gianmarco.diroma
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mercoledì 6 ottobre 2010
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la diversità
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Esiste la Diversità di Pier Paolo Pasolini. Esiste quella di Rainer Werner Fassbinder. Esiste quella dei personaggi di Werner Herzog, quella di David Cronenberg (Spider). E tra le molte che ho dimenticato arriva quella di Ascanio Celestini: un'altra Diversità con la D maiuscola. Una Diversità in molti tratti tenera, ma allo stesso tempo capace di battute sulfuree che racchiudono un qualcosa di demoniaco. Una Diversità che prende avvio fin dall'infanzia, all'interno di un quadro familiare disastrato, dove malattia, violenza, prepotenza, ignoranza fanno da padrone. Padri prepotenti e madri assenti. Maschi arroganti e violenti (per non dire assassini) e madri completamente schiacciate.
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Esiste la Diversità di Pier Paolo Pasolini. Esiste quella di Rainer Werner Fassbinder. Esiste quella dei personaggi di Werner Herzog, quella di David Cronenberg (Spider). E tra le molte che ho dimenticato arriva quella di Ascanio Celestini: un'altra Diversità con la D maiuscola. Una Diversità in molti tratti tenera, ma allo stesso tempo capace di battute sulfuree che racchiudono un qualcosa di demoniaco. Una Diversità che prende avvio fin dall'infanzia, all'interno di un quadro familiare disastrato, dove malattia, violenza, prepotenza, ignoranza fanno da padrone. Padri prepotenti e madri assenti. Maschi arroganti e violenti (per non dire assassini) e madri completamente schiacciate. Rimangono le nonne, nate vecchie, cresciute vecchie, rimaste vecchie, diventate vecchie e che moriranno vecchie. Ma che non possono di certo, pur con la loro sincera partecipazione emotiva, salvare il piccolo Nicola da un destino che sembra gli sia già stato cucito addosso. C'è "Chi nel manicomio ci lavora e chi ci è rinchiuso!". Apparentemente sembrerebbe che Nicola sia rimasto legato al manicomio per lavorarvi, per aiutare i malati, per entrare nei loro silenzi, pieni di angosce e vuoti inespressi, per impedire che magari, come "il professore", prendano e vadano a spaccarsi la testa contro un termosifone, così, in un attimo, senza alcun preavviso, rendendo l'orrore ancora più insopportabile. Un orrore che stordisce. Che fa male!
La pecora nera è un film che fa male perché è proprio un lento rallenty verso quel termosifone. S'inizia con un pizzico di fiducia. Ci si illude che la battuta, la parola di Ascanio Celestini, sia riuscita ad aprire un varco nella pazzia del suo personaggio. Invece più si va avanti nella vicenda, più tutto si sgretola, palesandosi allo spettatore. Nicola non lavora nel manicomio. Nicola è rinchiuso nel manicomio. Nicola sembrerebbe poter vivere un amore. Ma Nicola non è in grado di gestire nessuna passione. Nicola, in qualche modo, sembra essersi fatto carico della sua famiglia. Ma non si è accorto che la sua famiglia era solo un cumulo di macerie. E lui tra quelle macerie ci è rimasto. Ripetendo sempre ed ossessivamente le stesse cose. Le stesse battute. Le stesse parole. Nicola ha sublimato la sua pazzia nella forma di un amico immaginario: ma questo lo ha reso ancora più solo. "Se metti in ordine, poi trovi tutto!". Ma se metti in ordine tra le macerie, cosa trovi? Come ti dovresti comportare? Forse dovresti fuggire. Ma arrivato al 99° cancello ti rendi conto che fuori è come dentro e che allora non ha senso scappare. "Se si toglie il muro, il manicomio finisce!". "Il disordine della mente si cura con l'ordine dell'istituzione!". "Meglio pulirla la merda, che insegnare ai matti a farla nel cesso!". Nessuna redenzione. Nessuna catarsi. Solo il silenzio. Solo sguardi persi nel vuoto. Sembra di vedere la fine de Il corridoio della paura di Samuel Fuller: ma almeno lì la pazzia è il prezzo da pagare per il successo. Qui, a Nicola, nulla è stato concesso, se non di essere rinchiuso tra le 4 mura di un manicomio. Nessuna alternativa. Ci è entrato per un paio di settimane, da piccolo, per "respirare un po' di aria buona", ma ci è rimasto, e quando il suo amico "deficiente" muore sul cancello, quando la suora dice di preparare l'elettroshock per Nicola, allora lì capisci che nel manicomio ci entri ma non ne puoi più uscire. Come una spirale, come le sabbie mobili, il manicomio t'inghiotte, il buio ti avvolge e la paura che ne consegue ti tiene incatenato!
