vanessa zarastro
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sabato 23 giugno 2018
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violenza famigliare a montbéliard
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“Jusqu’à la Garde, il titolo in originale, affronta il tema scabroso delle violenze domestiche. Il film si apre con l’udienza davanti al giudice di una coppia, l’ex marito Antoine Besson e la moglie Miriam (molto ben interpretati da Denis Ménochet e Léa Drucker), rappresentati dai rispettivi avvocati, per stabilire a quale dei due genitori affidare il figlio minorenne Julien (il bravissimo Thomas Gioria) ed eventualmente, quali i turni di visita. La scena dell’udienza è lunga quasi in tempo reali sia l’esposizione dettagliata della giudice, sia le audizioni dei due avvocati di parti avverse. Difficile per lo spettatore capire da che parte stare, a turno i due contendenti hanno ragione e, alla fine ci sarà l’affido congiunto.
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“Jusqu’à la Garde, il titolo in originale, affronta il tema scabroso delle violenze domestiche. Il film si apre con l’udienza davanti al giudice di una coppia, l’ex marito Antoine Besson e la moglie Miriam (molto ben interpretati da Denis Ménochet e Léa Drucker), rappresentati dai rispettivi avvocati, per stabilire a quale dei due genitori affidare il figlio minorenne Julien (il bravissimo Thomas Gioria) ed eventualmente, quali i turni di visita. La scena dell’udienza è lunga quasi in tempo reali sia l’esposizione dettagliata della giudice, sia le audizioni dei due avvocati di parti avverse. Difficile per lo spettatore capire da che parte stare, a turno i due contendenti hanno ragione e, alla fine ci sarà l’affido congiunto.
Siamo a Montbéliard, un piccolo villaggio di 27.000 abitanti nella Bourgogne Franche-Comté, dove vive Miriam in un piccolo appartamento di un complesso di case popolari, con la figlia Isabelle diciottenne e il piccolo Julien. Anche le rispettive famiglie di provenienza (i quattro nonni) vivono a Montbéliard.
Julien però non ha voglia di stare con il padre neanche nei week-end che ha soprannominato “l’Autre” mal tradotto in italiano con ”quello”. Il ragazzino vuole protegge la madre, si intuisce che deve essere stato presente a violenze del padre, quando gli dice: “però non picchiare la mamma”. Non gli vuole dare il numero di cellulare di Miriam e addirittura mentisce su dove è la sua reale abitazione.
Il film man mano acquista in crescendo un ritmo da thriller che lascia lo spettatore con il fiato in gola. Il regista descrive progressivamente la psicologia di Antoine, un uomo troppo istintivo e troppo possessivo per riuscire ad amare. La sua frustrazione lo porta a essere irascibile – litigherà perfino con suo padre – e violento.
Una storia come purtroppo ce ne sono tante, in cui il maschio non riesce ad accettare di essere lasciato e, in preda ai fantasmi della gelosia, può commettere qualsiasi sciocchezza. Il milieu è quello della piccola borghesia di provincia, lei ha un piccolo assegno di disoccupazione e lui ha uno stipendio di poco più di 2000 euro al mese.
Il regista usa un modo misurato e asciutto di narrare la vicenda, senza spettacolarizzazioni che toglierebbero rigore al controllo del congegno drammaturgico. Il risultato è comunque un’opera dura ma appassionante. Non c’è spazio per la riflessione, non c’è spazio per la pietas, proprio come in un thriller fatto bene. Ma alla fine del film, all’uscita dal cinema si riflette e ci si sofferma a pensare da un lato alla violenza che molte donne subiscono, dall’altra al livello di sofferenza anche di chi la violenza la agisce.
Xavier Legrand esordisce così nel lungometraggio riprendendo i personaggi (e gli attori) del suo premiato corto del 2013. “L’affido” ha vinto il Leone d’argento. Al 74mo Festival di Venezia.
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lapo10
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mercoledì 13 dicembre 2017
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grande esordio alla regia
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A chi storceva il naso per la scelta, Alberto Barbara assicurava che Jusqu'à la garde, opera prima, di Xavien Lagrande, sarebbe stato una grande sorpresa. Personalmente non ho pregiudizi sulla scelta di un'opera prima nel concorso principale. Se il film è buono è buono a prescindere dall'autorità del suo creatore. Incuriosito dalle affermazioni del direttore della Mostra ho assistito, così, all'ultima proiezione disponibile il sabato della premiazione. Posso dire che Barbera aveva ragione. Il film si è rivelato all'altezza. Due coniugi, ormai separati si contendono il figlio minorenne in tribunale (la figlia ormai maggiorenne ha scelto di vivere con la madre). Il giudice decide di concedere al padre apparentemente violento, la custudia del figlio durante i weekend.
