fabal
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domenica 12 marzo 2017
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l'angoscia sparpagliata per la fine del mondo
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Il collasso definitivo dell'ozonosfera condanna il mondo alla fine. L'ora X è prevista per le 4:44. Due amanti vivono le ultime quattordici ore di vita della Terra alternando passione e riflessioni, tra l'annuncio catastrofista di un telegiornale e gli addii ai cari via Skype.
Non bastano certo 80 minuti per riassumere le molte prospettive dell'angoscia umana di fronte alla fine del mondo. Abel Ferrara punta su una rassegnazione spaesata, dove l'inesorabilità della fine non si accompagna ad alcun delirio sociale e, se non in pochi frangenti, alla disperazione individuale.
Pochi pianti, poca follia, molta attesa che non si sa come riempire.
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Il collasso definitivo dell'ozonosfera condanna il mondo alla fine. L'ora X è prevista per le 4:44. Due amanti vivono le ultime quattordici ore di vita della Terra alternando passione e riflessioni, tra l'annuncio catastrofista di un telegiornale e gli addii ai cari via Skype.
Non bastano certo 80 minuti per riassumere le molte prospettive dell'angoscia umana di fronte alla fine del mondo. Abel Ferrara punta su una rassegnazione spaesata, dove l'inesorabilità della fine non si accompagna ad alcun delirio sociale e, se non in pochi frangenti, alla disperazione individuale.
Pochi pianti, poca follia, molta attesa che non si sa come riempire.
E' questo il tratto più inquietante di 4:44, in cui nemmeno le ultime ore bastano per costruire un senso provvisorio alla vita: si può far l'amore, dipingere un allusivo serpente che si morde la coda, chiedere perdono ai propri cari, senza che nulla di ciò restituisca all'uomo un che di completezza.
Last Day on Earth è un film che solo inizialmente sembra proporre l'edonismo come riempitivo per il prossimo nulla: ma anche la passione si smorza, addirittura Dafoe si addormenta dopo il rapporto sessuale arrabbiandosi con la bella Leigh per avergli fatto perdere minuti preziosi di vita non svegliandolo subito.
Ricorda, per molti versi, il coetaneo Melancholia, con cui condivide la prospettiva intima e non sociale dell'angoscia apocalittica (agghiacciante vedere come il traffico cittadino continui a scorrere nonostante tutto), ma con un tratto simbolico ridotto davvero all'osso. Escludendo la gigantesca aurora boreale che investe New York, Ferrara non si avvale di immagini epocali, né di sequenze visionarie che ispirano la follia dei protagonisti di Lars Von Trier, e che facevano della Dunst una sorta di totem allucinato del "presagio".
Qui è tutto più sobrio, minimalista, e sostanzialmente pragmatico. C'è la tecnologia, c'é Skype e la televisione con i messaggi più o meno retorici dei giornalisti fino a quello del Dalai Lama. L'aplombe zen che pervade il film, suggellato da un incipit con una sonata di sitar e un busto del Buddha velato dal fumo d'incenso, non veicola un vero e proprio messaggio religioso. La causa del disastro è meramente scientifica e colpevolizza l'essere umano con un messaggio politico neanche troppo velato: Al Gore was right. C'è anche il capriccio umano, quello più orgoglioso e infantile, che nemmeno la certezza della fine serve a smorzare.
Girato quasi interamente in un appartamento in chiaroscuro, con un paio di escursioni in terrazza, 4:44 è incredibilmente più umano, "vicino" dei vari blockbusters catastrofici, e al tempo stesso realistico, seppur con il difetto di una sensibilità a tratti generica e sparpagliata. Ma recuperata nel bellissimo abbraccio finale.
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gianleo67
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domenica 2 novembre 2014
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la fine del mondo...ai tempi della medialità
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New York city, interno sera, un uomo e una donna passano le ultime ore in attesa dell'imminente fine del mondo (prevista per le 4:44 AM ora della Costa Est americana e dovuta all'irrimediabile assottigliamento dello strato di Ozono), tra le reciproche effusioni, i contatti via Skype con i familiari lontani,le crisi isteriche di lei e nichiliste di lui ed il rumore di fondo di un'umanità in religiosa contemplazione che filtra da tutti i dispositivi e terminali elettronici accesi e sparsi per la casa. La fine, 'con giusto avviso ma senza possibilità di scampo', arriverà inesorabile e definitiva cogliendoli, ormai rassegnati, nell'ultimo disperato abbaccio.
