Irene Bignardi
La Repubblica
Si racconta che una volta chiesero a Michelangelo, intento a scegliere un blocco di marmo da una cava, che cosa gli facesse decidere per quel particolare blocco, che cosa ci vedesse; e che lui rispose laconicamente: “Mosè”. La storia piaceva molto, pare, a Sergio Leone che, per spiegare la differenza tra i due suoi attori prediletti, Bob De Niro e Clint Eastwood, quando gli fu chiesto che cosa vedesse in Clint Eastwood, rispose: “Un blocco di marmo”.
Arrivato a sessantadue anni, al suo trentaseiesimo film da protagonista, al suo sedicesimo film da regista, e al suo decimo western - Gli spietati, che ha sbancato le candidature degli Oscar e prima ancora i Golden Globes, che si è conquistato un posto d’onore nelle classifiche degli incassi americani e nel cuore di una critica spesso ingrata - Clint Eastwood assomiglia più che mai a quel blocco di marmo. Indistruttibile, compatto, coerente, robusto. Un attore e un autore che migliora ma non cambia, che costruisce su qualcosa che gli assomiglia ed è già dentro di lui, anziché indossando, come De Niro, il vestito dei suoi personaggi.
E Gli spietati è sicuramente un bel film, che rivela una invidiabile abilità e una fluidità di direzione registica da classico. Ma di qui a gridare al capolavoro, come ha fatto la critica Usa, di qui a decidere che Gli spietati è “l’ultimo western” ce ne passa. Anche perché di “ultimi western” -quelli che suggellano insieme il climax e la fine di un genere, che mostrano le miserie del mito glorioso del West -anche solo a pensarci un attimo ne vengono in mente tanti, da La ballata di Cable Hogue a Piccolo grande uomo, da I compari di Altman a Il pistolero di Siegel, tutti girati nel breve volger di tempo in cui la controcultura post-sessantottesca si stava preoccupando di fare giustizia della storia tradizionale. Che il rinato interesse per il genere faccia parte del più generale fenomeno del revisionismo storico?
Girato su una sceneggiatura di David Webb Peoples rimasta dieci anni ad attendere che Eastwood invecchiasse al punto giusto, dedicato “a Sergio Leone e a Don” (Siegel), i due numi tutelari di Eastwood, intitolato in originale (salvo il dettaglio di un articolo in meno) come uno sfortunato ma interessante western di John Huston, Gli spietati è abilissimo nello schivare omaggi e prestiti, civetterie e strizzate d’occhio. È solo e semplicemente un grande western classico, con una questione morale come suo nucleo - se la giustizia non viene amministrata al meglio, ci sarà qualcuno che ha voglia di farsi giustizia da solo - e con la voglia di far cadere il velo di Maya dalla realtà di quel mondo: anche i cow-boy hanno i reumatismi, si arrugginiscono nella mira e capita che siano miopi.
Metà della leggenda del West, insomma, è una menzogna letteraria abilmente costruita per nobilitare un’avventura sanguinosa gestita disinvoltamente da uomini e non da eroi. Come è accaduto, sicuramente, anche con l’epopea greca, che del western è il modello leggendario: solo che lì i revisionisti non sono arrivati in tempo a smascherare le bugie dei poeti.
Clint Eastwood, dunque, è un assassino pentito, che ora alleva maiali in una sperduta e miseranda fattoria nel Wyoming del 1880. La moglie che lo ha riportato sulla retta via è sotto terra, due bambini dividono la sua monacale solitudine. Ma la sua fama di spietato fa sì che un aspirante bounty killer alle prime armi venga a cercarlo per far squadra con lui nella ricerca dei due cow-boy che hanno sfregiato una puttana del bordello di Big Wiskey (la quale, a dire il vero, se l’è voluta; non sa che non si deve ridere di un pisellino troppo piccolo, perché, cow-boy o non cowboy, gli uomini la prendono male?).
Incapaci di ottenere soddisfazione dallo sceriffo Gene Hackman, che si è preoccupato solo di stabilire un indennizzo in cavalli, le puttane hanno messo in palio i propri risparmi per ottenere vendetta. Non c’è in giro aria di femminismo? Tra gli altri aspiranti vendicatori arriva nella cittadina anche Richard Harris, un ribaldo contaballe con uno scrittorucolo al seguito (Saul Rubinek) che pende dalle sue labbra. Ma Gene Hackman, nel suo tentativo di conservare la pace in città, lo riempie di botte e caccia lui e il suo aedo dietro le sbarre.
Quando finalmente arriva a Big Wiskey, in compagnia del pivellino che spara male perché è miope e di Morgan Freeman, compagno di ribalderie giovanili ormai tornato in riga, Will Munny ha però qualche esitazione a tirare. La morta gli ha inoculato un po’ di umanità. Questo dà modo allo sceriffo di pestarlo a sangue e di cacciarlo dalla città, mentre il gruppo delle puttane lo affida alle cure della povera sfregiata (Frances Fisher, nella vita compagna di Eastwood), che inevitabilmente si fa qualche illusione romantica - e inevitabilmente viene delusa. Quando infine si arriva alla sparatoria contro i cow-boy cattivi, le esitazioni, le goffaggini e i ripensamenti rendono l’esecuzione tanto più crudele in quanto meditata e descritta in ogni gesto.
Nonostante le buone intenzioni demistificatorie, nel finale Eastwood ritorna però alla leggenda: per vendicare la morte dell’amico Freeman, Munny si lascia andare a un’orgia di violenza da Mucchio selvaggio, senza sbagliare un colpo. Poi se ne torna nella sua porcilaia, dai suoi bambini dimenticati. Una didascalia finale, stagliata contro un tramonto meraviglioso, ci annuncia che si è sentito parlare di lui, anni dopo, a San Francisco, dove ha fatto fortuna. Sapevamo che il grande capitale americano ha molti cadaveri nell’armadio. Ma Eastwood, da diligente aedo del nuovo realismo western, ha ritenuto bene ricordarcelo.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996