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A chi storceva il naso per la scelta, Alberto Barbara assicurava che Jusqu'à la garde, opera prima, di Xavien Lagrande, sarebbe stato una grande sorpresa. Personalmente non ho pregiudizi sulla scelta di un'opera prima nel concorso principale. Se il film è buono è buono a prescindere dall'autorità del suo creatore. Incuriosito dalle affermazioni del direttore della Mostra ho assistito, così, all'ultima proiezione disponibile il sabato della premiazione. Posso dire che Barbera aveva ragione. Il film si è rivelato all'altezza. Due coniugi, ormai separati si contendono il figlio minorenne in tribunale (la figlia ormai maggiorenne ha scelto di vivere con la madre). Il giudice decide di concedere al padre apparentemente violento, la custudia del figlio durante i weekend. Fin dal contraddittorio in aula è evidente il tentativo di destabilizzare lo spettatore. Chi avrà ragione. Il padre (forse violento)? La madre (forse troppo emotiva?). Dove sta la verità? Ci viene il sospetto che la verità stia "in mezzo"... Ma non è così. La verità è spesso dura e non sta mai a metà strada, specie quando si tratta di violenze in famiglia. Lagrande sembra pensarla così e mano a mano che la storia procede la situazione diventa chiara. Il ritmo blando dell'inizio, che consente a chi guarda di farsi un opinione, lascia spazio ad una tensione sempre maggiore che culmina in un finale serrato e d'improvviso ci si trova con le unghie conficcate nel bracciolo della poltrona. L'unico appunto che mi sento di muovere al film riguarda la sceneggiatura. La storia parallela della figlia più grande è un po' troppo abbozzata e non sembra apportare molto all'economia dell'intera pellicola. Peccatuccio che tutto sommato non toglie nulla ad un film ben girato e che non può e non deve lasciarci indifferenti.
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angeloumana
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martedì 21 agosto 2018
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i visi e gli sguardi
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Ciò che più impressiona de L'Affido sono i visi che esprimono emozioni anche senza parole: la paura del bambino 11enne di due genitori che si separano, le sue ansie e lacrime che derivano dalle ingiunzioni che “quello“ (suo padre, così lo indica parlando con la mamma e la sorella 18enne) gli impone. Ha fatto del figlio uno strumento di ripicca e di minacce contro la moglie che lo ha allontanato (Tua madre la pagherà cara!): il suo viso che è apparso posato all'inizio, davanti al giudice che sentenzia che il bambino gli sia affidato ogni due week-end, si trasforma via via in furia, smania di conoscere i segreti della vita di sua moglie senza di lui, gelosia pura senza via d'uscita, non si cura di usare il bambino come ostaggio, strumento di inquisizione e di un'impossibile rivalsa.
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Ciò che più impressiona de L'Affido sono i visi che esprimono emozioni anche senza parole: la paura del bambino 11enne di due genitori che si separano, le sue ansie e lacrime che derivano dalle ingiunzioni che “quello“ (suo padre, così lo indica parlando con la mamma e la sorella 18enne) gli impone. Ha fatto del figlio uno strumento di ripicca e di minacce contro la moglie che lo ha allontanato (Tua madre la pagherà cara!): il suo viso che è apparso posato all'inizio, davanti al giudice che sentenzia che il bambino gli sia affidato ogni due week-end, si trasforma via via in furia, smania di conoscere i segreti della vita di sua moglie senza di lui, gelosia pura senza via d'uscita, non si cura di usare il bambino come ostaggio, strumento di inquisizione e di un'impossibile rivalsa. E' così ingiusto il gesto di comandare dei comportamenti al bambino col dito indice teso, che ingiunge e minaccia. A distanza di giorni dalla visione padre e figlio sono i due personaggi che più si fanno ricordare, la madre è meno ritratta ma a sua volta lo sguardo esprime decisione, desiderio di non contravvenire alla sentenza della giudice, ma anche remissività e controllo auto-imposto per non provocare ancora di più l'ex-consorte.
La tensione crescente trasforma il film in un thriller, il marito è uno stalker dei più insistenti, l'epilogo ricorda vagamente il Jack Nicholson di Shining, anche qui c'è una porta del bagno chiusa come rifugio di madre e figlio e lui, fuori di sé, non ha l'accetta ma un fucile da caccia. Delle figure davvero da amare per la loro rappresentazione, la donna e il bambino verso una nuova vita libera e lui sopraffatto, esausto dei suoi stessi desideri violenti e disperati. Giustamente premiato con l'argento a Venezia 2017. N.B. Chissà se Jusq'à la garde , il titolo originale, significhi esattamente “verso l'affido”, ma “la garde” è guardia, custodia, sorveglianza, cose diverse dall'affido come in italiano lo intendiamo: questo ha più del prendersi cura, affidare un bimbo a qualcuno che amorevolmente gli sta accanto, mentre il papà del film è preda di possessione dispotica.
