writer58
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sabato 23 giugno 2012
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lontani dall'europa...
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"C'era una volta in Anatolia" è un capolavoro a metà. Lo è sicuramente da un punto di vista visivo, con una grandiosa fotografia che pare illuminare anche le sequenze notturne sulla splendida campagna turca e che mette in risalto anche i dettagli più minuti (la barba ispida dei protagonisti, gli alberi scossi dalle folate del vento, l'espressione dei volti, una roccia con graffiti antichi, l'architettura casuale delle cittadine dell'Anatolia); lo è nella preparazione del plot narrativo (tre automobili vagano al crepuscolo alla ricerca del corpo di un uomo assassinato e sepolto da un assassino disposto a rivelare il luogo del suo crimine) che, con ritmi dilatati, segue gli andirivieni del gruppo, composto da un procuratore, un commissario di polizia, un medico, alcuni poliziotti, l'omicida e suo fratello, lungo una geografia notturna fatta di campi di grano, ponti, stradine a stento asfaltate, fari di macchine che proiettano fasci di luce su una memoria ottenebrata dalla colpa e dall'alcool.
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"C'era una volta in Anatolia" è un capolavoro a metà. Lo è sicuramente da un punto di vista visivo, con una grandiosa fotografia che pare illuminare anche le sequenze notturne sulla splendida campagna turca e che mette in risalto anche i dettagli più minuti (la barba ispida dei protagonisti, gli alberi scossi dalle folate del vento, l'espressione dei volti, una roccia con graffiti antichi, l'architettura casuale delle cittadine dell'Anatolia); lo è nella preparazione del plot narrativo (tre automobili vagano al crepuscolo alla ricerca del corpo di un uomo assassinato e sepolto da un assassino disposto a rivelare il luogo del suo crimine) che, con ritmi dilatati, segue gli andirivieni del gruppo, composto da un procuratore, un commissario di polizia, un medico, alcuni poliziotti, l'omicida e suo fratello, lungo una geografia notturna fatta di campi di grano, ponti, stradine a stento asfaltate, fari di macchine che proiettano fasci di luce su una memoria ottenebrata dalla colpa e dall'alcool. Anche i dialoghi tra i protagonisti mi sono parsi "giusti": miscelano ansie quotidiane, interrogativi esistenziali, fatiche del vivere; rivelano aspetti dei personaggi tramite un lavoro di scavo e di cesello che rifugge dalle accelerazioni e dalle spettacolarizzazioni proprie dei film di azione.
Contrariamente ad alcune valutazioni del forum, non ho trovato la pellicola noiosa, anche se il ritmo narrativo è lento e indugia sui particolari. Perché, allora, parlo di "capolavoro a metà"? Perché, nella seconda parte del film (dal ritrovamento del cadavere in poi) la tensione narrativa diminuisce e le premesse non vengono sostenute da un adeguato scioglimento. Il film si "sgonfia" e il finale, più che aperto, è monco, come se il regista avesse interrotto l' opera in un punto casuale del suo sviluppo. Al di là delle interpretazioni poco condivisibili sulla valenza metaforica della pellicola (che rappresenterebbe uno spaccato della Turchia di oggi sospesa tra un passato tradizionale e un presente di modernità e sviluppo), "C'era una volta in Anatolia" appare come un'opera che assembla in modo imperfetto un inizio folgorante con uno scoglimento deludente. E questo non è un limite da poco, considerando le aspettative che (almeno in me)il film aveva generato.
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(di gabrielpiazza)
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tom87
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giovedì 14 marzo 2013
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un'amara allegoria dell'attuale turchia
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Era dai tempi di “Uzak” che non ancora si rivedeva un’opera così potente e rarefatta. Per più di due ore non accade quasi nulla in fatto di trama (le azioni sono sempre le stesse, ripetitive ma emblematiche), ma tanto in fatto di interiorità psicologica dei singoli personaggi. Potremmo dire che la storia di questo anomalo giallo sia stata genialmente presa a pretesto per raccontare ciò che succede nei meandri dell’animo umano; come se la vera indagine dovesse essere quella noir dell’umana natura, dei volti e dei corpi dei personaggi, e non piuttosto dell’oggetto della trama.
