L'Affido - Una storia di violenza

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Ex-Post di Jusqu'à la Garde (L'Affido - Una stori Valutazione 3 stelle su cinque

di CineFoglio


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domenica 24 febbraio 2019

Opera prima di un giovane talento di nome Xavier (ed il déjà vu a Dolan è un presagio) Legrand, che si è presentato alla Mostra di Venezia del 2017, vincendo il Leone d’Argento per direzione e nuova promessa, con un film realistico ed attuale per la tematica, fresco e spiazzante per la regia.

La storia comincia in medias res all’udienza con il giudice incaricato (ascoltando le due parti del processo), di decretare l’affidamento dei figli di una coppia. Il verdetto, che da vincente la madre, interpretata da Léa Drucker, non nega ma concede al padre, interpretato da Denis Ménochet, la possibilità di condurre dei fine settimana con il figlio, Julien, ancora minorenne.

La narrazione procede in maniera molto tesa, tra i lunghi posteggi in macchina tra Antoine e Julien, estorcendo informazioni sulla madre, il primo, trattenendo le lacrime per il disagio, il secondo. Il film incontrerà la sua fine, dopo il raggiungimento della maggiore età della figlia Joséphine, con un ultimo e folle gesto di Antoine che, ringraziando la tempestività del «buon vicino», non si concluderà amaramente. 


L’Affido affronta la tematica della violenza domestica solo parzialmente. In realtà, la vicenda inizia con la procedura di separazione già avviata, nonostante, dal lato di Miriam, le prove non risultano essere lampanti e definitive sulla condotta del marito. In scena viene messa in luce, dagli sguardi dei figli (quelli di Julien di evadere dallo sguardo perquisitore del padre e dal volto assente di Josi nel cantare, sul palco della propria festa, la sua canzone, cercando la madre tra a folla, assente), e dalla immobilità di Miriam, la paura del «cosa potrebbe fare» e di quanto possa terrorizzare. Epilogo ed ironia della storia sarà proprio la pazzia, quasi immotivata, di una giustizia premeditata di Antoine.


Il desiderio di scappare, di Julien, dagli incontri settimanali, sono un’immagine allegorica di voler cancellare la figura di Antoine dalla propria vita, ma non quella familiare paterna del rapporto con i nonni, a voler significare, come l’espansione di un tumore, l’isolamento della metastasi ma non dell’intero arto. Il tema della fuga, inoltre, è presente, nella vita di Miriam (nell’allontanamento dalla città precedente), come nella vita di Joséphine, che, insieme al ragazzo (mostratoci immaturo), scapperà, apparentemente con una nuova vita in grembo, lontano dall’orrore quotidiano della casa e del conservatorio.
 

Il personaggio più round o, almeno, quello che destabilizza, concretamente, la vita intorno a lui, è Antoine. Interpretato, notevolmente, da un esperto e maturo Denis, Antoine non solo nel carattere violento, essendo già fautore di violenze domestiche verso la moglie e la figlia (e la veridicità dei crimini casalinghi ci viene suggerita a più riprese), ma nella costante ricerca di un approccio, caritatevole o di conforto, ma irrimediabilmente frutto di un orgoglio spezzato, umiliato. Una frustrazione in grado (in contrasto con l’amorevolezza di un padre verso il figlio a cui sa di aver fatto del male) di manipolare il piccolo Julien, attraverso la legge, prima, con l’intimidazione, durante, per avere informazioni sulla sfortunata moglie e l’indirizzo del nuovo appartamento. 


La condotta di Antoine, volutamente iperbolica, si concluderà con un nulla di fatto. La moglie non lo accetterà di nuovo, nonostante la promessa del cambiamento: il male fatto non si lava via con parole di promesse. La figlia non gli concederà più nessuna occasione di un abbraccio o di una considerazione (e già dalle parole del padre, davanti al giudice, ne anticipavano la futura realtà dei fatti). Il piccolo, e martoriato Julien, non sarà motivo di gioia ma, alla stregua di una spia, fonte di informazioni. La sua stessa famiglia avrà il coraggio di cacciarlo di casa, recidendo ogni ultimo legame affettivo posseduto dopo il trasloco nella nuova località. La domanda, a questo punto: perché distruggere, volutamente e con le proprie mani, quel debole castello di carte che ancora si teneva in piedi (per grazia di un’autorità terza e non di certo di buona volontà dei membri familiari)?


La violenza è pura irrazionalità quando è indirizzata alla sconsacrazione del prossimo, dell’altro, seguita dall’autodistruzione. Rimane una strategia inefficiente e fallimentare. Nonostante questo, per Antoine, sarà l’ultima ed unica azione possibile per (ri)ottenere quanto perduto, selvaggiamente, imbracciando una carabina, e sparando, consapevole di poter colpire quell’unico essere vivente che ancora, con tanta speranza, possa motivarlo a vivere.


Una pellicola di riflessione, per spingere ad agire e denunciare azioni di questa portata, ma anche critica, sulle ragioni profonde dietro atti incomprensibili e non dettati, solamente, da passioni del momento o da ire fugaci. Un film nudo e di contenuto, non a caso nominato, abbondantemente, ai premi César 2019.


20/02/2019


PS: Vincitore, ai César 2019, dei premi per Miglior Film, Miglior Attrice (Léa Drucker), Miglior Sceneggiatura e Miglior Montaggio.

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