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angelo umana
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domenica 3 ottobre 2010
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ho sognato papa woityla, sciavamo insieme
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Ascanio Celestini s’è fatto matto per mostrarci l’interno di un manicomio o l’interno dell’anima dei matti. Ne è uscito un apprezzabile film, onesto ma geniale o genialmente onesto, non di chissà quali pretese sociologiche e nella sua semplicità apprezzabilissimo. Ben costruito nella narrazione, coi frequenti flash-back che fanno capire l’origine del “ricovero” del protagonista bambino, pecca solo in qualche pedante eccesso cabarettistico. Una volta, anche nei “favolosi anni 60”, spesso citati dal protagonista perché c’è nato, i bambini problematici o troppo fantasiosi, “deboli di cervello” come dice la maestra del film, o con la famiglia assente, avevano buone probabilità di finire in un manicomio, ma anche in seminario o in un collegio.
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Ascanio Celestini s’è fatto matto per mostrarci l’interno di un manicomio o l’interno dell’anima dei matti. Ne è uscito un apprezzabile film, onesto ma geniale o genialmente onesto, non di chissà quali pretese sociologiche e nella sua semplicità apprezzabilissimo. Ben costruito nella narrazione, coi frequenti flash-back che fanno capire l’origine del “ricovero” del protagonista bambino, pecca solo in qualche pedante eccesso cabarettistico. Una volta, anche nei “favolosi anni 60”, spesso citati dal protagonista perché c’è nato, i bambini problematici o troppo fantasiosi, “deboli di cervello” come dice la maestra del film, o con la famiglia assente, avevano buone probabilità di finire in un manicomio, ma anche in seminario o in un collegio.
Nicola (Ascanio Celestini) ha avuto un’infanzia negata, per la noncuranza del papà e la malafede degli zii; la mamma è morta proprio in manicomio. Ma i bambini riescono a sognare e giocare perfino sotto le bombe, figuriamoci in una struttura collettiva o nel manicomio, dal protagonista bambino chiamato “condominio”; in tedesco il collegio si chiama “Internat”, richiama alla mente l’internamento dei tipi scomodi alla società esterna. Eppoi questo bambino ha la nonna, che “è sempre stata vecchia” e si veste “da vecchia”, da sembrare una maschera giusta nel carnevale dell’oratorio. Nicola è grande sognatore e con una smisurata fantasia che si porta dietro dall'infanzia: le cose viste coi suoi occhi ci fanno sorridere davanti a tutti gli avvenimenti, danno benessere i suoi racconti di situazioni immaginarie.
Divertente l'incursione nel tema religioso, con la suora del “condominio” che piange disperata davanti alle immagini televisive sulla morte di Papa Giovanni Paolo II° (la televisione fa capolino spesso nel film, suggerisce l’osservazione della realtà mitizzata dallo schermo), e che deve assolutamente portargli il suo ultimo saluto, fa pensare a quelle suore – nella realtà - multate per eccesso di velocità per la smania di andare a Roma in quell’occasione, chilometri di persone in attesa e panini a 10 euro l’uno. Quando il papa è già in cielo se lo sogna, “sciavamo insieme” … .
Vien da pensare che il pazzo non è libero (v/ “Le libere donne di Magliano” di Mario Tobino) è prigioniero del suo vissuto, dei suoi percorsi mentali obbligati (v/ Giorgio Tirabassi-Ascanio, compagno di stanza di Nicola), come i "normali" del resto, ed è vittima della nostra società. Ma soprattutto ha avuto l’amore negato, la negazione più grave, che destabilizza per davvero il nostro simpatico protagonista e lo porta a rifiutare ormai di uscire da un convitto che per tanti ospiti è diventato un rifugio dal mondo fuori (solo tre infatti fuggirono definitivamente in "Qualcuno volò sul nido del cuculo", l'indiano e con la morte gli altri due). I volti assenti degli ospiti della casa di “cura” furono descritti dalla splendida canzone “Sognando” di Don Backy, la cantò anche Mina: “Me ne sto qui seduto e assente … in questo posto allucinante un’ombra chiara mi attraversa la mente … un tempo forse non lontano qualcuno mi diceva t’amo… e spacco tutto ciò che trovo ed a finirla poi ci provo”. Ci sarebbe stata bene come canzone di fondo.