Tre auto vagano nel cuore della notte sulle colline dell’Anatolia.
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Era dai tempi di “Uzak” che non ancora si rivedeva un’opera così potente e rarefatta. Per più di due ore non accade quasi nulla in fatto di trama (le azioni sono sempre le stesse, ripetitive ma emblematiche), ma tanto in fatto di interiorità psicologica dei singoli personaggi. Potremmo dire che la storia di questo anomalo giallo sia stata genialmente presa a pretesto per raccontare ciò che succede nei meandri dell’animo umano; come se la vera indagine dovesse essere quella noir dell’umana natura, dei volti e dei corpi dei personaggi, e non piuttosto dell’oggetto della trama.
Tre auto vagano nel cuore della notte sulle colline dell’Anatolia. A bordo ci sono un medico, un commissario, un procuratore, alcuni poliziotti, un assassino e il fratello. Devono ritrovare il cadavere di un uomo assassinato. Purtroppo l’omicida racconta che era ubriaco e non riesce a ricordare dove lui e il fratello abbiano sepolto la vittima. La ricerca continuerà fino all’alba, quando finalmente la salma sarà ritrovata e ogni cosa troverà una spiegazione. Coinvolgono questi uomini che cercano, avanzano, discutono, si fermano, riprendono il cammino. E’ bastata questa semplice trama, tesa e intrigante, un gruppo di bravissimi attori, la magnifica fotografia, i travolgenti paesaggi, gli espressivi primi piani, e ancora, la dilatazione dei tempi, l’incisività della regia, l’inquietudine delle tenebre, i lunghi dialoghi serrati e cechoviani, a far si che quest’opera diventasse un capolavoro premiato a Cannes con il Gran Premio della Giuria, e una pellicola necessaria e importante.
In una messa in scena intimistica; caratterizzata da una Natura maestosa, selvaggia e indifferente che schiaccia i personaggi ma ne riflette anche i loro stati mentali; il regista turco espone un suggestivo affresco politico-etnografico per riflettere su che cosa resta della Turchia di oggi. Una Turchia senza più punti di riferimento e immersa in orrori quotidiani, divisa fra tradizione e globalizzazione; smarrita in una condizione di avanzamento statico e incerto. I tre uomini ne simboleggiano la legge, la scienza e l’ordine in preda a confusioni e fragilità; l’assassino ne simboleggia il passato violento e il morto introvabile la sua conseguenza. Attraverso i dialoghi e le relazioni tra i personaggi, i ricordi e i gesti di ognuno di loro (emozionante la sequenza in cui gli uomini si fermano ad ammirare la bellezza, intravista e illuminata dalla fioca luce di una candela, della figlia del sindaco di un villaggio) il regista descrive il lento e faticoso cammino sociale della Turchia. Il girovagare a vuoto dei personaggi diventa l’allegoria di questo paese, sospeso tra il buio e la luce, tra il bisogno di un ordine e una chiarezza e il tormento di una solitudine privata di morale e sentimento.
