writer58
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sabato 6 febbraio 2016
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otto bastardi senza gloria...
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"Questo film ha molte similitudini con 'Le iene'. Una delle ragioni per cui 'Le iene' funziona così bene è la suspence. La suspence è come un elastico: continui a tirarla per cinque, sei minuti...se posso tirare l'elastico fino a venticinque minuti, e non si spezza, è ancora meglio!"
Quentin Tarantino.
I riferimenti da cui "The hateful eight" attinge sono numerosi: dal thriller alla Agatha Christie, all'horror "Carrie: lo sguardo di Satana", dai western classici rivisitati secondo lo schema "tutti contro tutti", ai procedurali giudiziari, fino ad autocitazioni dei suoi capolavori precedenti.
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"Questo film ha molte similitudini con 'Le iene'. Una delle ragioni per cui 'Le iene' funziona così bene è la suspence. La suspence è come un elastico: continui a tirarla per cinque, sei minuti...se posso tirare l'elastico fino a venticinque minuti, e non si spezza, è ancora meglio!"
Quentin Tarantino.
I riferimenti da cui "The hateful eight" attinge sono numerosi: dal thriller alla Agatha Christie, all'horror "Carrie: lo sguardo di Satana", dai western classici rivisitati secondo lo schema "tutti contro tutti", ai procedurali giudiziari, fino ad autocitazioni dei suoi capolavori precedenti. Tarantino ha impastato consapevolmente questi generi e li ha amalgamati, producendo una sintesi originale. L'opera -divisa in sei capitoli- inizia con un diligenza che arranca sulle piste gelate del Wyoming. Tutta la prima parte è giocata sul contrasto tra gli spazi sconfinati della frontiera (siamo intorno al 1865, subito dopo la fine della guerra civile) e l'ambito angusto della diligenza che arriverà ad ospitare quattro persone: un cacciatore di taglie che ha in custodia una criminale in procinto di essere impiccata a Red Rock, un ex maggiore afroamericano dell'esercito unionista, un futuro sceriffo.
I dialoghi tra i quattro protagonisti, pur utili a caratterizzare i personaggi, mi sono parsi prolissi e privi di mordente, anche se rivelano dettagli significativi del loro passato. Veniamo così a conoscenza dei trascorsi del maggiore Warren (interpretato da un monumentale Samuel L. Jackson), ex soldato nordista di colore, divenuto in seguito cacciatore di taglie e di Mannix (un magnifico Goggins), rinnegato sudista che afferma di essere stato nominato sceriffo di Red Rock.
La seconda parte del film si svolge in uno spazio delimitato, l'emporio di Minnie, dove la diligenza si ferma per sfuggire a una tormenta che rende il percorso impraticabile. Nel rifugio, vi sono altre quattro persone (un ex-generale confederato, un messicano, il boia di Red Rock e un cow boy) che completano gli "hateful eight". Non voglio dire nulla di questa seconda parte, se non che il clima di sospetto, tensione, inganni, dissimulazioni aumenta progressivamente fino ad esplodere fragorosamente.
I lettori non me ne vorranno, ma ho trovato questa seconda parte non perfettamente riuscita. Per riprendere la citazione iniziale, l'elastico è stato teso troppo a lungo e, invece di spezzarsi, si è afflosciato, ha perso tensione. A volte si ha l'impressione che Tarantino abbia ecceduto con le autocitazioni (i dialoghi alla "Pulp Fiction", il clima di sospetto generalizzato delle Iene) e abbia proposto un esercizio di stile un po' fine a se stesso. Ma anche nel momento in cui l'autore si discosta da questa impostazione, ho rilevato eccessi nella messa in scena. La violenza -altrove, come in Kill Bill, ritualizzata secondo stilemi crudi, ma eleganti- qui assume connotazioni splatter un po' disturbanti, soprattutto perché esibita volutamente sopra le righe. Ho trovato invece ben realizzati gli aspetti dell'inchiesta "giudiziaria", quasi sul modello di Poirot, come anche la dimensione "politica" del film, che sviluppa i temi del conflitto nord-sud alla luce delle ferite lasciate dalla guerra civile americana.
In sintesi: un lavoro stimolante, ma prolisso e non compiutamente risolto, nettamente inferiore ai capolavori che disseminano la carriera di Tarantino. Un vero peccato, soprattutto in relazione alle grandi aspettative che questa produzione aveva suscitato.
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michele
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mercoledì 30 dicembre 2015
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il terzo capolavoro assoluto di mr. tarantino
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Il fattore più sorprendente del cinema di Tarantino è la sua capacità di mettere in scena, con estrema e ammirabile originalità, delle tipologie di trame sostanzialmente vecchie e ormai standardizzate in 120 anni di vita della settima arte. La vicenda che ci presenta in questo suo ottavo lungometraggio è un retaggio e un mescolamento di strutture narrative e archetipi che già sono stati portati sul grande schermo in passato da altri registi, niente di così nuovo e sensazionale quindi se analizziamo la grammatica del film o se studiamo le strutture soggiacenti che ne plasmano la forma e danno vita ai contenuti. Ma questo suo ispirarsi a altre pellicole va oltre la citazione (e l’autocitazione) fine a se stessa, Tarantino infatti sa bene come utilizzare il cinema che più ama, sa rimescolare tra loro le varie situazioni e le singole trame, sfornando sempre un prodotto nuovo e dall’aspetto accattivante.