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nino quincampoix
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giovedì 14 ottobre 2010
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l'innoncenza della pazzia
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Nei "favolosi anni '60", Nicola cresce tra matti veri e immaginari, genitori inesistenti ma reali, la nonna ovarola e una suora dispensatrice di buoni consigli (e non solo...). Sogna di mangiare cento, mille cremini, di spedire il suo compagno Pancotti Maurizio nel pianeta dei deficienti e di far breccia nel cuore di Marinella. Con il suo tipico stile candido quasi infantile, molto poetico, Ascanio Celestini racconta una vicenda difficile riuscendo a muovere l'animo dello spettatore. Ci si commuove, ma allo stesso tempo si ride; ci si arrabbia e indigna di fronte all'assurdità di una pazzia che appare quasi imposta dalla barbarie inumana di un'ambiente familiare senza fondamenti (e senza scrupoli).
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Nei "favolosi anni '60", Nicola cresce tra matti veri e immaginari, genitori inesistenti ma reali, la nonna ovarola e una suora dispensatrice di buoni consigli (e non solo...). Sogna di mangiare cento, mille cremini, di spedire il suo compagno Pancotti Maurizio nel pianeta dei deficienti e di far breccia nel cuore di Marinella. Con il suo tipico stile candido quasi infantile, molto poetico, Ascanio Celestini racconta una vicenda difficile riuscendo a muovere l'animo dello spettatore. Ci si commuove, ma allo stesso tempo si ride; ci si arrabbia e indigna di fronte all'assurdità di una pazzia che appare quasi imposta dalla barbarie inumana di un'ambiente familiare senza fondamenti (e senza scrupoli). Giorgio Tirabassi è la perfetta spalla, o meglio il perfetto alter ego, del protagonista, regalando i momenti più divertenti del film (esemplare la scena in terrazza in cui si parla di Dio, di Buddha e delle sottomarche). Da vedere.
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francesco giuliano
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giovedì 7 ottobre 2010
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la gabbia
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Questo è un film che affronta un tema attualissimo e, in un certo senso, ha il carattere dell’universalità, in quanto tratta una storia molto semplice ma dai connotati significativi e allusivi che, a tutto tondo, riguardano ognuno di noi.
Insegna, questa storia che sin dalla nascita ci troviamo come chiusi in una gabbia, le cui sbarre diventano tanto più spesse quanto di più sono i condizionamenti esterni che ci vengono imposti e da cui diventa difficile uscire. Anzi impossibile! Così come, del resto, avviene per un “pazzo”, chiuso in un manicomio dai “cento cancelli”, in cui riesce a superarne novantanove ma non il centesimo. Noi siamo ciò che ci insegnano ad essere sin da quando siamo in fasce: l’educazione ricevuta dalla famiglia, dalla “strada” e dalla scuola bolla irreversibilmente la vita di ognuno di noi.
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Questo è un film che affronta un tema attualissimo e, in un certo senso, ha il carattere dell’universalità, in quanto tratta una storia molto semplice ma dai connotati significativi e allusivi che, a tutto tondo, riguardano ognuno di noi.
Insegna, questa storia che sin dalla nascita ci troviamo come chiusi in una gabbia, le cui sbarre diventano tanto più spesse quanto di più sono i condizionamenti esterni che ci vengono imposti e da cui diventa difficile uscire. Anzi impossibile! Così come, del resto, avviene per un “pazzo”, chiuso in un manicomio dai “cento cancelli”, in cui riesce a superarne novantanove ma non il centesimo. Noi siamo ciò che ci insegnano ad essere sin da quando siamo in fasce: l’educazione ricevuta dalla famiglia, dalla “strada” e dalla scuola bolla irreversibilmente la vita di ognuno di noi. E traccia quel percorso vitale che in genere si chiama destino: paradossalmente ognuno diventa artefice e vittima della propria sorte. Questi sono i connotati che caratterizzano il mio ultimo romanzo “Come fumo nell’aria” (Prospettiva editrice).