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loland10
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domenica 1 luglio 2018
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julien e il suo sguardo...
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“L’Affido. Una storia di violenza” (Jusqu'à la gard, 2017) è il primo lungometraggio del regista francese Xavier Legrand.
Un ‘docu-film’ opera prima premiato a Venezia nello scorso settembre. La distribuzione è quella che è ma viene da chiedersi se già dall'inizio i produttori non credono a certe storie.
Da un soggetto e un corto di alcuni anni fa, il regista francese allarga le misure e racconta le diatribe, le discussioni, i silenzi e i pochi ascolti di una coppia e dei suoi due figli. Opera prima certo coraggiosa ma priva e degna di nota essenziale con uno stile mescolante e mai ben preciso.
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“L’Affido. Una storia di violenza” (Jusqu'à la gard, 2017) è il primo lungometraggio del regista francese Xavier Legrand.
Un ‘docu-film’ opera prima premiato a Venezia nello scorso settembre. La distribuzione è quella che è ma viene da chiedersi se già dall'inizio i produttori non credono a certe storie.
Da un soggetto e un corto di alcuni anni fa, il regista francese allarga le misure e racconta le diatribe, le discussioni, i silenzi e i pochi ascolti di una coppia e dei suoi due figli. Opera prima certo coraggiosa ma priva e degna di nota essenziale con uno stile mescolante e mai ben preciso.
Da un lungo di parole e silenzi, di diatribe e di strettoie, da un'aula asfittica è attesa si arriva in un crescendo, non sempre lineare, ad una tensione e paura rinchiusi dentro un bagno. Dagli sguardi vivi e lucidi agli occhi pressanti dentro una vasca.
Un film che non convince appieno, perde compattezza tra una prima e una seconda parte, schematizza ogni contrasto ed eccede non nel vero ma in una sintonia di terrore per l'ansia e attesa dello spettatore per vedere cosa succede. Sembra tutto in distacco.
Opera che quindi trattiene troppo, non coinvolge e poi va oltre nella parte finale dove alcuni volti diventano statuari e immobili. Il soccorso, l'aiuto, il tono e lo sguardo in simili frangenti sono quello che attendi: tutto si svaluta in espressioni smorte e non piene.
E poi...una vecchia di fronte al portone di lei....osserva, scruta, non fa finta di nulla e decide di chiamare la polizia. Ecco il volto di un'anziana che per pochi attimi rimane impressa più di tanti discorsi.
Incipit: processuale e giudice, parti i in causa e avvocati, sguardi e poche attenzioni. Sonoro azzerato, rumori assenti e commento musicale annullato.
Poi iniziano le visite a casa della madre per prendere il figlio Julien da parte del padre. In auto è sotto che aspetta, suona il clacson, c’è sempre tensione. Il bambino rimane lì a vedere e toccare con mano quello che il padre cerca di fare, per conquistarlo, per poter ritornare da lei e con ‘coraggio’ usa lo stesso figlio per poter incontrare la moglie (ora alla festa dell’altra figlia, Joséphine, per i suoi diciotto anni e ora per sapere dove va a dormire).
Una madre, Miriam, che protegge il proprio bambino, Julien, fino alla fine: senza sconti, con paura e coraggio, forza e tenacia. I segni sul suo viso, il tremore e l’attesa sono le memorie orribile di una separazione terribile e di una violenza che si sta facendo strada. Continuamente.
Amore finito, famiglia sfinita, giudice che ascolta e sentenza senza appello.
Femminicidio e dintorni, violenza e forza , coraggio e paura,
Festa di compleanno, musica e ballo, unico momento di gioia; tutto con ripresa contrastante tra l'effetto dentro la sala con canzone e dedica e l'oscurità di un padre che cerca di rovinare tutto. Da qui in poi il film tende sempre al dramma, alla concitazione, vuole farci assecondare sul destino di una madre e del figlio piccolo.
Amore represso, amore mai nato, abbraccio forzato: Julien che scappa, che si volta, che media per la festa, che cerca se stesso, che vuole tenerezza, che sembra disconosciuto. Antoine e Julie, padre e figlio chiusi per sempre.