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Il fattore più sorprendente del cinema di Tarantino è la sua capacità di mettere in scena, con estrema e ammirabile originalità, delle tipologie di trame sostanzialmente vecchie e ormai standardizzate in 120 anni di vita della settima arte. La vicenda che ci presenta in questo suo ottavo lungometraggio è un retaggio e un mescolamento di strutture narrative e archetipi che già sono stati portati sul grande schermo in passato da altri registi, niente di così nuovo e sensazionale quindi se analizziamo la grammatica del film o se studiamo le strutture soggiacenti che ne plasmano la forma e danno vita ai contenuti. Ma questo suo ispirarsi a altre pellicole va oltre la citazione (e l’autocitazione) fine a se stessa, Tarantino infatti sa bene come utilizzare il cinema che più ama, sa rimescolare tra loro le varie situazioni e le singole trame, sfornando sempre un prodotto nuovo e dall’aspetto accattivante. Lo aveva fatto in passato e lo ha fatto ancora adesso in questo splendido western che va di diritto a collocarsi tra le più belle pellicole che abbia mai girato. Dopo "Pulp fiction" e "Bastardi senza gloria", il suo terzo capolavoro assoluto. Nel giocare a mescolare tra loro i vari ingredienti, Tarantino riesce a generare una creatura del tutto particolare, a fondare addirittura un nuovo genere, in questo caso un giallo western che menziona e usa molti aspetti di svariati film precedenti, dalle pellicole tratte dai libri di Agatha Christie a Hitchcock (a me in certi tratti ha fatto pensare a “I prigionieri dell’Oceano” , qualcuno penserà forse a “Nodo alla gola”), fino alle pellicole più propriamente affini al genere western, a questo proposito è doveroso citare anche Sergio Leone. In tutto questo poi c’è il suo tocco visivo che è specificamente e volutamente ‘pulp’, crudo, sanguinoso e quello letterario, con dialoghi lunghi, a tratti estranianti, forse addirittura surreali, ma graffianti e divertenti. Non manca infine una certa dose di autocompiacimento verso il finale che ci appare più prolisso del necessario e dove il regista insiste su un lessico decisamente e marcatamente cruento e folle, come a voler rimarcare la cifra stilistica che meglio lo caratterizza. Ciò che più si evince da “The hateful eight” è che Tarantino si diverte come un matto a fare cinema, attinge ispirazione dalle idee altrui e le mescola con le sue, con il proprio stile, con la propria fantasia e quello che ne viene fuori è un qualcosa di così personale che può appartenere solo a lui e in seguito al pubblico che lo vedrà. D’altra parte come diceva il genio di Picasso (frase che un altro genio, Steve Jobs, appese nel suo studio) “I bravi artisti copiano, i grandi rubano” .
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claudiofedele93
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lunedì 11 gennaio 2016
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otto piccoli pistoleri per tarantino.
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Sono pellicole sempre dotate di un fascino grottesco ad al contempo realistico, quelle del maestro Tarantino, un uomo che, a suo dire, si è fatto strada nella settima arte per conto proprio, non studiandola in accademia, ma vivendola sul campo ed amandola fino all'inverosimile, osservando attentamente le pellicole altrui, partendo da quel negozio di video-noleggio che possedevano anni or sono, fino ad arrivare a mettere la firma su veri e propri capolavori che si sono fatti apprezzare dalla maggior parte dei critici e degli spettatori.
Dopotutto, se è vero che nessun grande artista inventa, ma che tutti rubano un po’ di qua ed un po’ di là, è possibile, con poco, convincersi che Quentin sia il più abile e letale dei ladri ed il cineasta che più deve a chi l'ha plasmato fino al midollo, grazie al quale è riuscito a creare storie che, a distanza di tempo, facciamo fatica a dimenticare, vuoi per le particolari sceneggiature cariche di forza o per i dialoghi brillanti, capaci di far breccia nell’immaginario collettivo con l’ausilio di particolari espressione, o per la regia da una parte piena di brio e dall'altra ferma su quelli che sono i capisaldi della tecnica cinematografica per eccellenza.
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Sono pellicole sempre dotate di un fascino grottesco ad al contempo realistico, quelle del maestro Tarantino, un uomo che, a suo dire, si è fatto strada nella settima arte per conto proprio, non studiandola in accademia, ma vivendola sul campo ed amandola fino all'inverosimile, osservando attentamente le pellicole altrui, partendo da quel negozio di video-noleggio che possedevano anni or sono, fino ad arrivare a mettere la firma su veri e propri capolavori che si sono fatti apprezzare dalla maggior parte dei critici e degli spettatori.
Dopotutto, se è vero che nessun grande artista inventa, ma che tutti rubano un po’ di qua ed un po’ di là, è possibile, con poco, convincersi che Quentin sia il più abile e letale dei ladri ed il cineasta che più deve a chi l'ha plasmato fino al midollo, grazie al quale è riuscito a creare storie che, a distanza di tempo, facciamo fatica a dimenticare, vuoi per le particolari sceneggiature cariche di forza o per i dialoghi brillanti, capaci di far breccia nell’immaginario collettivo con l’ausilio di particolari espressione, o per la regia da una parte piena di brio e dall'altra ferma su quelli che sono i capisaldi della tecnica cinematografica per eccellenza.