Il film di Celestini, infatti, narra della vita Nicola, da ragazzo ad adulto trentacinquenne, che va incontro, in questo lungo lasso di tempo, a diverse situazioni e avversità: la morte prematura della madre, l’affidamento alla nonna che vede la risoluzione di ogni problema nelle “uova fresche di giornata”, il disprezzo ricevuto a scuola da una maestra ingorda, la morte di un suo compagno di scuola “deficiente” che rimane iconficcato sulla punta di un cancello, il comportamento autoritario del padre. Non va trascurata la cattiveria dei fratelli, i quali lo fanno diventare correo di un delitto, del quale non conosce i connotati, e lo intrappolano in una tacita corresponsabilità che lo rende vittima del suo stesso destino e complice in una società basata sulla cattiveria, sulla superficialità e sulla meschinità e anche sull’opportunismo. Tutto ciò conduce Nicola, anche quando acquista la forza di scegliere liberamente e di ascoltare il cuore e di agire in base all'istinto e ai sentimenti, ad avere la consapevolezza che quando si è “segnati” si viene sempre scartati, rimanendo tragicamente intrappolati nella propria “gabbia”.
Bravissimo, come sempre Ascanio Celestini nella duplice veste di attore e per la prima volta di regista, affiancato da una figura “imponente” interpretata da Giorgio Tirabassi. (Francesco Giuliano)
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sara marini
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lunedì 25 ottobre 2010
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l'alienato mondo di nicola
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Dopo aver transitato sui palchi teatrali, La pecora nera approda al cinema. Ascanio Celestini debutta dietro la macchina da presa in veste di sceneggiatore e regista di stesso per raccontare la storia di Nicola, bambino poco dedito allo studio e ai suoi coetanei durante i “favolosi anni Sessanta” e factotum in un manicomio gestito da suore alla soglia dei non più favolosi anni Ottanta (la legge Basaglia abolì queste strutture sanitarie nel 1978).
L’anamnesi del percorso che lo ha condotto nell’istituto di cura procede ricalcando i toni e gli scarti temporali che caratterizzano i monologhi teatrali dell’autore. La vicenda di Nicola è composta da micro storie oscillanti tra dramma e assurdità che lentamente modificano il punto di vista dello spettatore fino a condurlo faccia a faccia con un’amarissima verità.
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Dopo aver transitato sui palchi teatrali, La pecora nera approda al cinema. Ascanio Celestini debutta dietro la macchina da presa in veste di sceneggiatore e regista di stesso per raccontare la storia di Nicola, bambino poco dedito allo studio e ai suoi coetanei durante i “favolosi anni Sessanta” e factotum in un manicomio gestito da suore alla soglia dei non più favolosi anni Ottanta (la legge Basaglia abolì queste strutture sanitarie nel 1978).
L’anamnesi del percorso che lo ha condotto nell’istituto di cura procede ricalcando i toni e gli scarti temporali che caratterizzano i monologhi teatrali dell’autore. La vicenda di Nicola è composta da micro storie oscillanti tra dramma e assurdità che lentamente modificano il punto di vista dello spettatore fino a condurlo faccia a faccia con un’amarissima verità. Questo meccanismo ricorda la dinamica della follia descritta da Martin Scorsese in Shutter Island ma l’isola di Celestini è popolata dai volti popolari e a tratti folkloristici che egli ama dissezionare con intenti antropologici per ricomporli traducendoli nel suo personalissimo linguaggio.
Malgrado il film sia illuminato da pennellate d’ironia, la desolazione di cui è intessuto non viene mai stemperata totalmente. L’infanzia di Nicola è irreparabilmente contaminata da morte e alienazione, piaghe contro cui nulla possono gli intermezzi comici delle uova delle nonna e delle caramelle balsamiche “di pecora”.
Per riflettere su quella che fu l’istituzione “manicomio” e sull’uso e abuso che se ne fece.
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zozner
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venerdì 8 ottobre 2010
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un infinito buio oltre il cancello.
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Un infinito buio oltre il cancello.
E' la storia di un disagio familiare, sociale che si risolve, o per lo meno tenta di risolversi, come sosteneva Basaglia e poi tutta la terapia sistemica, nella costruzione di un punto debole da eliminare: la pecora nera. E' la teoria che i gruppi per rimanere adesi hanno bisogno di individuare un capro espiatorio. Celestini dimostra di conoscere bene queste dinamiche e le descrive, direi le disegna con un tratto leggero, senza dare giudizi e in fondo, senza proporre soluzioni. C'é una cosa che non mi convince nel film, o nell'analisi dell'autore: il disegnare, il raccontare il disagio oltre i cancelli, la dove inizia la follia. Egli tenta di raccontare come una situazione limite, borderline senza un supporto di amore vero arrivi alla spaccatura, alla separazione, sociale, al fallimento totale.