Intanto anche i nonni vengono coinvolti e stare dalla parte dei deboli è la cosa più ovvia e giusta. Il regista non adotta d’ora in poi mezzi schemi e quello che è il centro del film si sposta orizzontalmente, senza nessi e ragionamenti interiori, verso la violenza contro di un padre che sta perdendo tutto. Poi ci si chiede, e non è un problema secondario, cosa fanno i genitori (nel vero della vita) per vivere e che tipo di contatto hanno. Arriva anche il fidanzato di Joséphine, ma non è lui che può aprire spiragli in un contesto dilaniato. E il padre sembra disinteressato.
Dorme e chiuso ciascun ambiente, dalla casa all’auto, dal vicolo alla notte, dal canto alle porte chiuse.
Ostinato e cocciuto, chiuso e murato, ogni gesto del padre arriva come ci aspettiamo. Come aspettiamo una porta aperta di un bagno senza rumori di fondo.
Cast: Lèa Drucker (Miriam Besson) e Denis Ménochet (Antoine Besson) reggono I ruoli senza sorprese e con minime variazioni. Thomas Gioria (Julien) è una sorpresa nei modi e nella naturalezza (ecco che la mente va verso ad un regista come Francois Truffaut…per immaginare solamente il modo in cui…).
Regia con giusta altezza del piccolo protagonista ma ordinaria e senza cambi di passo.
Voto: 6/10 (**½).
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achab50
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giovedì 20 agosto 2020
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il cinema francese è vivo e lotta fra noi
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Si può immaginare qualcosa di più scontato di un conflitto fra coniugi separati? Certo a leggere la trama c'è da sganasciarsi dagli sbadigli, eppure all'atto pratico siamo di fronte all'ennesimo ottimo film francese, delicatamente impietoso. La questione si basa sull'affidamento condiviso dei figli: una ragazza che è in procinto di compiere i 18 anni ed un ragazzetto di 11, che è il vero protagonista del film. Infatti il regista, come già stato acutamente osservato, dipana la vicenda con gli occhi di Julien, il figlio minore, che nel gruppo è quello che recita meglio e, se continua così, ha un futuro assicurato come attore.
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Si può immaginare qualcosa di più scontato di un conflitto fra coniugi separati? Certo a leggere la trama c'è da sganasciarsi dagli sbadigli, eppure all'atto pratico siamo di fronte all'ennesimo ottimo film francese, delicatamente impietoso. La questione si basa sull'affidamento condiviso dei figli: una ragazza che è in procinto di compiere i 18 anni ed un ragazzetto di 11, che è il vero protagonista del film. Infatti il regista, come già stato acutamente osservato, dipana la vicenda con gli occhi di Julien, il figlio minore, che nel gruppo è quello che recita meglio e, se continua così, ha un futuro assicurato come attore.
Dapprincipio non si sa a chi dare fiducia, si, il marito assomiglia ad un noto sovranista italiano, e già questo è inquietante, e la moglie non si comprende se sia una vittima od una iena. Presto si scopre un padre del tutto inadatto al ruolo, avulso da ogni empatia verso chiunque, al punto che viene messo alla porta persino dai suoi genitori dove si era rifugiato dopo la separazione, ed è il punto dopo il quale la vicenda svolta quasi di colpo nella violenza sino ad arrivare all'uso delle armi ed all'arrivo all'ultimo minuto dei "nostri" quasi fosse un western.
E' un film che impressiona e scava in profondità; la vicenda prosegue in maniera lineare senza flashback (evviva!) con un crescendo emotivo a tratti quasi insopportabile. Ognuno si manifesta con le proprie debolezze ed i propri complessi.
Se vogliamo trovare un neo, il padre ha troppo le fattezze del "cattivo" e ci si chiede come una donna molto minuta che ne pesa 1/3 possa avere avuto a suo tempo una attrazione verso un gorilla... ma sono piccolezze, si vorrebbe la perfezione, ma non siamo molto distanti.
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flyanto
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venerdì 29 giugno 2018
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un ragazzo impaurito dal padre
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Tra le molteplici pellicole affrontanti il serio e delicato tema delle violenze domestiche è da segnalare “L’Affido” del regista Xavier Legrand (II). Opera prima di successo tale da meritarle a ben agione il Leone d’Argento al Festival del Cinema di Venezia lo scorso anno, racconta di una coppia di genitori che si sta separando a causa delle reazioni violente da parte del marito, sia con la moglie che con i due figli, una ragazza di 18 anni ed un bambino di circa 11. La violenza dell’uomo viene da lui indirizzata particolarmente verso quest’ultimo ancora minorenne e, dunque, obbligato a trascorrere con il violento padre i weekends stabiliti dal tribunale.
