due (Malattia e morte prima e scena in banca dopo). No, non mi è per nulla piaciuto Lazzaro Felice. E non ci vedo nessun motivo di entusiasmo o di premiazione, malgrado vedo molti quasi cerchino di gridare al “Miracolo Italiano”. La regista è ancora acerba. Ma se le premesse son queste…
[-]
|
|
[+] lascia un commento a lizzy »
[ - ] lascia un commento a lizzy »
|
|
d'accordo? |
|
sergiodalmaso
|
domenica 14 ottobre 2018
|
lazzaro felice
|
|
|
|
“… voglio vivere come i gigli nei campi, come gli uccelli del cielo campare,
voglio vivere come i gigli dei campi, e sopra i gigli dei campi volare.”
A Pà - Francesco De Gregori (dedicata a Pier Paolo Pasolini)
C’era una volta l’Inviolata, una remota tenuta coltivata a tabacco.
[+]
“… voglio vivere come i gigli nei campi, come gli uccelli del cielo campare,
voglio vivere come i gigli dei campi, e sopra i gigli dei campi volare.”
A Pà - Francesco De Gregori (dedicata a Pier Paolo Pasolini)
C’era una volta l’Inviolata, una remota tenuta coltivata a tabacco. La piccola comunità di contadini che la lavorava era da tempo isolata dal resto del mondo per il crollo del ponte lungo la strada che portava in città. Mezzadri, o meglio, servi della dispotica marchesa Alfosina De Luna, coltivavano faticosamente i suoi campi e vivevano con la frugalità dei loro avi, quasi in indigenza, ignorando il grande inganno che la perfida marchesa aveva escogitato.
Lazzaro felice potrebbe iniziare anche così, come una fiaba, perché - per quanto bislacca e libera - la linea narrativa della storia è quella di una fiaba neorealista.
Come in una fiaba ci sono i cattivi, nettamente distinti dalle vittime, sfruttate e truffate senza possibilità di riscatto. Come nelle fiabe ci sono elementi magici e spirituali, simbologie ataviche come il lupo ammansito dal bene, di francescana memoria, e salti spazio-temporali tra la campagna e la grande città.
Soprattutto c’è Lazzaro, un ragazzo orfano, ingenuo e candido al limite della santità. Lazzaro è sempre felice, servizievole con tutti anche se tutti abusano della sua bontà, “semplicemente, crede negli altri esseri umani”. Anche l’amicizia nei confronti del bizzoso marchesino Tancredi è pura, senza altri fini.
Risvegliatosi nel mondo odierno dopo la caduta nella rupeandrà in città alla ricerca dell’amico e dei vecchi compagni dell’Inviolata, scoprendo che sono tutti invecchiati e abbruttiti mentre lui è rimasto lo stesso, giovane e buono.
Nella fredda e caotica società metropolitana non c’è posto per i poveri contadini liberati dall’inganno della marchesa, come sono fuoritempo lo sguardo sereno e la bontà disinteressata di Lazzaro. La “follia” della felicità pura e del credere incondizionatamente nel prossimo, al giorno d’oggi può essere molto pericolosa.
E Lazzaro dovrà amaramente farne i conti.
Circoscrivere lo splendido film di Alice Rohrwacher nel perimetro di una parabola fiabesca, tuttavia, è senz’altro riduttivo. La poetica della regista fiorentina ha solide radici sociali e politiche, capaci di interpretare il passato e di leggere l’attualità di una società che,pur cambiando rapidamente,per gli esclusi resta sempre uguale a se stessa. Si possono cogliere vari richiami al cinema di Ermanno Olmi nella parte agreste e alle tematiche di Pier Paolo Pasolini in quella ambientata in città.
Se la prima parte di Lazzaro felice racconta, senza nostalgia, un mondo contadino demitizzato, in cui i braccianti sono sfruttati ma conservano le loro tradizioni, con la seconda e con la fine della mezzadria – abolita in Italia nel 1982 – vengono sradicati dalla loro cultura e privati anche del rapporto con la terra, in nome di uno sviluppo economico privo di progresso sociale. Con le parole della regista,“la fine della civiltà contadina e la migrazione ai bordi della città ha portato quei contadini da un medioevo sociale a un medioevo umano”. Ai margini della metropoli i contadini diventano dei reietti, degli emarginati senza poter essere nemmeno sottoproletariato. Senza la loro cultura perdono anche l’innocenza. Solo Lazzaro saprà ancora riconoscere e raccogliere la cicoria che cresce lungo la ferrovia, i vecchi compagni sono invece assuefatti a rubare cibo scadente confezionato.
