ragnetto46
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sabato 26 maggio 2018
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w dustin
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Ottima interpretazione di Dustin Hoffman. Molto ben fatto il film. Non ha preso l'Oscar per questo film? Peccato perchè secondo me ha recitato da dio.
FRASE DI LANCIO
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great steven
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venerdì 3 febbraio 2017
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fece della spregiudicatezza un biglietto da visita
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LENNY (USA, 1974) diretto da BOB FOSSE. Interpretato da DUSTIN HOFFMAN, VALERIE PERRINE, STANLEY BECK, GARY MORTON, JAN MINER
Lenny Bruce, all’anagrafe Leonard Alfred Schneider, ebreo americano di famiglia yiddish, fu il comico più trasgressivo, dirompente e rivoluzionario che l’America degli anni ’50 e ’60 conobbe sui palcoscenici dei night-clubs e dei locali notturni.
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LENNY (USA, 1974) diretto da BOB FOSSE. Interpretato da DUSTIN HOFFMAN, VALERIE PERRINE, STANLEY BECK, GARY MORTON, JAN MINER
Lenny Bruce, all’anagrafe Leonard Alfred Schneider, ebreo americano di famiglia yiddish, fu il comico più trasgressivo, dirompente e rivoluzionario che l’America degli anni ’50 e ’60 conobbe sui palcoscenici dei night-clubs e dei locali notturni. Fin dai primi tempi in cui si avvicinò al mestiere dell’attore, lui, figlio di un’attrice di varietà che gli fece fare il suo debutto in modo tanto rocambolesco quanto intimidatorio, quando ancora cercava di crearsi una precisa identità di artista, contraddistinse il suo operato toccando argomenti sociali e inserendo nelle sue esibizioni tematiche scottanti di cui all’epoca si parlava poco o per nulla, arrivando ad accusare e, molto sovente, anche a mettere all’indice quelle categorie di cittadini statunitensi, rappresentanti delle istituzioni, ecclesiastici e uomini politici che facevano della corruzione e dell’ipocrisia una regola di vita. Sposato con la spogliarellista Honey, da cui poi divorziò poco dopo la nascita della figlia Kitty, ma non senza averne fatto la sua insostituibile musa ispiratrice, Lenny non fu sempre un uomo baciato dalla fortuna: spesso al verde e precipitato insieme alla consorte nell’inferno della droga a causa delle cattive compagnie dei musicisti tossicodipendenti, per certi periodi dovette arrangiarsi presentando strip-tease in locali di terz’ordine e accettando i lavori che capitavano. Ma nei suoi numerosi momenti di gloria, Bruce seppe coinvolgere tutti i suoi spettatori grazie ad alcune armi inimitabili: una parlantina micidiale, un’acutezza di sguardo davvero con pochi eguali, una lucidità di spirito ammirevole e, soprattutto, la spregiudicata mancanza di paura di puntare il dito contro il muro di spocchia e bigotteria che attanagliava silenziosamente la psicologia statunitense di allora. Arrestato un mucchio di volte per detenzione di stupefacenti, ma soprattutto per il linguaggio osceno adoperato nei suoi sketch, Lenny non si perde d’animo nemmeno sotto processo, al contrario: sfruttò i procedimenti giudiziari cui venne sottoposto per alimentare la sua fama ed erigersi a paladino dei diritti comuni, ingiustamente incriminato e preso di mira dall’ordine costituito. La sua personalità refrattaria alle critiche e certamente anarchica gli causò non pochi guai, fino a spingerlo a commettere un suicidio dopo l’ultima apparizione in pubblico che concluse, visibilmente strafatto di droga, dicendo con mestizia: «Mi dispiace, non sono divertente». Ricostruiscono le tappe salienti della sua breve e tormentata esistenza la moglie Honey (che passò un lungo periodo in un istituto correzionale per tossicodipendenza, mentre il marito allevava la loro figlia), l’agente Artie Silver (che gli fu vicino fino all’ultimo, senza