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Tra le molteplici pellicole affrontanti il serio e delicato tema delle violenze domestiche è da segnalare “L’Affido” del regista Xavier Legrand (II). Opera prima di successo tale da meritarle a ben agione il Leone d’Argento al Festival del Cinema di Venezia lo scorso anno, racconta di una coppia di genitori che si sta separando a causa delle reazioni violente da parte del marito, sia con la moglie che con i due figli, una ragazza di 18 anni ed un bambino di circa 11. La violenza dell’uomo viene da lui indirizzata particolarmente verso quest’ultimo ancora minorenne e, dunque, obbligato a trascorrere con il violento padre i weekends stabiliti dal tribunale. E’ una violenza psicologica, più che fisica, che il suddetto genitore manifesta in maniera, a volte evidente, a volte subdola e sottile incutendo nel ragazzino ugualmente paura, per non dire terrore vero e proprio, e facendo ricorso a dei dinieghi, ad insulti ed a male parole espresse a voce alta. La situazione deflagra irreversibilmente quando l’uomo, nel corso delle settimane tenta anche ossessivamente una riconciliazione con l’ormai ex-moglie (peraltro da lei sempre negata) giungendo così alle minacce vere e proprie che mettono in pericolo sia la madre che il figlio.
Una storia senza alcun dubbio terribile, forte e, purtroppo, ormai quanto mai vera nella realtà che Legrand riesce ben a rappresentare in tutta la sua violenza e crudezza. La tempistica del suo svolgersi è perfetta e con un crescendo che arriva ad un climax estremo ed inevitabile a cui, inoltre, il regista approda anche attraverso la presentazione lucida ed oggettiva del background familiare in cui vivono ed hanno vissuto i protagonisti. Insomma, Legrand non tralascia nulla e la sua pellicola risulta completa e soddisfacente in ogni sua parte. Inoltre, ciò che contribuisce alla riuscita del film è anche la sua scelta degli attori: poco conosciuti da noi, ma più popolari in Francia, essi interpretano ottimamente il proprio ruolo riuscendo perfettamente ad esprimere il loro carattere non solo attraverso la gestualità ed i dialoghi, bensì anche attraverso le espressioni del volto o del solo sguardo, e riguardo a ciò soprattutto coloro che impersonano il padre ed il figlio.
Del tutto lodevole ed altamente consigliato.
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cinefoglio
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domenica 24 febbraio 2019
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ex-post di jusqu'à la garde (l'affido - una stori
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Opera prima di un giovane talento di nome Xavier (ed il déjà vu a Dolan è un presagio) Legrand, che si è presentato alla Mostra di Venezia del 2017, vincendo il Leone d’Argento per direzione e nuova promessa, con un film realistico ed attuale per la tematica, fresco e spiazzante per la regia.
La storia comincia in medias res all’udienza con il giudice incaricato (ascoltando le due parti del processo), di decretare l’affidamento dei figli di una coppia.
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Opera prima di un giovane talento di nome Xavier (ed il déjà vu a Dolan è un presagio) Legrand, che si è presentato alla Mostra di Venezia del 2017, vincendo il Leone d’Argento per direzione e nuova promessa, con un film realistico ed attuale per la tematica, fresco e spiazzante per la regia.
La storia comincia in medias res all’udienza con il giudice incaricato (ascoltando le due parti del processo), di decretare l’affidamento dei figli di una coppia. Il verdetto, che da vincente la madre, interpretata da Léa Drucker, non nega ma concede al padre, interpretato da Denis Ménochet, la possibilità di condurre dei fine settimana con il figlio, Julien, ancora minorenne.
La narrazione procede in maniera molto tesa, tra i lunghi posteggi in macchina tra Antoine e Julien, estorcendo informazioni sulla madre, il primo, trattenendo le lacrime per il disagio, il secondo. Il film incontrerà la sua fine, dopo il raggiungimento della maggiore età della figlia Joséphine, con un ultimo e folle gesto di Antoine che, ringraziando la tempestività del «buon vicino», non si concluderà amaramente.
L’Affido affronta la tematica della violenza domestica solo parzialmente. In realtà, la vicenda inizia con la procedura di separazione già avviata, nonostante, dal lato di Miriam, le prove non risultano essere lampanti e definitive sulla condotta del marito. In scena viene messa in luce, dagli sguardi dei figli (quelli di Julien di evadere dallo sguardo perquisitore del padre e dal volto assente di Josi nel cantare, sul palco della propria festa, la sua canzone, cercando la madre tra a folla, assente), e dalla immobilità di Miriam, la paura del «cosa potrebbe fare» e di quanto possa terrorizzare. Epilogo ed ironia della storia sarà proprio la pazzia, quasi immotivata, di una giustizia premeditata di Antoine.