Lo sguardo cinematografico di Alice Rohrwacher è delicato e poetico, mai sopra le righe, sincero e generoso come quello di Lazzaro. Con questo terzo lungometraggio, anche questa volta osannato e premiato al Festival di Cannes, la giovane registaprosegue il suo percorso autoriale mantenendo quella personalissima cifra stilistica che l’ha imposta tra i migliori cineasti dell’ultima generazione. Ed è coraggiosa anche nelle scelte stilistiche come, per esempio, girare in super 16mm e non in digitale o nel selezionare per il cast dell’Inviolata veri contadini del posto. Eccellenti anche le interpretazioni dei protagonisti, su tutti il sorprendente esordiente Adriano Tardiolo che magnifica Lazzaro con l’innocenza stralunata del suo sguardo.
Proprio quel suo sorriso serafico e quella gentilezza talmente anacronistica da diventare un gesto rivoluzionario sono il regalo più grande che Lazzaro potesse farci.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a sergiodalmaso »
[ - ] lascia un commento a sergiodalmaso »
|
|
d'accordo? |
|
emanuele1968
|
domenica 29 luglio 2018
|
molto bello
|
|
|
|
Personalmente un ottimo lavoro, spunti tratti fa fatti simili realmente accadudi, ottimo nei cineforum con dibattito al seguito, qualche eccesso, voto 4,5
|
|
[+] lascia un commento a emanuele1968 »
[ - ] lascia un commento a emanuele1968 »
|
|
d'accordo? |
|
doctorcinema
|
martedì 26 giugno 2018
|
un film da metabolizzare per apprezzarlo appieno.
|
|
|
|
"Lazzaro felice" è la terza opera cinematografica di Alice Rohrwacher e racconta la storia di un gruppo di contadini costretti a vivere in delle catapecchie fatiscenti adiacenti ad una vecchia villa padronale e obbligati a lavorare la terra per conto di una dispotica contessa, vivendo una vita povera, priva di ogni diritto lavorativo e nella totale incosapevolezza del fatto di essere sfruttati. Nella comunità spicca la presenza del giovane Lazzaro, un ragazzo talmente semplice e buono da apparire quasi stupido e del quale gli altri contadini sono soliti approfittarsi, affidandogli i compiti più gravosi.
[+]
"Lazzaro felice" è la terza opera cinematografica di Alice Rohrwacher e racconta la storia di un gruppo di contadini costretti a vivere in delle catapecchie fatiscenti adiacenti ad una vecchia villa padronale e obbligati a lavorare la terra per conto di una dispotica contessa, vivendo una vita povera, priva di ogni diritto lavorativo e nella totale incosapevolezza del fatto di essere sfruttati. Nella comunità spicca la presenza del giovane Lazzaro, un ragazzo talmente semplice e buono da apparire quasi stupido e del quale gli altri contadini sono soliti approfittarsi, affidandogli i compiti più gravosi. Lazzaro vedrà cambiare la propria vita nel momento in cui instaurerà un'amicizia, tanto profonda quanto anomala, con Tancredi, il figlio della contessa. I due sembrano quasi completarsi a vicenda: la fervida immaginazione di Tancredi, il quale vuole ribellarsi al mondo nel quale la famiglia lo obbliga a vivere, si miscela con l'ingenuità infantile e disarmante di Lazzaro, che invece nulla sa del mondo circostante. La vita riserverà poi a Lazzaro delle sorprese, che sono tali anche per lo spettatore, e che lo porteranno a vivere un'esistenza diversa dagli altri a causa del suo essere speciale.
Il film della Rohrwacher è una sorta di favola moderna, dai risvolti metaforici, e che può essere divisa in due grandi tronconi che corrispondono orientivamente alle due metà del film.
La prima parte offre uno spaccato della vita contadina che è stata uno dei punti cardine dell'Italia nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale. Veniamo immersi nel mondo di questa povera gente che vive in un mondo che non esiste più, un mondo che per loro rappresenta un'abominevole normalità. E a farci da guida inconsapevole in questo contesto, troviamo un ragazzo dagli occhi limpidi come Lazzaro, che sembra (è?) un angelo sceso lì tra quella povera gente come se il suo compito sia quello di prendersi carico delle loro sofferenze.
La seconda parte, della quale non voglio svelare nulla perchè rappresenta quella più intrigante per l'evoluzione che la storia attraversa, è di tenore solo apparentemente diverso, ma in realtà nasconde tra le pieghe dei personaggi e delle vicende un mondo che non è cambiato alcun modo.
