greatsteven
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martedì 26 marzo 2019
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prepararsi a un destino inclemente.
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LA FIAMMIFERAIA (FINL, 1989) diretto da AKI KAURISMäKI. Interpretato da KATI OUTINEN, ELINA SALO, ESKO NIKKARI, VESA VIERIKKO, REIJO TAIPALE, SILU SEPPäLä, OUTI MäENPä
La vita di Iris, operaia in una fabbrica di fiammiferi finlandese, scorre continuamente arida e monotona fra il lavoro che non le dà soddisfazioni e i genitori incolori che non le dedicano attenzioni e non la motivano. Inoltre, la donna non coltiva amicizie e non vede mai nessuno. Una sera vede un vestito esposto in una vetrina e, innamoratasene, lo acquista, suscitando il disprezzo del padre e della madre che le ordinano di gettarlo via.
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LA FIAMMIFERAIA (FINL, 1989) diretto da AKI KAURISMäKI. Interpretato da KATI OUTINEN, ELINA SALO, ESKO NIKKARI, VESA VIERIKKO, REIJO TAIPALE, SILU SEPPäLä, OUTI MäENPä
La vita di Iris, operaia in una fabbrica di fiammiferi finlandese, scorre continuamente arida e monotona fra il lavoro che non le dà soddisfazioni e i genitori incolori che non le dedicano attenzioni e non la motivano. Inoltre, la donna non coltiva amicizie e non vede mai nessuno. Una sera vede un vestito esposto in una vetrina e, innamoratasene, lo acquista, suscitando il disprezzo del padre e della madre che le ordinano di gettarlo via. Ma lei disobbedisce, lo indossa e va ad una festa in un pub dove incontra un uomo a cui sembra piacere. Eppure il loro rapporto amoroso si consuma velocemente nell’arco di pochi giorni, dopodiché l’individuo non ha più nessuna intenzione di rincontrarla, nonostante Iris gli scriva per giunta tramite lettera che l’ha messa incinta. Dopo l’aborto del feto, sempre più rattristata e incattivita, Iris acquista un veleno per topi, commette alcuni quieti delitti, si rinchiude in casa sua e aspetta che arrivino ad arrestarla i poliziotti. Dialoghi ridotti al minimo essenziale, assenza di psicologia, lavoro disperato di sottrazione condotto alle sue estreme conseguenze e un significato tragico sulla condizione dell’anima umana sono i messaggi che apparvero, all’allora 32enne Kaurismäki, il metodo più persuasivo per raccontare una storia di perdenti, di persone sconfitte dagli infidi anfratti dell’esistenza che detiene sempre l’ultima parola, non perdona gli errori fatti e riserva speranze per il futuro di cui immediatamente dopo rivela l’intera, spiazzante fatuità. È un’opera dallo stile molto ricercato e per questo assai riuscita, benché ritengo che sia naturale considerare superiori ad essa altri film più recenti del regista scandinavo, tipo L’altro volto della speranza (2017) e soprattutto il superbo Miracolo a Le Havre (2011). Ciò non toglie che, tuttavia, notando con arguzia che il Kaurismäki odierno è maturato rispetto a quello degli anni ’80 per come ha saputo vivacizzare e rinvigorire le vicende che tratta senza però togliere il suo tipico e immancabile sottofondo amaro, anche La fiammiferaia possieda numerosi meriti, a partire dall’interpretazione sotto le righe di K. Outinen (volto e mimica perfetti) per proseguire con l’atmosfera cupa di spasmodica attesa e conseguente delusione che avvolge le sequenze (ad essa vengono in soccorso in particolar modo il tranquillo montaggio e la scenografia priva di fronzoli) e concludere con le musiche, canzoni folk rock autoctone i cui testi e le musiche riecheggiano una sorta di ansia pervasiva frammista a noia e oscillazione delle emozioni verso la negatività che rimanda al pensiero filosofico di Schopenhauer. Chi non è abituato a frequentare il cinema d’autore, o chi inquadra il cinema come una merce di consumismo, guarda col sopracciglio alzato a questi film bollandoli come noiosi e senza movimento: più realisticamente, si tratta di una scelta del filmaker di togliere ogni cosa che non sia indispensabile allo scopo finale e narrare più per immagini che per discorsi, impresa tutt’altro che elementare e che dunque presenta il rischio di fraintendimenti. Tornando ai personaggi, Iris è una donna non bella e non più giovanissima che sogna solo una vita normale o, per non peccare di banalità e retorica, più incline a conquistarsi quelle felicità che lei vede nelle sue colleghe, all’apparenza tanto beate nei loro minuscoli paradisi dorati. E questa ricerca la abborda fino a un certo punto, relazionandosi ad un uomo che la sfrutta come un oggetto per poi abbandonarla quand’è stanco di lei, dimentico perfino e incurante del bambino che aspetta di nascere dalla loro procreazione. La solitudine di Iris è resa con molta efficacia anche attraverso le spirali di fumo verdognolo e i vari alcolici che si vedono consumare: tutti simboli di una velleità opalescente e d’una prigione in cui si è portati a rinchiudersi per sfuggire alla furibonda e feroce disumanizzazione che la società impone a chi ne fa parte. Colui che dirige ha sovente il compito di tenere d’occhio la materia narrativa e farla trasparire mediante la recitazione del cast affinché gli spettatori possano ammirarla e comprenderne l’intrinseca profondità, e qui l’esperimento, malgrado qualche forzatura specialmente per quanto riguarda il carattere del seduttore e la rivincita-sconfitta triste di Iris, si può dire compiuto. Presentato a Berlino 1990.