Sotto questo aspetto il film è interessante e doloroso, ma anche vitale, perché nel descrivere i limiti esistenziali e umani (raffigurati metaforicamente sia da un’Anatolia sempre identica nel suo arido paesaggio, sia dal sentimento di rassegnazione e stanchezza dei personaggi) il regista non lascia solo disperazione. Nel suo rigore morale lancia anche un invito alla speranza. L’uomo non deve arrendersi, non deve cedere al buio di una notte che non fa distinguere e capire nulla, ma deve costantemente continuare la ricerca. E’ l’unico modo per poter sperare di arrivare ad una piena coscienza di sé e far luce su molte cose di questo mondo…
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pepito1948
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mercoledì 27 giugno 2012
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linguaggio diverso, valori universali
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Il viaggio. Un magistrato, un commissario di polizia, un medico legale, un ufficiale militare ed i loro uomini procedono di notte, in un corteo di macchine, lungo una strada polverosa che serpeggia tra le colline aride e deserte dell’Anatolia, alla ricerca di un cadavere. Il viaggio è faticoso, si moltiplicano le soste, si allungano i tempi ed aumenta lo stress generale. Finalmente appare un paesino sperduto nel niente, dove i viaggiatori possono ristorarsi ed allentare la tensione. Ma l’interruzione dell’elettricità getta nel buio il villaggio. L’unica luce che s’irradia tra i commensali proviene dalle lampade a petrolio e dal viso di una donna che serve il tè, spandendo su tutti un’inattesa soavità.
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Il viaggio. Un magistrato, un commissario di polizia, un medico legale, un ufficiale militare ed i loro uomini procedono di notte, in un corteo di macchine, lungo una strada polverosa che serpeggia tra le colline aride e deserte dell’Anatolia, alla ricerca di un cadavere. Il viaggio è faticoso, si moltiplicano le soste, si allungano i tempi ed aumenta lo stress generale. Finalmente appare un paesino sperduto nel niente, dove i viaggiatori possono ristorarsi ed allentare la tensione. Ma l’interruzione dell’elettricità getta nel buio il villaggio. L’unica luce che s’irradia tra i commensali proviene dalle lampade a petrolio e dal viso di una donna che serve il tè, spandendo su tutti un’inattesa soavità. Il viaggio riprende e finalmente la ricerca giunge a buon fine. Non resta che procedere all’autopsia del cadavere. Alle luci dell’alba il viaggio termina ed inizia il lavoro del medico legale.
I viaggiatori. Messi a stretto contatto per ore e frustrati dalla estenuante ricerca, stentano a trovare un rapporto interattivo fluido. Le differenze di ruolo, di indole, di storia personale emergono creando momenti di conflittualità o di spigolosità, ma, in correlazione al procedere del buio della notte verso il giorno, le frizioni si stemperano, si creano interazioni costruttive, il clima si ammorbidisce. Contingenti alleanze consentono di chiarire episodi della propria vita rimasti irrisolti.
Le donne. Il contesto è prettamente maschile, i discorsi hanno toni e contenuti da uomini, dominano i baffi, i ruoli svolti non ammettono alternative di genere. Ma la vita dei viaggiatori è in qualche modo condizionata dalle donne. Mogli ed ex mogli, viventi o scomparse, ragazze o vedove in fugace apparizione suscitano richiami, nostalgie, rimpianti, suggestioni, e le loro figure, anche laddove invisibili, impongono la loro discreta ma pregnante presenza.
L’autopsia. Tocca al medico chiudere il viaggio investigativo. Da lui dipendono le risultanze e le modalità dell’omicidio. Ma un imprevisto lo pone davanti ad un bivio: dire la verità o scantonare per un nobile motivo. Deciderà secondo coscienza, non senza tentennamenti. Fuori i bambini giocano in un cortile e, lungo la via, un altro meno fortunato bambino, raccolto il pallone, lo rilancia a chi ne è in attesa: negazione, speranza ed invidia si confondono in quel piccolo, significativo gesto.
