guidobaldo maria riccardelli
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sabato 8 ottobre 2016
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l'inconciliabilità delle differenze
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Profondamente simbolico, esprime con grande chiarezza le tesi di un Konstantin Sergeevič Lopušanskij in grande vena, peccando però di una parte conclusiva eccessivamente trascinata e leggermente ridondante.
Scritto con grande perizia e fotografato con cura financo maggiore, questo Posetitel muzeya si offre come opera dall'importanza indubbia, capace di rendere con grande effetto il tema basilare, poi declinato, dell'estrema difficoltà di una lettura unanime delle differenze sociali; crudo, permeato da un pessimismo profondo, si avvale di una superba fotografia, nella quale le accezioni del rosso vengono esplorate con destrezza assoluta, in aggiunta ad una scenografia ricca, fonte fondamentale di svariati richiami simbolici.
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Profondamente simbolico, esprime con grande chiarezza le tesi di un Konstantin Sergeevič Lopušanskij in grande vena, peccando però di una parte conclusiva eccessivamente trascinata e leggermente ridondante.
Scritto con grande perizia e fotografato con cura financo maggiore, questo Posetitel muzeya si offre come opera dall'importanza indubbia, capace di rendere con grande effetto il tema basilare, poi declinato, dell'estrema difficoltà di una lettura unanime delle differenze sociali; crudo, permeato da un pessimismo profondo, si avvale di una superba fotografia, nella quale le accezioni del rosso vengono esplorate con destrezza assoluta, in aggiunta ad una scenografia ricca, fonte fondamentale di svariati richiami simbolici.
Le interpretazioni si mantengono su questo livello elevato, in personificazioni non certo automatiche o stereotipate.
Come detto, non convince a pieno la fase discendente del lungometraggio, più per la sua forma che per il contenuto, necessario nonché appropriato, ma che allunga una narrazione fino a quel momento ben più scorrevole.
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mario_platonov
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giovedì 23 dicembre 2010
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il lamento di un'umanità senza speranza
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Angoscia e disturbo. Sono le due sensazioni che la visione di questo film – compiaciuto in alcuni tratti ma decisamente potente – provoca nello spettatore.
Lopushansky ha lavorato con Tarkovskij e dal genio russo ha preso sicuramente l’amore per le lunghe sequenze, per la contrapposizione tra uomo e elemento naturale (l’acqua in particolare) e per una sofferta retorica sul ritorno alla purezza. Ma laddove il maestro immergeva queste tematiche in scenari lirici portandole allo spettatore attraverso le angosce interiori dei protagonisti, Lopushansky ci trasporta in un mondo post-apocalittico – violento e sporco – dove una parte dell’umanità fatta da reietti e mutanti vive in schiavitù affidandosi ad un culto primordiale.
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Angoscia e disturbo. Sono le due sensazioni che la visione di questo film – compiaciuto in alcuni tratti ma decisamente potente – provoca nello spettatore.
Lopushansky ha lavorato con Tarkovskij e dal genio russo ha preso sicuramente l’amore per le lunghe sequenze, per la contrapposizione tra uomo e elemento naturale (l’acqua in particolare) e per una sofferta retorica sul ritorno alla purezza. Ma laddove il maestro immergeva queste tematiche in scenari lirici portandole allo spettatore attraverso le angosce interiori dei protagonisti, Lopushansky ci trasporta in un mondo post-apocalittico – violento e sporco – dove una parte dell’umanità fatta da reietti e mutanti vive in schiavitù affidandosi ad un culto primordiale.
Così ci muoviamo con il “visitatore” in ambienti dominati da luci innaturali, abitati da un’umanità senza speranze: perchè i “diversi” ci disturbano ma non sono da meno i presunti normali, asserragliati nelle loro case trasformate da una bellissima fotografia in luoghi ancora più oscuri del mondo esterno.
Magistrale l’ultima mezzora, con il protagonista che si aggira come un ossesso tra macerie e rifiuti rivolgendo un urlo disperato a Dio. “Perché?”.
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