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eugenio
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lunedì 2 gennaio 2012
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il grido muto
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Iris (Outinen) è una giovane ragazza che conduce un’esistenza solitaria e anonima nella fredda Finlandia, scandita da un lavoro alienante di addetta in una fabbrica di fiammiferi e l’indifferenza di una famiglia taciturna di cui è succube. Irina è sola, priva di affetti, senza amici, gioia, emozioni. Vorrebbe cambiare il suo status quo ma ogni tentativo di emancipazione è soffocato, ucciso sul nascere dalla violenta repressione del padre, dall’incomunicabilità nei confronti della madre ove ogni dialogo è raggelato dal silenzio, dall’illusione di un amore mai goduto verso un aitante uomo benestante, da un imprevisto aborto. Irina è segnata dal dolore; ama la vita, ne ricerca con desiderio ogni anelito ma viene paradossalmente esclusa con violenza, accetta la sofferenza ma la mescola con la disperazione, la rabbia, lo stupore di una mancata rassegnazione.
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Iris (Outinen) è una giovane ragazza che conduce un’esistenza solitaria e anonima nella fredda Finlandia, scandita da un lavoro alienante di addetta in una fabbrica di fiammiferi e l’indifferenza di una famiglia taciturna di cui è succube. Irina è sola, priva di affetti, senza amici, gioia, emozioni. Vorrebbe cambiare il suo status quo ma ogni tentativo di emancipazione è soffocato, ucciso sul nascere dalla violenta repressione del padre, dall’incomunicabilità nei confronti della madre ove ogni dialogo è raggelato dal silenzio, dall’illusione di un amore mai goduto verso un aitante uomo benestante, da un imprevisto aborto. Irina è segnata dal dolore; ama la vita, ne ricerca con desiderio ogni anelito ma viene paradossalmente esclusa con violenza, accetta la sofferenza ma la mescola con la disperazione, la rabbia, lo stupore di una mancata rassegnazione. Una forza di non arrendersi che la porterà,preservando la sua dignità alla via dell’assassinio, della vendetta, dell’avvelenamento. Senza violenza, senza dolore. Con la naturalezza di un gesto necessario e dovuto che possa in qualche modo concederle la possibilità di uno sfogo, un accanimento fisico e un’espiazione delle proprie colpe dinanzi a quell’esistenza vuota e gelida che non ha saputo condurre.
Aki Kaurismaki conclude la sua trilogia dedicata alla condizione del proletariato nella società moderna con la dovuta intensità. L’analisi esistenziale risulta mai come in questo capitolo condotta con una tale forza e vigore stilistico di fronte alla morte che dagli aspetti negativi di un’esistenza abbruttita, impoverita e denigrata, finisce per sorgere un solo aspetto positivo e cioè la tensione contraddittoria tra la vitalità e la solitudine del non ritorno, di un viaggio che ha un’univoca direzione, quella della morte. Il cammino di Irina costringe lo spettatore a un viaggio, privo di ogni poeticismo retorico, attraverso i meandri del grigiore di un’esistenza squallida, della speranza della gioia di vivere, della volontà di trovare l’anima gemella che non trova una sua precisa risoluzione. L’amore non ricambiato, la mercificazione del corpo, l’assenza di ogni forma di sentimento sradicano ogni slancio vitale inibendo la giovane e mutandola inevitabilmente in un’apatica killer. Costruita secondo rigide regole a-retoriche, La fiammiferaia costituisce un duro film realista che partendo dai presupposti dell’alienazione sociale già affrontati da Chaplin in Tempi moderni, affronta senza retorica un tema di fondo e una condizione purtroppo presente ancora oggi: il male di vivere e l’affannosa affermazione senza vittoria della possibilità di condurre una vita che possa essere definita normale.
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filippo demarchi
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domenica 16 maggio 2010
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ritenuto ed estremo
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Iris fabbrica dei fiammiferi. Quando torna a casa trova un patrigno cattivo. I suoi due genitori sono indifferenzi a Iris. Il padre nasconde una bottiglia di acquavite sotto il tavolo, fà le parole crociate e si addormenta davanti alla televisione. La madre si occupa delle piante e ascolta il ruomore della televisione sempre accesa ma non ne segue le immagini. Nel mondo il Papa visita i paesi dell'Est, il muro di Berlino si sfascia e gli studenti cinesi sono in rivolta. Iris porta i soldi ai genitori, lava i piatti e stira.
Kaurismaki filma le scene frontalmente e non brilla nei movimenti di camera. Quello che conta sono le situazioni e la musica rivela il realismo interiore del personaggio, non la verosimiglianza.