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Un infinito buio oltre il cancello.
E' la storia di un disagio familiare, sociale che si risolve, o per lo meno tenta di risolversi, come sosteneva Basaglia e poi tutta la terapia sistemica, nella costruzione di un punto debole da eliminare: la pecora nera. E' la teoria che i gruppi per rimanere adesi hanno bisogno di individuare un capro espiatorio. Celestini dimostra di conoscere bene queste dinamiche e le descrive, direi le disegna con un tratto leggero, senza dare giudizi e in fondo, senza proporre soluzioni. C'é una cosa che non mi convince nel film, o nell'analisi dell'autore: il disegnare, il raccontare il disagio oltre i cancelli, la dove inizia la follia. Egli tenta di raccontare come una situazione limite, borderline senza un supporto di amore vero arrivi alla spaccatura, alla separazione, sociale, al fallimento totale. L'amore anche di una suora scorreggiona innamorata del Papa può permette di sopravvivere in un mondo di realtà surrettizia. Ma, la percezione dell'assenza dell'amore reale, vero, sessuale, proietta inevitabilmente nella follia, nel distacco senza possibilità di aggancio con la realtà. Un solo dubbio: questa é una storia di follia, non la follia. Celestini corre il pericolo dei famosi anni sessanta dove da una parte i perbenisti cercavano lo "schizzo-cocco" e Basaglia pensava che era tutta colpa della società. Il mondo oltre il cancello é immenso, è un universo buio e noi possiamo solo raccontarne, raccoglierne, alcuni frammenti con la consapevolezza che sono solo piccole “caccole”.
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silvianovelli
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lunedì 1 novembre 2010
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io che t'ho fatto ti disfo...
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Se - come dice Jake Moore nel secondo Wall Street - "follia è ripetere la stessa azione ed aspettarsi un risultato diverso", il film di Ascanio Celestini rende questa definizione quanto mai calzante: "La pecora nera" è tutto una ripetizione di parole, suoni onomatopeici, codici comportamentali e situazioni, fino al limite dell'esasperazione. Se volete passare un'ora e mezzo di sana angoscia, andatelo a vedere!
A parte tutto, non è che non lo consigli. Il film, in concorso a Venezia, è stato molto apprezzato e anch'io mi sento di dire: se vi ispira guardatelo e traete le vostre conclusioni.
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Se - come dice Jake Moore nel secondo Wall Street - "follia è ripetere la stessa azione ed aspettarsi un risultato diverso", il film di Ascanio Celestini rende questa definizione quanto mai calzante: "La pecora nera" è tutto una ripetizione di parole, suoni onomatopeici, codici comportamentali e situazioni, fino al limite dell'esasperazione. Se volete passare un'ora e mezzo di sana angoscia, andatelo a vedere!
A parte tutto, non è che non lo consigli. Il film, in concorso a Venezia, è stato molto apprezzato e anch'io mi sento di dire: se vi ispira guardatelo e traete le vostre conclusioni. Personalmente ne ho apprezzato il coraggio e la sperimentazione: la storia, ambientata nei "favolosi anni '60", come ripete più volte il protagonista Nicola - Ascanio Celestini, parla di pazzia, malattia mentale e manicomi.
Racconta la vita di Nicola bambino, figlio di una madre malata di mente, e poi di Nicola adulto, internato in un maniconomio gestito dalle suore, la cui missione quotidiana è la spesa al supermercato dove può comprare solo quello che sta scritto sulla lista della suora. Per Nicola il supermercato, il manicomio, l'ospedale o un condominio sono la stessa cosa e il direttore del supermercato è il capo di tutto, è il Papa, anzi è Gesù. Nicola interagisce con una sorta di alter ego interpretato da Giorgio Tirabassi, che forse esiste veramente o forse è solo una sua proiezione mentale. Nella struttura fatta di continui flash back e rimandi passato - presente emergono le vicende dell'infanzia di Nicola, dove non si capisce cosa sia causa e cosa effetto della sua malattia mentale, con una famiglia non propriamente rassicurante e una mamma che finisce i suoi giorni in manicomio.
Il film è tratto da una pièce e l'impostazione teatrale rimane fortissima, anche troppo. Si avverte nelle inquadrature lunghe, nell'assenza di musica, nella reiterazione, nei monologhi. In sala diverse persone lo hanno trovato noioso. Io personalmente ho iniziato a spazientirmi un po' soltanto verso la fine, anche se il film è senza dubbio lento. A mio parere riesce a trasmettere molto bene il senso di straniamento del protagonista e ci fa penentrare nella sua dimensione di follia, proprio esasperando i suoi monologhi e le sue cantilene, ripetendole fino al parossismo, e al tempo stesso confonde la sua follia con la realtà in cui è cresciuto, tanto che non si capisce più dove stia la linea di confine.