Tarantino è questo e molto altro, un cocktail ben amalgamato di genio e follia, innovazione e citazione, elegante e caotico, serio e divertente, insomma, un fenomeno pop ed allo stesso tempo un archeologo di un Cinema che molti oggi hanno dimenticato o non hanno mai avuto la fortuna di vedere per innumerevoli motivi. Eppure, dietro ad una giostra complessa di personaggi incredibilmente variegati, come quelli da lui creati per The Hateful Height, che se le dicono e se le fanno di tutti i colori nelle tre ore necessarie ad arrivare ai titoli di coda, mai si ha il sentore che quello a cui siamo messi davanti sia una pellicola pacchiana, stucchevole, fredda o pretenziosa.
In effetti, come sarebbe possibile credere di quanto scritto quando si parla di un uomo, e del suo operato, che ha sognato tutta la vita di vivere accanto a quelle icone che, forse, noi stessi facciamo fatica a celebrare e riconoscere come astri lucenti di cultura e creatività. Mr. Tarantino è, prima di essere un regista osannato e di talento intramontabile, un fan sfegatato di quei maestri (Italiani, Orientali, Europei, Giapponesi e Americani) che gli hanno permessi di diventare, semplicemente, ciò che ora è: un giovane che ancora fatica a credere che quel che la pellicola è capace di mostrare sia puro intrattenimento o sequenze di fotogrammi, poiché è immerso, fino all'inverosimile, in ogni secondo di quanto gli viene mostrato in una sala di un qualunque cinema, convinto fino alla pazzia che sul grande schermo le favole diventino davvero realtà.
Per questo motivo The Hateful Eight è una pellicola capace di trascendere il genere di appartenenza, essa si traveste da Western, ma di quel preciso cinema non porta che l'estetica ed i suoni, la musica del maestro Ennio Morricone e qualche riferimento storico piazzato accuratamente nei momenti opportuni. La storia degli 8 protagonisti è un thriller in tutto e per tutto, che prende forma sequenza dopo sequenza fino a palesarsi come tale una volta che la vicenda giunge ad una precisa maturazione e tocca le vette più alte di pathos.
Siamo, forse non a caso, dinnanzi ad un giallo affine, magari per alcuni fin troppo, a quelli che scriveva Agatha Christie, a quelle storie dal sapore di “Dieci Piccoli Indiani” o “Assassino sull'Oriente Expresse” dove le persone e il luogo sono ridotti al minimo ed hanno un'importanza spropositata, mostrando sfaccettature che, con l'avanzare dei minuti, si fanno sempre più interessanti e profonde.
A dare un po’ di vita e far vibrare le corde della tensione ci sono i dialoghi e le battute classiche ormai del repertorio del celebre film-maker, quel “negro” tanto odiato da Spike Lee, e quell'ironia, a volte tanto nera e spinta, da squarciare in piccoli frammenti, come una pallottola, le fila di un intero discorso portato avanti da più comprimari.
In fondo di cosa parla questa storia incentrata su 8 sfortunati sconosciuti costretti a passare qualche giorno insieme in una catapecchia di montagna? E’ un affresco crudele dell’America, messo in luce anche attraverso l'uso di metafore sessuali e di giochi di potere esercitati con l'opportunismo giusto, un plastico vecchio di due secoli in miniatura spietato, ove ogni componente agisce e si immedesima in una precisa realtà che, da intenti nobili e ideali degni di memoria, finisce nel trasformarsi in una civiltà che lascia sempre più se stessa alle spalle, diventando l'ombra di quello che era stata un tempo, dimenticandosi di coloro che l'hanno costruita per renderla migliore, quegli idoli che gli U.S.A. hanno celebrato per poi distruggere immediatamente dopo la loro caduta.
Distante centinaia di secoli da quella sfumatura on-the-road che stava al centro di Django, The Hateful Eight regala allo spettatore una visione originale e straordinariamente appagante, sorretta da un ritmo sostenuto che offre continui momenti di riflessione da affiancare a (poche) sequenze ricche di azione o tensione, tutte unite da una storia che, se seguita grazie alla brillante sceneggiatura, riuscirà a tenere saldo l’interesse sotto ogni punto di vista per tutto il suo percorso. Siamo lontani anni luce da quelli che erano i toni del primo Kill Bill o da quella sfrenata animosità tipica di Django Unchained, mentre è facile accostare l'ultima fatica di Tarantino ad i suoi lavori un po’ più intimi e elaborati, quali Kill Bill Vol. 2 o Le Iene, ove, in tal caso, molti saranno i parallelismi tra le due produzioni.
The Hateful Eight, che i più fortunati potranno visionare anche nei cinema con una proiezione a 70mm, è un lento processo di consapevolezza e un testamento a dir poco personale che Tarantino realizza in nome di tutto ciò che crede. E’ una critica al suo paese, è un elogio alla propria terra natale, è un omaggio al cinema (riscontrabile anche grazie ad un preciso uso di telecamere e fotografia), è un atto d'amore al Western e a quelle leggende viventi che lui ha amato (non sono casuali il coinvolgimento di Morricone o i costumi che in alcuni frangenti ricordano quelli di “Il Buono, il Brutto, Il Cattivo”), il tutto è un vero e grande momento di Cinema che non capita, purtroppo, spesso di vedere. The Hateful Eight non sarà, probabilmente, idolatrato quanto gli altri lavori del regista, ma resterà un film importante, di cui se ne sentirà il peso negli anni avvenire, destinato a non far divertire lo spettatore a suon di sparatorie o volgarità, ma a farlo ragionare con l'ausilio dell'intreccio del racconto di cui si fa portavoce. Un giallo intellettuale godibile, in salsa western, attuale, che parla di persone buone e dannate, uomini e donne, che vanno avanti sul patibolo della morte, laddove ogni speranza è perduta e ogni segno di civiltà dimenticato.
