Son frère

   
   
   

Roberto Nepoti

La Repubblica

Nel 2001, alla Berlinale, Patrice Chéreau vinse l'Orso d'oro per Intimacy - Nell'intimità, che era un film sul corpo, sull'incontro tra i corpi e la sessualità. Quest'anno si è aggiudicato l'Orso d'argento per la migliore regia con Son frère: un altro film sul corpo, sui corpi; ma se là erano raccontati nel sesso qui lo sono, con la stessa spietata precisione, nella malattia e nella morte.
Una terapia-shock? un modo troppo lugubre di affrontare la nuova stagione cinematografica? Vedere per credere: il regista francese mette in scena le cose che più ci fanno paura con realismo e tenerezza insieme; offrendoci una lezione (ma la parola non deve far intendere alcuna sentenziosità) di umanità e calore con un'intensità che, al cinema, è dato trovare soltanto di rado. Se ne può restare "medusé", per dirla alla francese: affascinati e stupiti come davanti a qualcosa di nuovo e inatteso. Il soggetto è tratto da un romanzo di Philippe Besson, che ricorda abbastanza dappresso Cronaca famigliare di Vasco Pratolini (e l'omonimo film che ne ricavò Valerio Zurlini). Due fratelli, Thomas e Luc. Thomas (Bruno Todeschini) è afflitto da una malattia sconosciuta, che gli distrugge le piastrine del sangue; Luc (Eric Caravaca) lo assiste.
Figli di una coppia ottusa, i fratelli sono abbastanza diversi per inclinazioni e scelte (Luc è omosessuale) da essersi allontanati l'uno dall'altro, dopo la simbiosi dell'infanzia. E' la malattia a riunirli, pur tra incomprensioni e ribellioni; così come è la morte che bussa alla porta a cambiare la vita di entrambi.
Thomas ha accettato di morire e passa i suoi ultimi giorni - è estate - in una casa in riva all'oceano, quella della sua infanzia. Immaginata come un cataclisma improvviso e violento, la morte arriva invece lentamente, come in vacanza, producendo un sentimento di rinuncia e quasi d'indifferenza.
Anche se Luc si rende ben conto che essa modificherà la sua vita, ne cambierà le regole e le farà prendere una direzione finora imprevista. Su un soggetto così, semplice e terribile, Chéreau (che lo definisce un frammento di vita e una natura morta) ha realizzato un film tutto materia, cose concrete: la pelle, le cicatrici, il sudore, il sangue sulle lenzuola s'imprimono nella materialità della pellicola con un'evidenza e una fisicità che il cinema corrente sembra ignorare.
Ieri lo sapeva fare Robert Bresson, oggi i belgi Dardenne e pochissimi altri. Ed è questa, senza dubbio, una delle cifre più autentiche del cinema europeo quando proclama forte e chiara la propria identità, anziché rincorrere gli americani.
Da La Repubblica, 23 agosto 2003


di Roberto Nepoti, 23 agosto 2003

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