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New York city, interno sera, un uomo e una donna passano le ultime ore in attesa dell'imminente fine del mondo (prevista per le 4:44 AM ora della Costa Est americana e dovuta all'irrimediabile assottigliamento dello strato di Ozono), tra le reciproche effusioni, i contatti via Skype con i familiari lontani,le crisi isteriche di lei e nichiliste di lui ed il rumore di fondo di un'umanità in religiosa contemplazione che filtra da tutti i dispositivi e terminali elettronici accesi e sparsi per la casa. La fine, 'con giusto avviso ma senza possibilità di scampo', arriverà inesorabile e definitiva cogliendoli, ormai rassegnati, nell'ultimo disperato abbaccio.
Presentato in concorso al 68° Festival di Venezia del 2011, questo dramma da camera sotto le mentite spoglie di una piccola ballata apocalittica giocata sui toni minimalisti di un sobrio intimismo naturalista, è in realtà un tentativo di esplorare da un punto di vista particolare la pluralità di sentimenti e di reazioni dell'umanità messa di fronte all'irreversibile conseguenza di una scellerata politica di sfruttamento delle risorse del pianeta e della sua inevitabile estinzione. Se le intenzioni di Ferrara appaiono lodevoli nell'indagare il complesso rapporto con la morte tanto da un punto di vista individuale che collettivo, non altrettanto interessante e riuscito appare il risultato di una messa in scena che privilegia il pedante accumulo di una serie infinita di luoghi comuni da 'manuale di fine millennio' (tra gli anatemi ecologisti di Al Gore alle sviolinate animiste del Dalai Lama) e l'irritante trama di relazioni interpersonali, pretestuose e fittizie, che si risolvono nel disinnescare la paura escatologica della fine del mondo ('...Cari fratelli dell'altra sponda cantammo in coro giù sulla terra, amammo in cento l'identica donna, partimmo in mille per la stessa guerra. Questo ricordo non vi consoli quando si muore si muore si muore soli..') con l'involontaria parodia pacifista del 'volemose tutti bene' o del raduno mediatico di folle oceaniche presso i principali centri di culto monoteista (e tutti gli altri,il miliardo e passa di cinesi senza Dio che fine farebbero?), piuttosto che su scala ridotta il privilegiare inevitabilmente le relazioni affettive o spararsi, in molti sensi, gli ultimi 'colpi in canna' ('Prendilo finchè puoi!' recita con civetteria un'ammiccante biondina alla fine del film). Dunque nessuna reazione scomposta che suggerisca gli scenari devastanti di un inevitabile anarchismo pre-apocalittico, quanto la pacata reazione di un'umanità matura e consapevole che, con calma buddista e nonostante abbia contribuito alla fine del mondo, resta professionalmente al proprio posto di lavoro per garantire la continuità delle trasmissioni radio-televisive, la produzione di energia elettrica (cosa che manco in 'The Day the Earth Stood Still'...) e le indispensabili connessioni internet. Inattendibile sul versante del realismo sociale, risulta poi stucchevole su quello di una insulsa simbologia della rinascita (il serpente e le manchevolezze della cultura occidentale...) che riecheggia frammentario e confuso dal sottofondo di parole e immagini che sembrano a tratti sovrastare le voci ed i volti dei due attoniti protagonisti, ricapitolando le suggestive teorie di un ultimo, definitivo, saggio sociologico sull'ineluttabile tramonto della civiltà umana. Insomma, tra amenità New Age ed i tentativi di 'prender una donna tutta intera' si rischia veramente il ridicolo; ne sa qualcosa Von Trier con il suo 'Melancholia', curiosamente presentato lo stesso anno al Festival di Cannes. La fine del mondo...ai tempi della medialità.
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