Il film del turco Nure Bilge Ceylan rivela uno sguardo disinteressato all’indagine e concentrato sulle dinamiche di un gruppo di persone, che, nelle strettoie fisiche (la macchina) e contestuali (la ricerca di un corpo) di un’azione dovuta, si muovono svelando via via interazioni interpersonali inattese ed utili ai personaggi per leggere se stessi e gli altri, tarare comportamenti, svelare misteri, in qualche modo vivere un’esperienza umana. L’azione si svolge quasi in tempo reale e con dovizia di notazioni; un modo di fare cinema agli antipodi di quello occidentale, dove il tempo è fortemente manipolato. Nello sfondo pullulano le contraddizioni tra vecchio e nuovo in cui si dibatte la Turchia odierna, tra deserto muto e città chiassose, riti e computer. Film che, dopo il primo difficile impatto, si fa suggestivo e coinvolgente man mano che emergono lentamente i temi di fondo: l’insita socialità dell’uomo, la solidarietà, l’inganno delle apparenze (i personaggi si rivelano migliori di quanto sembrano), le difficoltà della convivenza familiare, la solitudine. Di complessa metabolizzazione, ma molto interessante.
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marco michielis
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lunedì 9 luglio 2012
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racconterai ai tuoi figli...
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Gran premio della giuria al festival di Cannes, "C'era una volta in Anatolia", diretto dal già più volte premiato in Francia Nuri Bilge Ceylan, costituisce un'autentica sorpresa nel panorama cinematografico mondiale. Il regista turco riesce a dare vita adun poliziesco assolutamente impeccabile nello svolgersi della vicenda, ma soprattutto dipinge i suoi protagonisti come figure assai complesse, connotate da una tragedia legata al passato, la quale fa fatica a emergere, e, di fatto, non si mostra mai chiaramente per tutta la durata della pellicola.
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Gran premio della giuria al festival di Cannes, "C'era una volta in Anatolia", diretto dal già più volte premiato in Francia Nuri Bilge Ceylan, costituisce un'autentica sorpresa nel panorama cinematografico mondiale. Il regista turco riesce a dare vita adun poliziesco assolutamente impeccabile nello svolgersi della vicenda, ma soprattutto dipinge i suoi protagonisti come figure assai complesse, connotate da una tragedia legata al passato, la quale fa fatica a emergere, e, di fatto, non si mostra mai chiaramente per tutta la durata della pellicola. Drammi chiusi in se stessi: così definirei i personaggi di questo capolavoro, i quali, sebbene dialoghino più volte fra loro, non riescono mai a raggiungere il nocciolo della propria amara verità, incomunicabile, eppure bisognosa di essere in qualche modo svelata. Ecco che allora si instaura un contatto estremamente diretto tra felicità (assai rara, ad essere sinceri) e sofferenza, tra vita e morte, assai efficacemente simboleggiato dal vetro di una finestra, che apre e chiude il film. In particolar modo nell'ultima scena, la vita, ovvero i bambini che giocano, e la morte, l'autopsia del cadavere ricercato fin dall'inizio, si affacciano, senza possibilità di conciliarsi, una sull'altra. Grande prova soprattutto dell'attore turco Taner Birsel, che menziono con piacere, e i miei complimenti vanno anche al direttore della fotografia, che compie un lavoro veramente importante sugli effetti luminosi, rendendoli sofisticati e quasi surreali, sullo sfondo delle colline anatoliche che si snodano davanti allo sguardo durante il tragitto notturno. Solo per palati fini.
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donni romani
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venerdì 8 giugno 2012
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c'era una volta... ma la vita non è una favola
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Nuri Bilge Ceylan, già autore del bellissimo "Tre scimmie" torna a mettere in scena le più profonde emozioni umane con questa pellicola, Gran Prix della Giuria al Festival di Cannes 2011. E lo fa attraverso un meccanismo a matrioska, perchè ogni scena ne contiene un'altra, ogni dialogo è propedeutico al successivo, ogni rivelazione contiene i germogli per la rivelazione successiva, che a volte arriva anche dopo un'ora dalla prima. La trama apparentemente è quella di un poliziesco e ci presenta un commissario di polizia, un procuratore e un medico legale che con altri agenti scortano un assassino confesso nel luogo dove dice di aver sepolto il cadavere della vittima. Viaggeranno tutta la notte e dopo aver alla fine scoperto il luogo di sepoltura torneranno in città per l'autopsia.