L'opera della Rohrwacher riesce ad essere allo stesso tempo delicata, con la figura di Lazzaro che non può che instillare un senso di dolcezza nello spettatore, ma anche potente e con un senso incombente di fatalismo che la pervade sino al durissimo finale.
Bisogna ovviamente accettare alcune incongruenze narrative, necessarie affinchè il racconto possa andare avanti e prendere la piega desiderata, ma come già detto all'inizio siamo davanti ad una favola. Una favola che spazia dai canoni bucolici a quelli post-moderni e vagamente distopici, con un fulcro centrale rappresentato da Lazzaro.
Da un punto di vista tecnico il film è più che godibile, girato bene dalla Rohrwacher anche grazie alla presenza di veri contadini (reclutati dalla regista tra coloro che avevano la possibilità di lasciare le proprie terre per tutto il tempo delle riprese) e di un protagonista, Adriano Tardiolo, che bagna il proprio esordio al cinema con una prova convincente nei panni di Lazzaro.
La sceneggiatura è più che interessante, non a caso premiata al recente Festival di Cannes; la fotografia partecipa alla creazione di un'atmosfera dai tratti prevalentemente malinconici, grigi.
Nel complesso, un film che rende necessaria un'opera di riflessione per poter essere analizzato e apprezzato (e anche per questo ho voluto prendermi del tempo prima di recensirlo, avendolo già visto diverse settimane fa). A mio parere, è un film che offre diverse chiavi di lettura, il che lo rende di un certo spessore e per nulla banale.
Si va ad incastonare tra le pellicole più interessanti della recente stagione cinematografica italiana.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a doctorcinema »
[ - ] lascia un commento a doctorcinema »
|
|
d'accordo? |
|
vavyan
|
domenica 24 giugno 2018
|
poesie
|
|
|
|
Ho visto e rivisto questo film, cosí ho avuto modo di vederlo nei minimi particolari e sentirlo con il cuore. Mi ha toccato tanto. Mi piaciuto pure come in una favola riesce puntare il dito sui problemi sociali odierni e presentare l'indiferenza e la crudelta umana (vedi ultime scene). ( Scusate per il mio italiano, ma sono ungherese.) Vorrei fare una domanda, se qualcuno sapesse di dove sono le poesie e citazione del film? Sono riuscita ad indentificare solo una di Ariosto. La serpe avvelenata? E le citazione di Braschi? Grazie per l'aiuto! :-)
|
|
[+] lascia un commento a vavyan »
[ - ] lascia un commento a vavyan »
|
|
d'accordo? |
|
loland10
|
domenica 24 giugno 2018
|
(ir)reali incontri...
|
|
|
|
“Lazzaro felice” (2018) è il terzo lungometraggio della regista di Fiesole Alice Rohrwacher.
Dal Festival di Cannes dove è stato premiato per la sceneggiatura originale ad opera della stessa regista. È subito distribuito nelle sale, strano a dirsi, per un mese di giugno dove l'appetito per il grande schermo non è mai una prova di partecipazione. Il pubblico ha voglia di stare dentro una sala? Una domanda d'obbligo quando si vedono schermi illuminati che guardano se stessi.
E così esiste un cinema italiano che cerca di andare oltre lo schermo, di sperare in qualcosa oltre un orizzonte, di osservare un'interiorità labile di persone statuarie e spinose, ultime e prime.
[+]
“Lazzaro felice” (2018) è il terzo lungometraggio della regista di Fiesole Alice Rohrwacher.
Dal Festival di Cannes dove è stato premiato per la sceneggiatura originale ad opera della stessa regista. È subito distribuito nelle sale, strano a dirsi, per un mese di giugno dove l'appetito per il grande schermo non è mai una prova di partecipazione. Il pubblico ha voglia di stare dentro una sala? Una domanda d'obbligo quando si vedono schermi illuminati che guardano se stessi.
E così esiste un cinema italiano che cerca di andare oltre lo schermo, di sperare in qualcosa oltre un orizzonte, di osservare un'interiorità labile di persone statuarie e spinose, ultime e prime. In un'area piena di lavori, piena di odori, piena di vestiti e robe accalcate, piena di tanti in poco spazio si intravede un'umanità oltre il nostro percepire, si osserva un fuoco sopra i nostri sguardi e si percepisce un didentro tenue, poco colorato, invisibile che resta nel non detto o non visto.
I volti, le facce, i visi e i gesti dei mezzadri (non sanno altro...lavorano per mangiare, nessun contratto, nessun orario e nessun posto decente per dormire e sbrigare le faccende personali) sono da incorniciare: vengono da quello che ci ostiniamo a non vedere.
