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Nel 1964 con “La cittadella” il teleromanzo scopre le suggestioni del feuilleton. Da una parte ci sono i personaggi ricchi, odiosi, cinici, avidi e senza scrupoli e dall’altra i poveri cristi, vittime ma pervasi da buoni sentimenti e di grande dirittura morale. In mezzo c’è l’angelo guaritore, il medico che si schiera dalla parte dei più deboli e, oltre a guarirli, combatte strenuamente per la loro causa. Tratto dall’omonimo romanzo di Archibald Joseph Cronin, “La cittadella” regala l’immortalità ad Alberto Lupo, interprete del Dottor Manson, l’eroe popolare tutto di un pezzo, strenuo combattente per le cause giuste e, insieme, capace di miracoli medici. Salva la vita ai neonati, guarisce i pazzi e combatte con successo un male terribile come la tubercolosi. L’Italia intera si innamora di lui e l’immedesimazione tra attore e personaggio è totale. Alberto Lupo viene fermato per strada da persone che gli chiedono pareri sulle loro condizioni di salute e perfino l’Ordine dei Medici lo chiama a far parte di vari comitati d’onore. In realtà Lupo non era molto convinto di accettare la parte propostagli dal regista Anton Giulio Majano. Nel romanzo di Cronin il dottor Manson è un giovane appena laureato mentre lui aveva quasi quarant’anni. Per superare il possibile handicap il regista ricorre a un trucco narrativo. Il teleromanzo inizia con il medico in età avanzata. Divenuto ormai un illustre clinico, invecchiato e canuto, riceve in un club inglese la visita di uno studente universitario al quale racconta la propria storia. Mentre inizia a raccontare l’immagine si dissolve in un flashback sostituendo all’invecchiato Manson l’arrivo dello stesso, da giovane, nel paese minerario dove si svolgono le vicende del romanzo. Lo stacco è così rapido che il quasi quarantenne Lupo diventa nell’immaginario dei telespettatori un credibile neolaureato.
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