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[+] cinema, politica razziale e western by tarantino
(di antonio montefalcone)
[ - ] cinema, politica razziale e western by tarantino
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samuelemei
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giovedì 11 febbraio 2016
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8 ombre (rosse) nell'inferno bianco
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Vento gelido, neve, desolazione: un Cristo in croce deformato dal dolore. In lontananza l’ultima diligenza per Red Rock, che avanza sul crescendo cupo e disperato della magnifica ouverture di Ennio Morricone. Schermo nero, titoli gialli sulla neve: così ha inizio l’ottavo film di Quentin Tarantino. Un film inquietante, come solo alcuni capolavori sanno essere. Una pellicola che ha fatto e farà discutere: un’opera che non sarà forse la più bella, ma senza dubbio la più coraggiosa, scomoda e politica dell’inimitabile sceneggiatore-regista americano.
Wyoming, inverno. Qualche anno dopo la fine della guerra civile. Inseguiti dalla bufera, otto personaggi si ritrovano, apparentemente per caso, sotto il tetto dell’emporio di Minnie.
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Vento gelido, neve, desolazione: un Cristo in croce deformato dal dolore. In lontananza l’ultima diligenza per Red Rock, che avanza sul crescendo cupo e disperato della magnifica ouverture di Ennio Morricone. Schermo nero, titoli gialli sulla neve: così ha inizio l’ottavo film di Quentin Tarantino. Un film inquietante, come solo alcuni capolavori sanno essere. Una pellicola che ha fatto e farà discutere: un’opera che non sarà forse la più bella, ma senza dubbio la più coraggiosa, scomoda e politica dell’inimitabile sceneggiatore-regista americano.
Wyoming, inverno. Qualche anno dopo la fine della guerra civile. Inseguiti dalla bufera, otto personaggi si ritrovano, apparentemente per caso, sotto il tetto dell’emporio di Minnie. Si tratta di un vero ensemble di presunti stereotipi western, sulla falsa riga del microcosmo di frontiera disegnato magistralmente in “Ombre rosse” di John Ford. Dalla diligenza scendono quattro pellegrini poco rassicuranti: John Ruth il Boia (Kurt Russell) inseparabile dalla prigioniera Daisy Domergue (una straordinaria J. Jason Leigh) condannata alla forca; un bizzarro campagnolo sudista che si presenta come il futuro sceriffo di Red Rock (Walton Goggins); e infine il maggiore nordista Marquis Warren, cacciatore di taglia senza scrupoli e uomo nero (S. L. Jackson). All’interno dell’emporio li attendono altrettanti loschi figuri, braccati dalle intemperie.
Nella trappola per topi della baita, in un’atmosfera sempre più claustrofobica (che ricorda lo scantinato di “Bastardi senza gloria”), tensioni, odi e rancori mai sopiti di un’America violenta e crudele riemergeranno all’improvviso, rivelando un’occulta quanto inesorabile connessione mortale tra gli otto maledetti.
Il film non lascia spazio a buoni sentimenti e a principi morali. Non ci sono eroi né lieto fine. I corpi smembrati e gli schizzi di sangue colpiscono lo spettatore, come proiettili roventi. Ma ciò che colpisce davvero è la visione pessimistica, cruda e brutale dell’America, ritratta come un inferno di sangue e neve. Il controcanto della lettera di Lincoln dopo la carneficina è uno degli atti di denuncia politica più potenti e sconcertanti nella storia del cinema western.
Tutto questo odio racchiuso in un’architettura narrativa formidabile, assorbito nel tessuto di una sceneggiatura originale da Oscar scandita in sei capitoli e farcita da dialoghi cesellati con verve geniale, taglienti più di un rasoio, letali più di una Colt. A livello strutturale il film, pur nella sua lunghezza, è articolato con una misura esemplare, costruita dalla precisione maniacale di un burattinaio cinefilo nel pieno della sua maturità artistica: lo confermano l’uso chirurgico della colonna sonora, l’espediente giallistico del narratore onnisciente e il ricorso al flashback nel quinto capitolo, meccanismo perfetto per sospendere e investigare nello stesso tempo.
Si tratta di un film difficile, che colpisce come un pugno nello stomaco. D’altra parte, al di sotto della superficie cruenta della pellicola, Tarantino sviluppa con forza un tema ormai classico nel suo cinema, ma sempre più connotato in chiave letteraria e teatrale: un tema che potremmo definire la “finzione della maschera”, la rappresentazione del personaggio che recita un altro personaggio in un metateatro che diventa a tutti gli effetti il motore di quel funambolico crescendo di tensione claustrofobica che tanto caratterizza l’universo poetico tarantiniano. Non bastano più i rimandi postmoderni al cinema del passato. Tarantino sembra puntare ormai alla grande letteratura, allo scandaglio dell’animo umano, dove nessuno è in realtà ciò che dice di essere. In questo modo Quentin continua la sua ricerca artistica, confermandosi uno tra i più grandi scrittori della storia del cinema. Purtroppo di Tarantino ce n’è uno solo.