mai tradire la loro amicizia) e la madre, contraria alle scelte avventate del figlio, ma invariabilmente affezionatagli e strasicura del suo non comune talento di affabulatore, intrattenitore di platee e oratore impareggiabile. Quello che salta subito all’occhio di questo bio-pic assolutamente non tradizionale per come diverte e fa riflettere con profondità al tempo stesso, è l’immensa contro-usualità del ruolo affidato all’attore protagonista. Mi spiego meglio: siamo o no abituati a vedere Hoffman, fin dagli esordi della sua brillantissima carriera, impegnato in parti di uomini sfortunati, costretti a lottare per scopi magri, perseguitati per le loro stesse azioni o comunque inguaiati, anche a livello psicologico? Almeno per quanto concerne il quarto punto appena elencato, l’abitudine non si contraddice: eppure Hoffman, sebbene interpreti quello che a tutti gli effetti è un suo collega (!), con tutte le sue inquietudini e i suoi cavilli in testa, riesce a dare un’eccellente prova recitativa malgrado esca dai canoni abituali, e trovandovi anzi linfa creativa per ampliare il suo repertorio e consegnare al pubblico un ritratto sofferto e lodevole di un uomo che voleva a tutti costi reintrodurre, almeno per quanto concerne l’universo dello spettacolo, la libertà e la potenza della parola. E proprio la parola si affianca ad Hoffman come indiscussa protagonista del film di B. Fosse: che sia pulita o che faccia parte del turpiloquio, è essa l’essenza, l’acqua della vita, il fulcro attorno a cui gira un film drammatico che si prende alquanto sul serio, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo di restituire dignità ad una figura attoriale e specialmente artistica che, senza quest’opera cinematografica, sarebbe caduta nel dimenticatoio e non avrebbe quindi ricevuto la giusta riabilitazione che meritava. Ottima la scelta di girare la pellicola in bianco e nero, e non soltanto perché questa decisione cala meglio le immagini nell’atmosfera di un’America ancora troppo moralista e bacchettona, ma anche perché approfondisce con maggior acume le psicologie del personaggio principale e di tutti gli altri che gli si muovono intorno ed accanto, determinando, per volontà sua o a sua insaputa, i traumi e le gioie che si ritrovò a trascorrere. Nella speranza di riuscire sempre e comunque a divertire chi lo ascoltava e senza guardare in faccia a nessuno, ridendo a bocca aperta davanti all’enormità di gente che non lo comprendeva e che lo mise nei pasticci impedendogli di fare quello che, a tutti gli effetti, era un lavoro, ma pure una passione che non nascondeva un’arte abile, eloquente e magnifica. Doppiaggio magistrale di Gigi Proietti per Hoffman. Gradevoli musiche jazz accompagnano i monologhi di Lenny Bruce. Uniche note stonate: gli eccessi di silenzi ridondanti soprattutto nella prima parte, quando scorrono immagini mute senza che nessuno intervenga verbalmente, che peccano qua e là di inopportuna lentezza.
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gianni lucini
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martedì 4 ottobre 2011
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un tosse che soffoca il pensiero
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Restìo a vestire i panni di Lenny Bruce, nel momento in cui accetta la parte Dustin Hoffman inizia a prepararsi con il maniacale perfezionismo che gli è proprio. Due sono le preoccupazioni che lo assillano. La prima è quella di non riuscire a vestire in maniera credibile i panni di un personaggio popolare, molto amato da una larga fetta di pubblico che ne ricorda battute, modi di dire, tic, manie, gestualità e presenza scenica. La seconda è quella di non annegare la propria personalità diventando una banale copia quasi fosse un imitatore. Per questa ragione rivoluziona spazi, tempi e modi della sua vita nel tentativo di immergersi completamente in una sorta di personalissimo “mondo di Lenny”.