Ci sono intuizioni non banali e la capacità di sorprendere nel mischiare ironia e drammaticità, al punto che in alcuni momenti non si sa veramante se aspettarsi di ridere, schifarsi, provare pena o piangere. Però rimane a mio parere un film non del tutto riuscito, trasmette angoscia e questo probabilmente è il suo scopo, ma poteva riuscirci forse meglio esasperando meno i concetti e con una soglia minore di reiterazione. Non "arriva" bene, si disperde, soffoca troppo la poesia con l'ansia. Azzeccate ed efficaci le battute finali.
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ipno74
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venerdì 13 maggio 2011
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un simpatico pazzo
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Il film ha un impatto iniziale veramente buono, originale e trasmette la vera pazzia di un uomo che vive la sua vita, sin da bambino, in un manicomio.
Interpretato e diretto benissimo da Celestini, ma per me rimane, per ora, solo un grande monologhista.
Anche se alcune scene sono per,eate da una descrizione stupenda della pazzia, altre rallentano il ritmo del film, portandolo ad un'altro dei prodotti italiani non capiti.
Tuttavia, si hanno dei buoni colpi di scena, la storia è dura ma descritta con ironia e leggerezza.
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astromelia
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lunedì 31 gennaio 2011
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film da osservare
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sebbene il tema sia delicato,questo film va osservato nel vero senso della parola,senza commenti ne opinioni,è una reale realtà nel contesto di normalità/anormalità sociale,buon ritmo
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francesco2
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lunedì 8 luglio 2013
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un cinema sperimentale
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Come anche "La solitudine dei numeri primi", questo film è stato presentato in concorso a Venezia tre anni fa. A differenza della "Solitudine", credo abbia ricevuto non pochi elogi, forse per l'intelligenza con cui dipingerebbe il mondo dei malati.
Bisogna però intendersi: se Costanzo jr. ha trasposto il romanzo di Giordano, qualunque giudizio se ne dia, mischiando delle venature horror alla parabola sui "Diversi" ed alle attinenze/differenze tra teatro e realtà (Una sorta di teatr(in)o del cinema, che ricorda lontanamente "Dolls" di Kitano), Celestini porta sullo schermo una sua opera teatrale, scegliendo di fondere la voce fuori campo (Che nulla ha ache fare, per fortuna, con quella del brutto "Ovosodo"), con un'impostazione in cui l'aneddoto, che poi è più che altro una riproposizione del suo passato, si fonde con un mondo agreste come quello delle uova che hanno in meno le suore.
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Come anche "La solitudine dei numeri primi", questo film è stato presentato in concorso a Venezia tre anni fa. A differenza della "Solitudine", credo abbia ricevuto non pochi elogi, forse per l'intelligenza con cui dipingerebbe il mondo dei malati.
Bisogna però intendersi: se Costanzo jr. ha trasposto il romanzo di Giordano, qualunque giudizio se ne dia, mischiando delle venature horror alla parabola sui "Diversi" ed alle attinenze/differenze tra teatro e realtà (Una sorta di teatr(in)o del cinema, che ricorda lontanamente "Dolls" di Kitano), Celestini porta sullo schermo una sua opera teatrale, scegliendo di fondere la voce fuori campo (Che nulla ha ache fare, per fortuna, con quella del brutto "Ovosodo"), con un'impostazione in cui l'aneddoto, che poi è più che altro una riproposizione del suo passato, si fonde con un mondo agreste come quello delle uova che hanno in meno le suore. Assai poco bozzetistiche, per la verità, almeno nel senso che si potrebbe pensare. Però: se Celestini non è Virzì, non è neanche Cronenberg. Sembra (ri)cercare soltanto la semplicità nel senso più positivo del termine, una ricerca del mondo agreste senza sdolcinature da "Mulio Bianco" , un mondoaspramente dolce che si fonde col misto di tenerezza e tristezza che caratterizza il passato ed il presente del protagonista.
In ogni caso, rischiamo di assistere ad un (Simpatico) ibrido nella sostanza e nei contenuti. E non capisco molto perché elogiare questo film ed avanzare determinate riserve sulla "Solitudine".
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