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Nuri Bilge Ceylan, già autore del bellissimo "Tre scimmie" torna a mettere in scena le più profonde emozioni umane con questa pellicola, Gran Prix della Giuria al Festival di Cannes 2011. E lo fa attraverso un meccanismo a matrioska, perchè ogni scena ne contiene un'altra, ogni dialogo è propedeutico al successivo, ogni rivelazione contiene i germogli per la rivelazione successiva, che a volte arriva anche dopo un'ora dalla prima. La trama apparentemente è quella di un poliziesco e ci presenta un commissario di polizia, un procuratore e un medico legale che con altri agenti scortano un assassino confesso nel luogo dove dice di aver sepolto il cadavere della vittima. Viaggeranno tutta la notte e dopo aver alla fine scoperto il luogo di sepoltura torneranno in città per l'autopsia. Ma la parte poliziesca finisce qui, perchè non sapremo mai fino in fondo le ragioni dell'omicidio, nè ci saranno interrogatori (a parte una sola scena, nel buio della notte, in cui il colpevole viene maltrattato dal commissario esasperato) nè indagini. Ci saranno invece tutta una serie di dialoghi fra i tre protagonisti, il dottore, il commissario e i procuratore, che ci racconteranno le loro vite, le loro delusioni, i loro drammi. Sono dialoghi lenti, fra persone stanche (fisicamente per la lunga notte di ricerche ed emotivamente, ognuno per ragioni diverse e lontane, ma sempre presenti) dialoghi che svelano e raccontano, e contemporaneamente spiazzano, noi e i protagonisti stessi. Perchè nel raccontare loro stessi si confrontano col passato, con il presente, e si scoprono fragili, e sconfitti. E nel giudicare l'assassino, apatico, freddo, distante, hanno mille dubbi a livello umano, e sociale. Lo scambio di parole avviene spesso in macchina, o durante le soste, e Ceylan non ha paura ad accostare tematiche alte e profonde ad altre banali e quotidiane, perciò si passa con disinvoltura dalle considerazioni sulla qualità dello yogurt fatto con latte di bufala alle riflessioni sul mistero della vita e della morte, dalle puntigliose misurazioni per stabilire se il cadavere è seppellito in una regione piuttosto che in altra alla considerazione che a volte si va ancora a lavorare ben oltre l'età della pensione solo perchè ciò che si vive in casa è troppo doloroso (come nel caso del commissario che assiste da anni un figlio malato), dalle battute riguardo la somiglianza del procuratore con Clark Gable di cui ha gli stesi baffi (che si accarezza con vanità lontana dal suo ruolo) alla consapevolezza che il suicidio è una estrema forma di punizione per chi resta. La scena finale dell'autopsia, di un corpo violato e sezionato mentre fuori dalla finestra un gruppo di ragazzini gioca a pallone e la vedova del morto si allontana stancamente con il figlioletto sono ancora una volta testimonianza della volontà del regista di mettere in scena la vita in tutte le sue forme, di mettere a nudo i sentimenti degli uomini, di svelarli fragili al di là dei loro ruoli sociali. La semplice eleganza con cui fa tutto ciò lo rende un coreografo dell'esistenza, artefice di una danza imperfetta in cui ognuno sbaglia i passi, ma proprio nel far questo rende magnifica l'intera rappresentazione scenica. E la vita, così imperfetta, e per questo affascinante - al punto da diventare "Once upon a time...", "C'era una volta..." - è una favola lontana e misteriosa che tutto contiene e tutto restituisce.
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[+] cornuti e mazziati
(di goldy)
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salvatore marfella
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martedì 26 giugno 2012
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film sopravvalutato con alcune pagine intense
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"C'ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA" di Nuri Bilge Ceylan, Gran Premio della Giuria a Cannes 2011. Film suggestivo e intenso, non privo di belle pagine specie nella prima parte, con il pretesto di una indagine poliziesca, racconta le vicende private di alcuni personaggi che scopriranno di essere molto legati gli uni agli altri e di essere non molto dissimili dalla persona arrestata che stanno trasportando. Dopo una prima parte "notturna" molto bella, il film diventa greve e prolisso nella seconda durando almeno mezzora (forse 40 minuti) più del necessario e con qualche pagina irrisolta.