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Restìo a vestire i panni di Lenny Bruce, nel momento in cui accetta la parte Dustin Hoffman inizia a prepararsi con il maniacale perfezionismo che gli è proprio. Due sono le preoccupazioni che lo assillano. La prima è quella di non riuscire a vestire in maniera credibile i panni di un personaggio popolare, molto amato da una larga fetta di pubblico che ne ricorda battute, modi di dire, tic, manie, gestualità e presenza scenica. La seconda è quella di non annegare la propria personalità diventando una banale copia quasi fosse un imitatore. Per questa ragione rivoluziona spazi, tempi e modi della sua vita nel tentativo di immergersi completamente in una sorta di personalissimo “mondo di Lenny”. I muri della sua casa sono tappezzati da grandi tabelle sulle quali lui stesso annota luoghi, date, curiosità ed episodi della vita del personaggio mentre per mesi passa ore e ore ad ascoltare le registrazioni della sua voce per riuscire a catturarne il timbro e la particolare intonazione. Vuole conoscerlo a fondo, esplorarne i segreti, capire la sua personalità. Per questa ragione intervista decine di persone che gli sono state vicine e hanno avuto modo frequentarlo e passa ore e ore a chiacchierare con la madre, l’attrice comica Sally Marr. Quando inizia a girare Hoffman non “recita Lenny” ma “è diventato Lenny”. Vive le sue paure, le sue insicurezze, ne accompagna l’osservazione della realtà per cercare di trasferirla sul palcoscenico, ne fa proprie le ossessioni. Il regista Bob Fosse sfrutta appieno le potenzialità di questo lavoro con riprese che non ne penalizzino neppure le più sottili sfumature interpretative. La macchina da presa sembra ammaliata, stregata dal personaggio e lo segue con partecipazione nel suo percorso autodistruttivo schiacciando l’immagine su di lui quando lancia le sue invettive o percorre le sue elucubrazioni mentali e allargando nei casi in cui la parola diventa meno importante. Tra le scene indimenticabili c’è quella dell’ultimo spettacolo di Lenny in cui il protagonista, incapace di reggersi in piedi, indossa un impermeabile sulle gambe nude ed è a piedi scalzi. Hoffman parla interrotto da una continua tosse che lo soffoca quasi a suggerire che le parole che non riesce a pronunciare sono l’anticipazione della fine.
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gianni lucini
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martedì 4 ottobre 2011
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la repressione della parola
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Lenny è la trasposizione cinematografica dell’omonimo spettacolo teatrale scritto e diretto da Julian Barry che all’inizio degli anni Settanta ha ottenuto un buon successo a Broadway con Cliff Gorman nella parte del protagonista. A dirigerlo viene chiamato Bob Fosse, un regista particolare, con precedenti come ballerino e coreografo, abile tessitore di trame ambientate nel mondo dello spettacolo e fresco reduce da un Oscar per la miglior regia ottenuto con il film Cabaret. Fin dal primo momento Fosse sostiene che la versione cinematografica può avere un solo protagonista: Dustin Hofffman. Tanta determinazione non sembra destinata a buon fine perché l’attore è perplesso.
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Lenny è la trasposizione cinematografica dell’omonimo spettacolo teatrale scritto e diretto da Julian Barry che all’inizio degli anni Settanta ha ottenuto un buon successo a Broadway con Cliff Gorman nella parte del protagonista. A dirigerlo viene chiamato Bob Fosse, un regista particolare, con precedenti come ballerino e coreografo, abile tessitore di trame ambientate nel mondo dello spettacolo e fresco reduce da un Oscar per la miglior regia ottenuto con il film Cabaret. Fin dal primo momento Fosse sostiene che la versione cinematografica può avere un solo protagonista: Dustin Hofffman. Tanta determinazione non sembra destinata a buon fine perché l’attore è perplesso. Ha visto l’opera in teatro e non gli è piaciuta anche se ha molto apprezzato l’interpretazione di Cliff Gorman. In più ritiene che il personaggio di Lenny Bruce non sia adatto alla sua recitazione. Per queste ragioni la sua prima risposta è un diniego deciso e apparentemente immodificabile, accompagnato dal suggerimento ai produttori di scritturare Cliff Gorman. Fosse però non si arrende. Senza Hoffman il film non si fa. Vinto da tanta insistenza e tenacia alla fine l’attore accetta. Nelle mani di Bob Fosse il testo teatrale rivisto dallo stesso autore Julian Barry viene innervato dalla suggestione delle immagini, spesso in dettaglio o in sequenze “anomale”, utilizzate come parte sostanziale della narrazione. Non è un caso che il film si apra con il dettaglio ravvicinato di una bocca, quasi una dichiarazione programmatica che la chiave del racconto della vicenda di Lenny Bruce è da cercare nella sua bocca, nella sua voce, nelle sue parole, terribili ed esaltanti al tempo stesso, capaci di regalargli fortuna e dannazione. Il personaggio è poi spezzettato dal ricordo di chi l’ha conosciuto, con salti temporali sottolineati dall’alternarsi di sequenze in cui è senza barba ad altre nelle quali è arruffato e barbuto, e finisce per ricomporsi soltanto nell’epilogo drammatico. A guidare la ricostruzione sono le testimonianze di persone che hanno partecipato, incrociato o anche soltanto sfiorato la sua vita e che grazie alla suggestione del bianco e nero appaiono come i coreuti di una drammatica ricomposizione della memoria collettiva di un’epoca oltre che di un personaggio. Lenny, anzi la sua voce e la sua libertà, sono destinate a spegnersi nel grigiore di un’America chiusa in se stessa e nelle sue certezze, che cerca nella "caccia alle streghe" l’antidoto alle sue paure. La parola, vera protagonista del film, è la sua condanna e contemporaneamente la sua sola arma che alla fine vive quasi di vita propria e sembra incontrollabile perché non dipende più da chi la pronuncia ma dagli eventi che la circondano. Lo sottolinea bene Lenny quando dice «…è la repressione di una parola, che le da’ violenza, malvagità...»
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luca scialò
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giovedì 18 marzo 2010
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vita e rivoluzione di lenny bruce
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Il film narra, attraverso i racconti dell'ex moglie, dell'agente e della madre, la vita di Leonard Alfred Schneider, nome d'arte Lenny Bruce, cabarettista americano degli anni '50-inizio anni '60, caratterizzatosi per il suo linguaggio forte, spesso volgare usato nei suoi scatch, e per il suo carattere anticonformista. La sua carriera è andata avanti tra alti e bassi, dovuti a momenti di apice alternati a momenti di decadenza, complice l'uso di eroina cui la sua moglie Sally Marr, spogliarellista, lo aveva spinto.
Ma siamo nell'America conformista degli anni '50-inizio anni '60, quella ipocrita che promuove la guerra in Vietnam e l'apatheid, ma al contempo, criminalizza chi esterna qualche termine scurrile nelle sue esibizioni.
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Il film narra, attraverso i racconti dell'ex moglie, dell'agente e della madre, la vita di Leonard Alfred Schneider, nome d'arte Lenny Bruce, cabarettista americano degli anni '50-inizio anni '60, caratterizzatosi per il suo linguaggio forte, spesso volgare usato nei suoi scatch, e per il suo carattere anticonformista. La sua carriera è andata avanti tra alti e bassi, dovuti a momenti di apice alternati a momenti di decadenza, complice l'uso di eroina cui la sua moglie Sally Marr, spogliarellista, lo aveva spinto.
Ma siamo nell'America conformista degli anni '50-inizio anni '60, quella ipocrita che promuove la guerra in Vietnam e l'apatheid, ma al contempo, criminalizza chi esterna qualche termine scurrile nelle sue esibizioni. Vittima privilegiata di ciò è proprio Lenny Bruce, arrestato continuamente durante i suoi spettacoli. Ma il cabarettista non demorde; la sua diventa non solo una battaglia personale per la propria libertà di espressione, ma soprattutto una lotta a quell'America ipocrita e bacchettona.
Gli ultimi secondi offrono una sequenza di immagini drammatiche, facendo capire allo spettatore che Bruce in fondo, era solo nella sua battaglia, e che nel suo piccolo, aveva anticipato quello che fu il '68.
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elvis shot jfk
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lunedì 10 agosto 2009
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hoffman spettacolare!
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Davvero un gran film! e un hoffman spettacolare! il suo migliore film assieme a "Il Laureato".......
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serpico
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giovedì 30 aprile 2009
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dustin hoffman meraviglioso
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hoffman da oscar in questa fantastica prova
un capolavoro per gli amanti del cinema
consigliato siiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii
in alqune scene e da rivedere e rivedere
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