Il desiderio di scappare, di Julien, dagli incontri settimanali, sono un’immagine allegorica di voler cancellare la figura di Antoine dalla propria vita, ma non quella familiare paterna del rapporto con i nonni, a voler significare, come l’espansione di un tumore, l’isolamento della metastasi ma non dell’intero arto. Il tema della fuga, inoltre, è presente, nella vita di Miriam (nell’allontanamento dalla città precedente), come nella vita di Joséphine, che, insieme al ragazzo (mostratoci immaturo), scapperà, apparentemente con una nuova vita in grembo, lontano dall’orrore quotidiano della casa e del conservatorio.
Il personaggio più round o, almeno, quello che destabilizza, concretamente, la vita intorno a lui, è Antoine. Interpretato, notevolmente, da un esperto e maturo Denis, Antoine non solo nel carattere violento, essendo già fautore di violenze domestiche verso la moglie e la figlia (e la veridicità dei crimini casalinghi ci viene suggerita a più riprese), ma nella costante ricerca di un approccio, caritatevole o di conforto, ma irrimediabilmente frutto di un orgoglio spezzato, umiliato. Una frustrazione in grado (in contrasto con l’amorevolezza di un padre verso il figlio a cui sa di aver fatto del male) di manipolare il piccolo Julien, attraverso la legge, prima, con l’intimidazione, durante, per avere informazioni sulla sfortunata moglie e l’indirizzo del nuovo appartamento.
La condotta di Antoine, volutamente iperbolica, si concluderà con un nulla di fatto. La moglie non lo accetterà di nuovo, nonostante la promessa del cambiamento: il male fatto non si lava via con parole di promesse. La figlia non gli concederà più nessuna occasione di un abbraccio o di una considerazione (e già dalle parole del padre, davanti al giudice, ne anticipavano la futura realtà dei fatti). Il piccolo, e martoriato Julien, non sarà motivo di gioia ma, alla stregua di una spia, fonte di informazioni. La sua stessa famiglia avrà il coraggio di cacciarlo di casa, recidendo ogni ultimo legame affettivo posseduto dopo il trasloco nella nuova località. La domanda, a questo punto: perché distruggere, volutamente e con le proprie mani, quel debole castello di carte che ancora si teneva in piedi (per grazia di un’autorità terza e non di certo di buona volontà dei membri familiari)?
La violenza è pura irrazionalità quando è indirizzata alla sconsacrazione del prossimo, dell’altro, seguita dall’autodistruzione. Rimane una strategia inefficiente e fallimentare. Nonostante questo, per Antoine, sarà l’ultima ed unica azione possibile per (ri)ottenere quanto perduto, selvaggiamente, imbracciando una carabina, e sparando, consapevole di poter colpire quell’unico essere vivente che ancora, con tanta speranza, possa motivarlo a vivere.
Una pellicola di riflessione, per spingere ad agire e denunciare azioni di questa portata, ma anche critica, sulle ragioni profonde dietro atti incomprensibili e non dettati, solamente, da passioni del momento o da ire fugaci. Un film nudo e di contenuto, non a caso nominato, abbondantemente, ai premi César 2019.
20/02/2019
PS: Vincitore, ai César 2019, dei premi per Miglior Film, Miglior Attrice (Léa Drucker), Miglior Sceneggiatura e Miglior Montaggio.
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figliounico
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sabato 13 maggio 2023
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una lezione di stile dal cinema francese
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Esordio nel lungometraggio, Leone d’argento a Venezia nel 2017, di un giovane regista francese, Xavier Legrand, che conferma come il cinema d’Oltralpe sia capace, a differenza di quello nostrano, di rappresentare il dramma della gente comune del nostro tempo senza mai eccedere nel patetico o nel melodrammatico con uno stile asciutto e sintetico che resta sui fatti lasciando poco spazio alla retorica ed al sentimentalismo. E’ un realismo senza fronzoli, vero erede del neorealismo italiano, che mira a cogliere il nucleo centrale del dramma, nella fattispecie, lo scontro tra coniugi separati dopo il divorzio, cosa che si ripete mille volte nel quotidiano della nostra società, aggravato dalla personalità disturbata e dal carattere violento del marito e dalla presenza di figli minori.
