Heimat 3 - Cronaca di una svolta epocale - Un film in 6 episodi

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Irene Bignardi

La Repubblica

Vent’anni fa un regista tedesco di quella che venne chiamata all’epoca la neue welle, la nuova ondata del cinema tedesco, quella dei Fassbinder, degli Schlöndorff, degli Herzog, un regista più appartato e timido degli altri, bravissimo ma all’apparenza di personalità meno forte, decise di imbarcarsi in un’avventura ambiziosissima: raccontare la Germania, la sua terra, in un grande ciclo narrativo che sposasse cinema e tv, romanzo e cronaca. Il ciclo, che venne presentato in prima visione a Venezia nel 1984, si sarebbe chiamato Heimat: una parola che in tedesco vuol dire la casa, la patria, anzi, come qualcuno ha provato a dire con una parola italiana che non esiste ma che riflette bene II sentimento del ciclo, più intimo e affettuoso che grandioso ed epico, la «matria», il luogo da cui si viene e a cui si torna, il ventre caldo dell’affetto.
La heimat di Reitz si chIamava e si chiama Schabbach, ed era lì che vivevano e da lì partivano i personaggi, tanti, tantissimi, che Reitz ha raccontato nei due primi cicli: uno appunto dell’84, l’altro del 1992, uno di 932 minuti, l’altro di 1532, uno di 11 episodi, l’altro di 13, un po’ in bianco e nero, un po’ a colori, partendo dal 1919 per arrivare al 1970. Vi si intrecciano destini privati e storia di un Paese che va alla guerra e alla tragedia, che si rinnova, si ritrova, è diviso, ridiventa un grande Paese.
Chi scoprì il primo Heimat, ne restò folgorato. Reitz era riuscito a coniugare la narrazione popolare con un’analisi finissima della Storia, la su-spense necessaria a conservare l’attenzione dello spettatore di episodio in episodio (visto che il film era prodotto per la tv) con il vigore estetico, l’affezionarsi ai personaggi con la visione critica, la coerenza necessaria a trattare un periodo così complesso con un uso suggestivo dei salti temporali.
Il successo si è ripetuto con Heimat 2, che seguiva uno dei personaggi, Hermann, a Monaco, dove va a studiare musica e a sperimentare tutte le cose della vita. E si ripeterà con Heimat 3, che esce in questi giorni nei cinema (edizione italiana a cura di Carlo di Carlo, da oggi, sei episodi, uno ogni due settimane). Reitz racconta in questo terzo ciclo, preparato e realizzato nell’arco di dieci anni, «la caduta del muro, la riunificazione tedesca tra speranze e delusioni, tra euforie del momento e amare ricadute nella realtà». Il tutto partendo dall’incontro casuale, il giorno della caduta del muro, il 9 novembre 1989, tra due personaggi che abbiamo già incontrato e amato, e che si ritrovano in un albergo di Berlino stupefatti e gioiosi per quello che sta succedendo: Hermann, che abbiamo lasciato poco più che ragazzo nel 1970 e che nel frattempo è diventato un grande direttore d’orchestra, e Clarissa, la ragazza che aveva amato e da cui le derive della vita lo avevano portato lontano, ora è una grande cantante.
Sullo sfondo emozionante ed eccitante dell’inizio di una nuova Germania, i due si riscoprono e si amano come possono — ambedue hanno una vita peregrina e irregolare — e decidono di ricostruire, per viverci insieme di tanto in tanto, una vecchia casa in alto sul Reno, nel Hunsrück, la Günderrode-House, dal nome del poeta che la leggenda dice l’abbia abitata nel passato. Intorno a questa casa, nuova heimat della vigilia del ventunesimo secolo, si intrecciano e si incontrano molte altre vite: quelle degli operai dell’Est che vengono a lavorarci e a viverci mentre la restaurano, quelle dei figli e degli amici che ci si installano disinvoltamente quando passano di lì, quelle dei fratelli di Hermann, quelle dei nuovi imprenditori a cui la riunifìcazione della Germania fa immaginare imprese e successo. E poi i capitalisti rampanti pronti a distruggere chiunque sulla strada della loro fortuna in nome della logica del sistema. I nostalgici della divisione, i russi di origine tedesca che riportano nella antica patria una cultura e delle abitudini e una forma di società completamente diverse.
Ma è vero quello che disse il sindaco di Berlino, Walter Momper, il 10 novembre 1989, di fronte al Parlamento della Germania Ovest: «Noi tedeschi siamo il popolo più felice del mondo»? vero alla vigilia del 2000, quando tutti i personaggi (sopravvissuti) del ciclo si ritrovano nella casa di Hermann, dopo infinite vicissitudini, gioie, cambiamenti, per festeggiare l’ingresso nel nuovo secolo? Tutti, bisogna aggiungere, meno il simpatico e balordo Gunnar, uno degli operai, che pur essendo colui che ha voluto la festa, sta scontando un debito con la giustizia.
Diceva Reitz in un’intervista: «Nell’89 molti hanno visto in quel momento l’inizio di una nuova era, di una nuova felicità entro le frontiere allargate della Germania unita. Ora la gente è disorientata davanti al futuro: molte, troppe speranze sono state deluse... La società è diventata più brutale». E, in conclusione, tutto il suo terzo ciclo «è segnato da una certa dolce malinconia». È questo il sentimento che lascia addosso Heimat 3, salutandoci alla vigilia del 2000, con tutte le paure e le speranze che si portava dietro. Come tutti i racconti, letterari o cinematografici, che affrontano la nostra Storia (anche quella tedesca è nostra, dopo tutto) lascia un’impressione diretta e reale.
Un po’ di realismo e di malinconIa In più la aggiunge Il fatto che gli attori dl Reitz sono gli stessi di ciclo in ciclo: e così vediamo il bravo Henry Arnold (Hermann) maturare e ingrigirsi non solo per via del trucco ma per il passare del tempo, come del resto la sua bella Clarissa (Salome Kammer). Ma di Heimat 3 vince ancora il sapore di «microstoria», della Storia vista, cioè, dalla parte della gente, nei riflessi sulle nostre vite, della politica letta nei gesti quotidiani.
Da quando Reitz ha messo mano al suo prima Heimat sono passati quasi 25 anni, e il suo Paese, la sua heimat e l’Europa hanno attraversato mutamenti impressionanti. Come dice il sottotitolo, questa è la «cronaca di una svolta epocale». Cosa porterà questa svolta epocale ce lo dirà, speriamo, un quarto ciclo di Heimat, la saga tv più straordinaria di questi ultimi decenni.
Da Il Venerdì di Repubblica, 3 marzo 2005


di Irene Bignardi, 3 marzo 2005

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