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(di writer58)
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jack beauregard
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martedì 16 febbraio 2016
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la summa dei suoi film precedenti
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L'ottavo film di tarantino potrebbe essere considerato quasi una summa dei suoi precedenti, con particolare riferimento al primo, Le Jene. Di questo riprende apparentemente la struttura narrativa, anche se in maniera marcatamente più teatrale (non si può non pensare ad agata christie ed al suo "trappola per topi"), ma in realtà se ne discosta: le jene non è un film a sorpresa per lo spettatore, the hateful eight è in fin dei conti un whodunit.
Gli altri tratti comuni con le precedenti opere del regista sono soprattutto la consueta verbosità dei dialoghi (anche se meno dispersivi e inutili rispetto ad es. a Jackie Brown), la presenza degli stessi attori, diretti sempre in maniera sublime (Jackson, Russell e Roth insuperabili, ma anche la povera Jason Lee che ha avuto, se non altro, il coraggio di interpretare una parte con primi piani al limite del ripugnante) e, infine, l'eccellente maestria nell'utilizzo della mdp (specialmente negli interni).
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L'ottavo film di tarantino potrebbe essere considerato quasi una summa dei suoi precedenti, con particolare riferimento al primo, Le Jene. Di questo riprende apparentemente la struttura narrativa, anche se in maniera marcatamente più teatrale (non si può non pensare ad agata christie ed al suo "trappola per topi"), ma in realtà se ne discosta: le jene non è un film a sorpresa per lo spettatore, the hateful eight è in fin dei conti un whodunit.
Gli altri tratti comuni con le precedenti opere del regista sono soprattutto la consueta verbosità dei dialoghi (anche se meno dispersivi e inutili rispetto ad es. a Jackie Brown), la presenza degli stessi attori, diretti sempre in maniera sublime (Jackson, Russell e Roth insuperabili, ma anche la povera Jason Lee che ha avuto, se non altro, il coraggio di interpretare una parte con primi piani al limite del ripugnante) e, infine, l'eccellente maestria nell'utilizzo della mdp (specialmente negli interni). Immancabile ovviamente anche la presenza di scene estremamente violente, a mio avviso eccessive a livello visivo, quasi a dover/voler accontentare una determinata fascia di pubblico che sembra apprezzare principalmente questi momenti ad alto tasso ematico.
Un passo indietro, secondo me più che apprezzabile, viene fatto invece a livello di contenuti. Molti hanno parlato di film politico, ma temi come quelli del razzismo, che erano l'asse centrale nel precedente Django e toccavano da vicino Bastardi senza gloria (con esiti tutt'altro che lusinghieri), qui vengono inseriti in un'ottica piu trasversale e un po' superficiale, rappresentando quasi solo che un mero pretesto per "giustificare" le azioni violente o la prolissità di qualche dialogo.
Il film comunque, nonostante la durata vicina alle tre ore, non annoia mai, tarantino riesce a mantenere sempre la tensione a un livello piu che adeguato, il ritmo apparentemente lento è movimentato dai continui cambi di inquadratura e di messa a fuoco tra primi piani e sfondi, sfruttando a pieno, soprattutto negli interni, le caratteristiche del 70 mm. Ho trovato invece piuttosto arbitraria e non del tutto sensata la suddivisione in capitoli e, certamente non memorabili, sia l'utilizzo del flash back che della voice over, sicuramente non a livello degli illustri precedenti (l'ineguagliabile Pulp Fiction su tutti).
Contrariamente a quanto ho sempre sostenuto, e cioè che tarantino lo si ama o lo si odia, senza mezze misure, questo ultimo film non mi ha certamente incantato, ma neanche deluso. Togliendo un po' di sangue e perdonando qualche caduta di stile qua e là (anche se la storia del pompino non si sa se sia vera oppure no, non rappresenta comunque uno dei momenti più "alti" del suo cinema, mentre è ottima la trovata delle lettera di lincoln), mi sentirei di annoverare questo the hateful eight tra quelli riusciti, in linea con i suoi migliori, anche se lontanissimo dai primi due capolavori e da KB vol.1.
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jacopo b98
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sabato 6 febbraio 2016
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"solo" grandissimo cinema.
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Qualche anno dopo la fine della Guerra di Secessione Americana, una diligenza corre tra le montagne del Wyoming. A bordo John Ruth “Il boia” (Russell) accompagna la bandita Daisy Domergue (Jason Leigh) alla forca, ma si imbatte nel cacciatore di taglie Marquis Warren (Jackson), rimasto senza cavallo, e lo prende con sé a bordo. Incontreranno sulla strada anche il futuro sceriffo (Goggins) di Red Rock, dove sono diretti, e caricheranno a bordo anche lui, per poi fermarsi in un emporio per rifocillarsi e attendere la fine della bufera di neve che impazza sulle montagne. Nell’emporio troveranno una serie di curiosi personaggi e scopriranno che nulla è come sembra e i vari incontri sono ben poco casuali.