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Esordio nel lungometraggio, Leone d’argento a Venezia nel 2017, di un giovane regista francese, Xavier Legrand, che conferma come il cinema d’Oltralpe sia capace, a differenza di quello nostrano, di rappresentare il dramma della gente comune del nostro tempo senza mai eccedere nel patetico o nel melodrammatico con uno stile asciutto e sintetico che resta sui fatti lasciando poco spazio alla retorica ed al sentimentalismo. E’ un realismo senza fronzoli, vero erede del neorealismo italiano, che mira a cogliere il nucleo centrale del dramma, nella fattispecie, lo scontro tra coniugi separati dopo il divorzio, cosa che si ripete mille volte nel quotidiano della nostra società, aggravato dalla personalità disturbata e dal carattere violento del marito e dalla presenza di figli minori. La riuscita del film è dovuta in gran parte alla bravura del protagonista, Denis Menochet, in grado di esprimere con la sua sola fisicità e poche variazioni dell’espressione del volto, parlano gli occhi, la minaccia incombente sulla sua stessa famiglia. La tensione, che si avverte fin dalla scena iniziale della separazione giudiziale in tribunale, cresce costantemente durante tutto il film fino al parossismo dell’ultima sequenza, che continua, a riflettori spenti, con il sonoro, mentre scorrono i titoli di coda sulla tendina nera che è calata sulla scena contestualmente alla chiusura della porta della vicina di casa che spiava incuriosita, a significare che il dramma di quella donna non finisce lì e quello delle donne in generale vittime di violenza domestica non termina quando non guardiamo più.
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cardclau
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domenica 24 giugno 2018
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scontato fino alla banalità
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Nell’ “Affido – Una storia di violenza”, il regista Xavier Legrand ha una grandissima miopia, si limita ad agire quello che la gente si aspetta. La gente si aspetta che ci sia una chiara dicotomia, tra le indifese, tenere, dolci, ed innocenti femmine (bianche) e i violenti, irriflessivi, impulsivi, e direi tendenzialmente femminicidi maschi (neri). Così la gente se ne sta tranquilla sapendo a chi addebitare la colpa in una relazione disturbata. Xavier Legrand non ha capito che il cinema permette una riflessione ben più articolata, e che il tema che ha scelto, della separazione e della gestione dei figli è estremamente più complesso ed sorprendentemente variegato, di quello che ci mostra.
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Nell’ “Affido – Una storia di violenza”, il regista Xavier Legrand ha una grandissima miopia, si limita ad agire quello che la gente si aspetta. La gente si aspetta che ci sia una chiara dicotomia, tra le indifese, tenere, dolci, ed innocenti femmine (bianche) e i violenti, irriflessivi, impulsivi, e direi tendenzialmente femminicidi maschi (neri). Così la gente se ne sta tranquilla sapendo a chi addebitare la colpa in una relazione disturbata. Xavier Legrand non ha capito che il cinema permette una riflessione ben più articolata, e che il tema che ha scelto, della separazione e della gestione dei figli è estremamente più complesso ed sorprendentemente variegato, di quello che ci mostra. Nel film viene tutto semplificato e banalizzato, ad un certo punto comprendiamo perché la ex-moglie ed i figli si comportano così, in un modo apparentemente insopportabile, e che Antoine Besson (Denis Ménochet) è un padre incapace in modo assoluto di elaborare un abbandono, forse perché essenzialmente deprivato, “senza famiglia”. Basta vedere come viene trattato, nel dissenso, dai suoi genitori. Direi completamente abbandonato. Non nego che certe storie possano andare in questo modo. Ma ci possono essere ben altre e ben più ricche riflessioni. Uno, che la violenza non è solo fisica. Non a caso i siciliani dicono “le parole sono pietre”. Due, che tutti i bambini, maschi e femmine, sono nella loro crescita, sotto lo strapotere di una femmina, la madre, che può decidere per i figli se il padre ha almeno una qualità, o se è uno zero su tutta linea (ma non è chiaro il perché, con un maschio del genere, lo abbia scelto, e abbia fatto almeno un figlio). Di solito si insegna che l’attività fisica fa scendere la glicemia e il diabete, ma è inesatto. La glicemia e diabete scendono con l’attività fisica solo per l’effetto permissivo dell’insulina, la cui presenza permette di fare entrare il glucosio nei muscoli in attività. Allo stesso modo la madre esercita un effetto permissivo sul modo con cui i figli valuteranno e vivranno il loro padre, se ragionevolmente potente, o perdutamente impotente. La virilità non dipende quindi solo da un padre adeguato, ma dall'effetto permissivo della madre. Tre, spiegatemi perché Shakespeare (che non è un maschilista femminicida ma è uno che ha capito le donne, a differenza di quello che ammette alla fine della sua vita Sigmund Freud) ad un certo punto scrive: “l’inferno non è nulla di fronte ad una donna arrabbiata”.