Lazzaro vive in una comunità di contadini, si dà da fare in tutto, aiuta e vuole bene a tutti sopratutto al suo amico Tancredi; la Contessa costringe tutto il gruppo ad un lavoro durissimo tra povertà e miseria; poi Lazzaro rimane da solo a cercare l'amico. Per caso, dopo un passaggio, si ritrova vicino ad una ferrovia di una città con un altro gruppo di persone che conoscono il suo nome. È un girovagare il suo senza una vera e propria destinazione.
Lazzaro è un ragazzo debole, umile e semplice ma in ogni incontro trasmette armonia e gioia di vivere. E anche amico dei lupi che seguono, favoleggiando, ogni suo passo.
Dal reale all'irreale, dal silenzio assordante al rumore dei treni, dal vuoto dei luoghi agli incroci di strade e di gente per male.
La prima parte del film resta da incorniciare, semplice, dismessa, nessuna retorica, limpida e agreste senza essere vana o studiata. Immediata e sincera. L'aia con le oche, le galline, la polvere, il pasto, il bere, la trebbiatura (osservare il marchio 'Fabiani' che dice dei tempi e del tempo non passato per loro), il luogo, i cancelli, gli interni, il fattore, il vestiario, il silenzio (reale e della musica assente) sono marchi che restano indelebili. Un contraltare vero tra mondo non conosciuto e un'ignoranza voluta, ma la schiettezza, l'immediatezza e il volto di Lazzaro aggiungono ad ogni cosa e inquadratura la memoria di una pellicola che parte da una storia italiana e da un racconto di sguardi personali provenienti da altri registi. Per primo Ermanno Olmi: si sente subito il profumo del cineasta bergamasco nella ripresa asciutta e povera della regista: come non pensare da subito al realismo senza contraddizioni de 'L'albero degli zoccoli'. Modi, piccole carrellate, stop, fermi immagini, linguaggio e tipo di pellicola (proiezione ridotta a mo di 'sceneggiato' degli anni che furono).
La seconda parte appare più favolistica quasi a completarne i personaggi: si ritrovano tutti o quasi con mansioni diverse e stessi problemi. Dalla campagna all'asfalto, dalla mezzadria di una contessa furba ai piccoli inganni, ruberie e alloggio di fortuna. Ecco dal paesaggio del ricatto (e fanno capolino anche i Taviani) prende il sopravvento il luogo dei fantasmi ('Fantasmi a Roma' di Antonio Pietrangeli del 1961) e del loro mondo misero è fasullo. Reale, sogno, fiaba, surreale e vita grama in ogni caso. Lazzaro figlio di un mondo inesistente e invisibile, ultimo e ignorante, amico senza circostanze. Lieve e leggerissimo ci entra dentro passando davanti a tutti anche dietro una fionda regalatagli dal suo Tancredi. Ecco il sangue sembra non fargli paura.Marcello ('Dogman' di M. Garrone) e Lazzaro sembrano conoscersi. Storie e diverse con alcune assonanze comuni.
Lunatico, longevo, leale e amico dei lupi; Assennato e amorfo, assonnato e attento; Zigzagando per campi, zimbello di tutti e un aiuto per tutti: Zitto e calmo, zotico e spento, il nostro felice si sdoppia ogni volta per dare una mano; Ariosamente statico e miserevolmente caparbio; Rustico, ignorante, stupido e anche altro ma Felice ridesta ogni stile non per buonismo o pietà ma per semplice umanità, rapporto senza condizioni, respiro di aria fresca e purezza di un santo, senza saperlo, di tutti i giorni. Che abita o può abitare a fianco a noi. Offuscato nei sogni e libero. Perdente ma sano, semplice ma sempre vivo. Un ragazzo, Lazzaro, da conservare: e il 'fanciullino' (‘pascoliano’) che non (t’)aspetti.
Cast: da assaporare con gli sguardi e le poche cose che sembrano dirci. Adriano Tardiolo (Lazzaro), alla sua primissima esperienza d’attore, buca lo schermo e rimane impresso, Luca Chikovani (Tancredi ragazzo) cantante e suo primo ruolo, e vanno ricordati tutti i volti muti e semplici che rendono vero questo film. Natalino Balasso (Nicola) ci accompagna nella ‘fiaba’ come un personaggio di Collodi.
Regia non compiaciuta, partecipe, viva e dentro i particolari.
Voto: 7½ (***½).
[-]
|
|
[+] lascia un commento a loland10 »
[ - ] lascia un commento a loland10 »
|
|
d'accordo? |
|
|