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Qualche anno dopo la fine della Guerra di Secessione Americana, una diligenza corre tra le montagne del Wyoming. A bordo John Ruth “Il boia” (Russell) accompagna la bandita Daisy Domergue (Jason Leigh) alla forca, ma si imbatte nel cacciatore di taglie Marquis Warren (Jackson), rimasto senza cavallo, e lo prende con sé a bordo. Incontreranno sulla strada anche il futuro sceriffo (Goggins) di Red Rock, dove sono diretti, e caricheranno a bordo anche lui, per poi fermarsi in un emporio per rifocillarsi e attendere la fine della bufera di neve che impazza sulle montagne. Nell’emporio troveranno una serie di curiosi personaggi e scopriranno che nulla è come sembra e i vari incontri sono ben poco casuali. Tarantino, come sempre anche sceneggiatore, con The Hateful Eight ha portato il suo cinema ben oltre i limiti conosciuti ed esplorati. Questo suo nuovo film infatti nasce come una sfida assoluta, tecnica e narrativa. Tecnica perché il regista e il suo direttore della fotografia Robert Richardson (che qui ha fatto un lavoro davvero straordinario) hanno deciso di girare il film su pellicola 70mm in formato panoramico ultra-panavision: insomma il top del top, la pellicola più grande in assoluto, che garantisce un’immagine enormemente più vasta della norma (e si vede, specie nelle sequenze paesaggistiche), gloriosa e spettacolare come nessun altra nel nostro tempo, in cui il digitale ci ha fatto adagiare su una definizione e una grandezza dell’immagine molto più modeste. Ma torniamo alla sfida narrativa: Tarantino ha portato alle estreme conseguenze il suo cinema teatrale, con una pièce che sfiora le tre ore e non disdegna né la suddivisione in atti-capitoli, né una costruzione temporale non convenzionale (il film è privo di senso fino al lungo flashback che prelude al finale, che assume tra l’altro il ruolo di prova generale per il film: sono gli attori che si preparano ad entrare in scena), né la claustrofobia dell’ambientazione (la diligenza prima, l’emporio poi), né un’azione più rarefatta che mai: le scene d’azione sono poche, tutte nella seconda parte, e comunque di estrema staticità. Il resto è dialogo: un dialogato fluviale, interminabile, ironico, divertentissimo, ma anche commovente e malinconico (la sublime scena in cui Warren e il generale Smithers [Dern] dialogano in poltrona con il pianoforte in sottofondo, il racconto amaro di una guerra che non ha lasciato vincitori, ma solo sconfitti). Tarantino spinge al massimo livello il binomio divertimento-riflessione, di cui si è fatto portatore negli ultimi anni in particolare. È un’opera estatica, che trasmette un’eccitazione e una godibilità invidiabili, in un contesto di amara serietà: sembra semplice cinema di genere ma non lo è. È una riflessione abissale sull’America e sulla violenza che l’affligge: non c’è pietà, né perdono, per nessuno. Il personaggio positivo è annullato: non c’è nessun Django, nessun eroe, in una crisi di ideali che è più attuale che mai. Dunque il film più complesso, difficile (si arriva alla fine comunque affaticati: mantenere alta l’attenzione su 3 ore di dialogato è impegnativo) e politico, l’unico moralmente compiuto. Stilisticamente è l’ennesimo capolavoro: la regia abbandona gli eccessi di Django, per farsi più solenne e lenta (memorabile il lentissimo movimento di macchina iniziale che inquadra il crocifisso di legno), ma non rinuncia a vertiginosi rallenty e a un gusto meraviglioso per lo splatter più esagerato. Gli interpreti si mettono del tutto al servizio della sceneggiatura e ci lasciano otto interpretazioni mastodontiche: difficile trovare il più bravo, ma meritano la citazione per lo meno Jackson, la Jason Leigh, Roth e Russell. Eccezionale colonna sonora di Ennio Morricone. All’uscita dalla sala si rimane estasiati, commossi (grazie anche ad un finale sconvolgente e bellissimo), adoranti, di fronte ad un’opera troppo grande per essere commentata a parole. È cinema, puro cinema. Anzi, grandissimo cinema. E mi piace l’idea di concludere concordando con Giorgio Viaro che ha ben detto: “Ogni volta che esce un nuovo film di Tarantino si ha l’impressione di aver passato gli ultimi due anni a mangiare alla mensa aziendale e di tornare finalmente in un grande ristorante”. The Hateful Eight è un banchetto solenne, allestito per noi, da uno dei più grandi cineasti viventi. Ma come dice Warren-Lincoln nel finale “c’è ancora molta strada da fare”. VOTO 9/10
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alex2044
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domenica 7 febbraio 2016
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la diligenza assomiglia troppo a un tgv
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I titoli di testa stile western all'italiana , accompagnati dalle musiche , molto evocative del periodo , di Morricone , si presentano come un corto che si potrebbe guardare anche da solo . Tutto molto bello ed i 70mm sono una chicca cinefila non indifferente . Poi , però , il film vero e proprio non mantiene tutte le promesse . Niente da dire per i paesaggi , niente da dire per l'ambientazione anche quella teatrale , niente da dire neppure per la storia , funerea ma molto Tarantiniana e neppure la durata inusuale è respingente . Quello che non convince è lo svolgimento . Tutto è molto schematico . I tempi sono dettati più da logiche teatrali che cinematografiche .