Andando a vedere il film A Quiet Passion sulla, più che grandissima, poetessa americana Emily Dickinson (impersonata da una splendida Cynthia Nixon), temevo di trovarmi di fronte ad un film agiografico e mieloso, sul tipo Maria Maddalena, che parte in quarta per spiegare a noi poveri mortali il genio senza macchia, o la vera santità, cioè l’inspiegabile, l’inintelligibile, l’inverosimile. Invece il regista Terence Davies, lasciando giustamente perdere la spiegazione del genio sfolgorante della Dickinson, si è permesso (a parte alcune poesie di rara bellezza) solo di descrivere con notevole efficacia l’ambiente che l’ha vista muoversi, lasciando a noi le riflessioni sull’ostico argomento, ma con qualche prezioso elemento in più. La Dickinson vive a cavallo della metà del diciannovesimo secolo, da una famiglia dell’alta borghesia dell’est degli Stati Uniti, da una parte religiosamente rigida (come bene sapevano fare i puritani), timorata di un Dio particolarmente severo, e dall’altra incredibilmente moderna (compatibilmente con i tempi) nel modo con cui si poteva esprimere il dissenso, e venivano considerate le donne. A quei tempi la relazione uomo-donna è intrappolata da stereotipi liberticidi da entrambe le parti, dove il maschio e la femmina già alla nascita dovevano interpretare accuratamente la parte a loro attribuita. La Dickinson non lavora (forse non era considerato consono al rango sociale), non si trova un marito e non viene spinta a farlo. Scopre la sua fortissima, emozionante, potenzialità poetica, tocca col cuore e conosce profondamente il mondo della poesia, e compone fantastiche poesie apparentemente in solitudine per molti anni della sua esistenza. La scelta delle parole e delle espressioni nelle poesie di Emily Dickinson ha dello straordinario. Ritengo, forse a torto, che l’espressione della vera creatività ponga le sue robuste radici nell’esistenza di un potente oggetto d’amore. Come il bambino che giocando, si impegna allo spasimo se è la madre che lo sta guardando. Bach non avrebbe composto a quelle altezze se non avesse amato profondamente sua moglie. Puccini lo dicono un libertino, ma non può non avere vissuto con sacralità le diverse storie d’amore vedendo e ascoltando le eroine delle sue opere, decisamente diverse, ma tutte donne vere e splendide: Mimi’, Tosca, Madama Butterfly, Turandot. E l’oggetto d’amore della Dickinson? Sicuramente la famiglia, che fondamentalmente riesce a proteggerla, poi le fantasie amorose (col pastore), al di là della fisicità e delle imbalsamate convenzioni sociali.
Il film inizia in modo "incoraggiante" (ma forse, senza tanti giri di parole, si potrebbe dire in modo piuttosto inquietante), con Marcello, il Dogman, che sta facendo il bagnetto ad un Dogo argentino, cattivissimo, col quale non vorresti mai fare un incontro solitario, a due, nel bosco. Nei suoi confronti il lupo mannaro mi è sembrato desolatamente un dilettante. Dopo il film sono tornato a casa stravolto, aggrappandomi col pensiero, per salvarmi e sopravvivere, al mondo dei Lapponi, che ho conosciuto in seguito al film Sami blod, popolo "primitivo" ma molto più evoluto di noi, dove non c'è, o non c’era, assolutamente posto per la disperazione, il nulla, il suicidio, la depressione, la personalità delinquenziale, borderline, o schizoaffettiva, la miseria morale e materiale, l’assenza di progettualità per quanto minima. Prima di scrivere questa recensione, come dice in una sua commedia il grande Eduardo De Filippo, ci ho dormito su tutta la notte: “… a dà passà a nuttata”.
Ma visto che viviamo in questa società, piena zeppa di chiari (meno) e oscuri (molti di più), niente sogni ad occhi aperti, ma immergiamoci completamente in questo sciroppo agrodolce andato terribilmente a male, tappandoci non gli occhi, perché la consapevolezza è essenziale, ma per benino il naso, assaggiandolo quanto basta per capire. Anzitutto bisogna decisamente lodare il regista Matteo Garrone per aver affrontato un tema così difficile con una notevolissima abilità filmica; e nel contempo Marcello Fonte (Marcello, ambiguo, di un’incertezza fragile, e di una incapacità di difendere se stesso che ha del tenero) ed Edoardo Pesce (Simone, estremamente disturbante nella sua brutale anaffettività e forza distruttiva) per aver dato vita con estremo realismo e credibilità (a tal punto da dimenticare che sono attori) a dei personaggi che purtroppo stanno diventando sempre più “comuni” nelle nostre disastrate periferie urbane. Il monito appare questo, e finisco: se non riusciremo ad invertire la rotta, il viaggio sarà quello di un travagliatissimo non ritorno verso la non vita, e non basterà un filo spinato elettrificato a salvarci. Insomma, un film non consigliato per i coronaropatici.
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