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Ultimo aggiornamento venerdì 3 aprile 2015
Dopo In un mondo migliore e Noi due sconosciuti, con A Second Chance la Bier torna alla danesità a tutti gli effetti.
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CONSIGLIATO NÌ
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Andreas è un poliziotto e un padre modello del piccolo Alexander, Tristan un poco di buono tossico che picchia la compagna e trascura il proprio bebè Sofus. Durante un'ispezione a casa di Tristan, Andreas scopre le condizioni in cui versa il bambino e cerca di togliere a Tristan la paternità. Sarà una tragica fatalità il motore scatenante di azioni in cui le barriere etiche di Andreas, Tristan e dei personaggi che li circondano finiranno per essere pericolosamente violate.
Un film sulle seconde possibilità, che forse in primis voleva rappresentarne una per la stessa Susanne Bier, transitata dai fasti dell'Oscar per In un mondo migliore ai disastri successivi alla trasferta hollywoodiana di Noi due sconosciuti. A Second Chance rappresenta un ritorno alla danesità a tutti gli effetti, per ambientazioni, attori e soprattutto tematiche, visto che si muove lungo il crinale del moralmente accettabile proprio come voleva il Dogma 95 di Vinterberg e Von Trier. E così la scelta di un padre di farsi arbitro di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato si trasforma in atti che violano ogni norma civile, salvo ripristinare in extremis un ordine delle cose in nome del politicamente corretto. Lo shock insistito a cui è stato sottoposto lo spettatore - pedantemente sottolineato dai primi piani e dalla macchina da presa in costante movimento - si rivela così l'ennesimo bluff attuato per condurlo verso dubbi etici di difficile risoluzione; oltre che per dare un senso a un'opera che, al di là della possibilità di generare dibattiti da salotto, non ne ha alcuno. Basterebbe l'eccesso grottesco con cui sono tratteggiati i genitori degeneri di Sofus a far capire come, al di là del messaggio insito, prevalga un approccio monodimensionale nell'osservazione dell'umanità: è il trionfo del pregiudizio e dell'ambiguità morale, in una confezione totalmente televisiva, contro l'osservazione critica e il ragionevole dubbio. Del manifesto Dogma purtroppo la regista danese sembra aver appreso i peggiori vizi, ma aver tralasciato uno dei primi comandamenti, visto l'utilizzo di dozzinali accompagnamenti sonori extra-diegetici, che contribuiscono (insieme a scenografie da rivista di design) a trasmettere la sensazione di un prodotto simil-televisivo, non fosse per la scabrosa tematica. D'altronde il protagonista altri non è se non il Jaime Lannister de Il trono di spade, quindi nulla di cui stupirsi sul taglio scelto da Bier, che transita rapidamente da un Oscar generosamente attribuito al nadir di una carriera.