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I titoli di testa stile western all'italiana , accompagnati dalle musiche , molto evocative del periodo , di Morricone , si presentano come un corto che si potrebbe guardare anche da solo . Tutto molto bello ed i 70mm sono una chicca cinefila non indifferente . Poi , però , il film vero e proprio non mantiene tutte le promesse . Niente da dire per i paesaggi , niente da dire per l'ambientazione anche quella teatrale , niente da dire neppure per la storia , funerea ma molto Tarantiniana e neppure la durata inusuale è respingente . Quello che non convince è lo svolgimento . Tutto è molto schematico . I tempi sono dettati più da logiche teatrali che cinematografiche . Gli attori recitano in tono , spesso , troppo farsesco , con il rischio di cadere nel macchiettismo . Praticamente tutti non lasciano un segno particolare nella memoria dello spettatore . Anche la musica di Morricone , se escludiamo quella dei titoli di testa , non è particolarmente coinvolgente , il compitino ma nulla di più .Il cinema di Tarantino è cinema d'autore . Malgrado lui continui a dire che si ispira ai western all'italiana , il suo è un cinema originale e non può essere realizzato che da lui . Però , questa volta , la sua bravura è troppo compiaciuta ed il risultato è un film un po' cerebrale quasi ideologico e la mattanza è una conclusione scontata che Tarantino , con la sua capacità di sorprendere , avrebbe potuto rendere meno meccanica ed anche un po' meno faticosa per lo spettatore . Insomma il film si può vedere perchè la confezione è di lusso, come un bellissimo uovo di Pasqua ma con una sorpresa non dello stesso livello . Questa volta la diligenza Tarantiniana ti fa sobbalzare poco per lo stupore e la meraviglia , assomigliando per lunghi tratti ad un TGV comodo ma come si sa un po' freddo seppur molto funzionale .
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maurizio meres
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sabato 6 febbraio 2016
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il suo west
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Questa volta Tarantino ci regala quasi tre ore di suspence in un dark movie western,dove il dialogo intrigante dei personaggi non lascia tregua allo spettatore,in uno scorrere di concetti quasi sempre smentiti dagli stessi ,sembra che la fine non esista diventa quasi una partita a scacchi ma non c'è mai chi fa la prima mossa,ma il finale c'è ed è il nulla,ma con la stupenda citazione letteraria di Lincoln sui principi fondamentali della democrazia.
Tutte le scene di violenza come solito Tarantino diventano prevedibilmente inoffensive al publico ,non crudeli da infastidire chi le guarda ma scenograficamente efficaci in un umorismo da favolistica mitologica.
Strutturalmente il film è perfetto,dialogato perfettamente,in questo genere di film i dialoghi sono fondamentali,con un doppiaggio da premio oscar,difficilmente si riesce nel doppiare un attore non solo con le parole ma anche con delle sfumature espressionistiche e caratteriali del personaggio.
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Questa volta Tarantino ci regala quasi tre ore di suspence in un dark movie western,dove il dialogo intrigante dei personaggi non lascia tregua allo spettatore,in uno scorrere di concetti quasi sempre smentiti dagli stessi ,sembra che la fine non esista diventa quasi una partita a scacchi ma non c'è mai chi fa la prima mossa,ma il finale c'è ed è il nulla,ma con la stupenda citazione letteraria di Lincoln sui principi fondamentali della democrazia.
Tutte le scene di violenza come solito Tarantino diventano prevedibilmente inoffensive al publico ,non crudeli da infastidire chi le guarda ma scenograficamente efficaci in un umorismo da favolistica mitologica.
Strutturalmente il film è perfetto,dialogato perfettamente,in questo genere di film i dialoghi sono fondamentali,con un doppiaggio da premio oscar,difficilmente si riesce nel doppiare un attore non solo con le parole ma anche con delle sfumature espressionistiche e caratteriali del personaggio.
Ambientazione per le riprese esterne bellissime dove i magnifici panorami dei monti innevati fanno da cornice alle riprese in studio dove tutto sembra perfettamente reale.
Gli attori bravissimi con l'affezionato Jackson e Russell in perfetta simbiosi,molto belli i dialoghi tra loro due attraverso i continui cambi di ripresa dei primi piani,truccati marcatamente ,mettendo in risalto la crudeltà della loro indole.Una stupenda fotografia,che crea in un ambientazione rozza,sporca ma essenziale un atmosfera da vero far west.
Per Tarantino è questo il cinema che lo rende fantasioso si cala lui stesso nei personaggi per renderli veri ,il sogno del cinema lo condivide con il pubblico,sembra quasi di stare sul set cinematografico,per lui è fondamentale la recitazione continua,senza mai fermarsi,le parole sono il vero scenario dei suoi film.
Sicuramente Tarantino si deve rinnovare,lo deve ed è in grado di farlo,il suo fascino cinematograficamente parlando forse è arrivato ad un punto di non ritorno,questo film sicuramente buono ma forse pecca di presunzione sia nella durata un po' eccessiva e nella sceneggiatura criticabile nei concetti,con contenuti che rispecchiano si quel periodo,ma che sfuggono nell'attualità di questo momento.
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laurence316
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sabato 29 ottobre 2016
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otto odiosi bastardi pieni d'odio
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Tarantino ritorna quasi alle origini per il suo ottavo film: se si esclude l'ambientazione western, l'impostazione teatrale ricorda molto da vicino l'esordio più di vent'anni prima con Le Iene. Come sempre, il regista non si risparmia, fra citazioni, autocitazioni, umorismo nero e situazioni paradossali, ma quello che più stupisce (e affascina) è l'abilità di Tarantino nel cavare da un soggetto esiguo e per nulla originale, un film lungo quasi tre ore e per nulla noioso, scontato o banale.