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Iris fabbrica dei fiammiferi. Quando torna a casa trova un patrigno cattivo. I suoi due genitori sono indifferenzi a Iris. Il padre nasconde una bottiglia di acquavite sotto il tavolo, fà le parole crociate e si addormenta davanti alla televisione. La madre si occupa delle piante e ascolta il ruomore della televisione sempre accesa ma non ne segue le immagini. Nel mondo il Papa visita i paesi dell'Est, il muro di Berlino si sfascia e gli studenti cinesi sono in rivolta. Iris porta i soldi ai genitori, lava i piatti e stira.
Kaurismaki filma le scene frontalmente e non brilla nei movimenti di camera. Quello che conta sono le situazioni e la musica rivela il realismo interiore del personaggio, non la verosimiglianza. Il veleno per topi non uccide. Il realismo interiore d'Iris si rappresenta quando la musica della scena di ballo fà da sottofondo quando Iris é davanti allo specchio a truccarsi. È come se la musica c'indicasse che Iris é già al ballo con i pensieri.
Sette sono i brani musicali presenti nel film e la prima parola viene pronunciata da Iris dopo i primi 12 minuti. "Una birra per favore". Dopo altri 18 minuti, i genitori di Iris le diranno "Riportala". E Iris dovrà rinunciare alla sua gonna. I dialoghi sono spogli. Quando si reca in drogheria, Iris chiede "Che effetto fà?", la farmacista le risponde "Uccide" e Iris risponde "Bene".
Tipico dello stile spoglio di Kaurismaki é l'utilizzo del fuori campo. Non si vedono mai le scene d'omicidio. La violenza é fuori campo. La musica di Tchaikovsky copre il parricidio e Iris cambia stanza mentre i genitori mangiano la zuppa avvelenata. Il rumore del vento interviene più volte per indicare il valore simbolico della vendetta e della perdita di speranza d'Iris. Panta rei.
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breberto
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lunedì 11 febbraio 2008
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mal di stomaco
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Il mio mal di stomaco vuole avere una connotazione assolutamente positiva in quanto è l'effetto che mi ha fatto il linguaggio straordinario, assolutamente rigoroso e privo di qualsiasi orpello, di qualsiasi acquiescenza allo spettatore che presenta questo film così emozionante. Non a caso qualcuno ha fatto il nome di Bresson (penso a MOUCHETTE per la desolazione della storia). Anche Bresson sottrae invece di aggiungere. Qui siamo ancora oltre: pensiamo che nel film ricorrono pochissime battute fra i personaggi, meno di venti e certo solo un centinaio di parole; specchio dell'assoluta desolazione e indifferenza in mezzo alla quale vive la protagonista. Non ha gli strumenti sufficienti per vivere, la mancanza di amore la travolge, come travolge il debole protagonista dell'ultimo film di Kaurismaki: Le luci della sera del 2006.
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Il mio mal di stomaco vuole avere una connotazione assolutamente positiva in quanto è l'effetto che mi ha fatto il linguaggio straordinario, assolutamente rigoroso e privo di qualsiasi orpello, di qualsiasi acquiescenza allo spettatore che presenta questo film così emozionante. Non a caso qualcuno ha fatto il nome di Bresson (penso a MOUCHETTE per la desolazione della storia). Anche Bresson sottrae invece di aggiungere. Qui siamo ancora oltre: pensiamo che nel film ricorrono pochissime battute fra i personaggi, meno di venti e certo solo un centinaio di parole; specchio dell'assoluta desolazione e indifferenza in mezzo alla quale vive la protagonista. Non ha gli strumenti sufficienti per vivere, la mancanza di amore la travolge, come travolge il debole protagonista dell'ultimo film di Kaurismaki: Le luci della sera del 2006. Invece "Nuvole in viaggio" (1996) e "L'uomo senza passato" (2002) erano favole assolutamente meno desolate, anche se contrassegnate dallo stesso rigore stilistico. Ciò che desta soprattutto l'ammirazione in questo regista è infatti lo stile assolutamente coerente: qui alcune brevi sequenze a camera ferma interrotte da dissolvenze buie, senza musica e quasi senza parlato, per dare spazio tre volte a canzonette assolutamente stranianti rispetto a quello che la storia ci racconta. Lo stile di Kaurismaki è di una tale coerenza che non concede niente allo spettatore e la sua protagonista, straziata dentro, viene fotografata con una espressione triste che rimane tale per tutto il film. Sono sicuro che qualche spettatore - la maggior parte di quelli cui è capitato di vederlo per caso - possono considerarlo demenziale. Io, ripeto, mi sono profondamente emozionato, non tanto per la storia in se' raccontata molte volte, ma per l'altissimo valore stilistico del film. Fra l'altro è ammirevole il montaggio, curato dallo stesso regista che io annovero fra i pochi veri autori che il cinema contemporaneo ancora possiede. Voglio osservare infine che, oltre di Bresson, si può parlare di un'affinità di questo regista con i Fratelli Dardenne, belgi. Questo film è però precedente ai loro e ad esso si sono forse ispirati (penso a "Rosetta" del 1999 e a "Il figlio" del 2002)
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