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Tarantino ritorna quasi alle origini per il suo ottavo film: se si esclude l'ambientazione western, l'impostazione teatrale ricorda molto da vicino l'esordio più di vent'anni prima con Le Iene. Come sempre, il regista non si risparmia, fra citazioni, autocitazioni, umorismo nero e situazioni paradossali, ma quello che più stupisce (e affascina) è l'abilità di Tarantino nel cavare da un soggetto esiguo e per nulla originale, un film lungo quasi tre ore e per nulla noioso, scontato o banale.
E' forse a tratti prolisso, ma di certo non si ha tempo di annoiarsi, fra dialoghi a mitraglietta, sparatorie e spargimenti di sangue. Anche nei momenti più truculenti e di cattivo gusto, si mantiene una spanna sopra la mediocrità, e in questo è aiutato dalle magistrali interpretazioni degli attori, primi fra tutti Jackson e Goggins, seguiti a ruota da Russell, dalla Leigh e da Roth (nonostante compaia relativamente poco).
The Hateful Eight è film atipico per Tarantino, un mystery à la Agatha Christie mascherato da western, dove sono ovviamente i dialoghi a farla da padrona, dove i personaggi, prima di spararsi addosso, si sentono in dovere di dibattere di giustizia (vera o supposta), di libertà, di legittima difesa, di omicidi legalizzati. L'atmosfera di tensione è sempre più palpabile, e infine The Hateful Eight esplode in un finale in pieno stile pulp.
E' iperviolento, certo, ma di quel genere di violenza a cui Tarantino ha ormai abituato i suoi spettatori, quel genere di violenza tremenda eppure quasi "cartoonesca", per nulla realistica. Il formato Ultra Panavision 70 (usato brevemente fra la fine degli anni '50 e la metà dei '60 e ora riesumato dal regista) è una bellezza per gli occhi, anche se i paesaggi innevati si vedono ben poco lungo la durata del film. Il clima teso e la suspense sono ottimamente aiutati dall'ostinata colonna sonora di Morricone, martellante e, forse, ripetitiva, ma perfetta e incisiva.
The Hateful Eight è un film da prendere o lasciare. Nel caso si scelga la seconda opzione, un film trascinante e affascinante, ironico e autoironico, claustrofobico ed eccessivo, che non risparmia tormentoni irresistibili (la porta che va puntellata) e non si dimentica nemmeno di inserire un macguffin, memore della lezione di Hitchcock (la lettera di Lincoln). Costato 54 milioni di dollari, divide la critica, che lo giudica (a torto) inferiore al precedente Django Unchained, ma è un buon successo di pubblico.
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mrderrickwood
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lunedì 7 marzo 2016
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ottimo film ma poteva impegnarsi di più
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Avete presente la frase "Il ragazzo è intelligente ma poteva impegnarsi di più" che sentivano i vostri genitori durante i colloqui coi vostri insegnanti? Ecco questa frase la applicherei proprio per The Hatefull Eight, ottava fatica di Quentin Tarantino. Non fraintendetemi il film è ottimo su tanti fronti (la colonna sonora composta dal maestro Ennio Morricone soltanto ha vinto l'Oscar) ma alcune scelte di regia mi hanno lasciato perplesso. Il ritmo non è costante e bilanciato,alterna momenti troppo lenti a momenti molto rapidi,e alcune scelte narrative sono troppo eccessive (Quentin,tu narratore che descrivi delle situazioni all'interno della trama non era necessario). La situazione in cui si trovano i personaggi è molto simile a "Le Iene"(Resevoir Dogs per essere più fedeli e anglofili) se non nell'ambientazione western che,tuttavia, riesce a non dare quel senso di "già visto e stravisto".
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Avete presente la frase "Il ragazzo è intelligente ma poteva impegnarsi di più" che sentivano i vostri genitori durante i colloqui coi vostri insegnanti? Ecco questa frase la applicherei proprio per The Hatefull Eight, ottava fatica di Quentin Tarantino. Non fraintendetemi il film è ottimo su tanti fronti (la colonna sonora composta dal maestro Ennio Morricone soltanto ha vinto l'Oscar) ma alcune scelte di regia mi hanno lasciato perplesso. Il ritmo non è costante e bilanciato,alterna momenti troppo lenti a momenti molto rapidi,e alcune scelte narrative sono troppo eccessive (Quentin,tu narratore che descrivi delle situazioni all'interno della trama non era necessario). La situazione in cui si trovano i personaggi è molto simile a "Le Iene"(Resevoir Dogs per essere più fedeli e anglofili) se non nell'ambientazione western che,tuttavia, riesce a non dare quel senso di "già visto e stravisto". Per la componente sanguinolenta e gore secondo me è il film più "sadico" che Tarantino abbia mai girato. Se ad esempio in Kill Bill le uccisioni ci lasciavano trasportare in una sfrenata vendetta omicida in The Hatefull Eight i personaggi provano gusto a uccidersi o a provocarsi tra di loro nella maniera più cattiva e sadica possibile. In conclusione,se questo film lo avesse diretto un regista emergente avrei gridato al capolavoro. Ma appunto perché lo ha diretto il buon Quentin,che mi ha educato con un certo standard di estetica e di stampo autoriale,io non posso che limitarmi alle 4 stelle.
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