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"C'ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA" di Nuri Bilge Ceylan, Gran Premio della Giuria a Cannes 2011. Film suggestivo e intenso, non privo di belle pagine specie nella prima parte, con il pretesto di una indagine poliziesca, racconta le vicende private di alcuni personaggi che scopriranno di essere molto legati gli uni agli altri e di essere non molto dissimili dalla persona arrestata che stanno trasportando. Dopo una prima parte "notturna" molto bella, il film diventa greve e prolisso nella seconda durando almeno mezzora (forse 40 minuti) più del necessario e con qualche pagina irrisolta. A mio avviso sopravvalutato, mi conferma nell'idea che Cannes 2011 (presidente Robert De Niro) ha premiato i film sbagliati.
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angelo umana
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venerdì 6 luglio 2012
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anime stanche
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“Turchia, esterno notte” … Un convoglio di tre veicoli con una decina di uomini procede lungo una strada polverosa e un temporale incombente, che sembra presagire avvenimenti tragici. In varie tappe il convoglio si ferma, ne scendono l’assassino che deve indicare dove è stato sepolto il corpo di un uomo ucciso, la guardia che lo custodisce in manette, il procuratore che gli altri adulano per una vaga somiglianza con Clark Gable, il suo segretario/cancelliere che scriverà il rapporto del sopralluogo, il focoso commissario della “Polis” Nagy definito, dal procuratore, “tanto fumo e poco arrosto”, un pover uomo col figlio malato che vorrebbe cambiar vita, l’assorto e molto umano medico legale, gli autisti, i due aiutanti coi badili che dovrebbero scavare nel punto della sepoltura, il militare pedante in tuta mimetica esperto di chilometri e distanze … ma nella notte il luogo esatto è difficile da ritrovare.
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“Turchia, esterno notte” … Un convoglio di tre veicoli con una decina di uomini procede lungo una strada polverosa e un temporale incombente, che sembra presagire avvenimenti tragici. In varie tappe il convoglio si ferma, ne scendono l’assassino che deve indicare dove è stato sepolto il corpo di un uomo ucciso, la guardia che lo custodisce in manette, il procuratore che gli altri adulano per una vaga somiglianza con Clark Gable, il suo segretario/cancelliere che scriverà il rapporto del sopralluogo, il focoso commissario della “Polis” Nagy definito, dal procuratore, “tanto fumo e poco arrosto”, un pover uomo col figlio malato che vorrebbe cambiar vita, l’assorto e molto umano medico legale, gli autisti, i due aiutanti coi badili che dovrebbero scavare nel punto della sepoltura, il militare pedante in tuta mimetica esperto di chilometri e distanze … ma nella notte il luogo esatto è difficile da ritrovare.
Il viaggio e le sue tappe ci aiutano a conoscere ogni componente del convoglio, ognuno con la propria piccola storia e dramma, le confessioni di sé che pian piano emergono da queste “anime stanche”. Apprendiamo che quello è un luogo dove ognuno risolve le proprie questioni come può, dove tutti hanno un’arma; apprendiamo pure, dal commissario Nagy, che “un uomo inutile è anche innocuo” e, dal procuratore e dal medico, che qualcuno può togliersi la vita per punire un’altra persona e, ancora, che “ogni cosa ha un motivo e se scritta nel destino, accade”. E’ una notte particolare, di esami che ognuno si fa, con il paesaggio illuminato dai fari delle auto e la vegetazione che ondeggia sotto un vento rabbioso. In una sosta per la cena l’interessante e a volte buffa combriccola è ospite del sindaco di quel paese: in questa riunione c’è perfino il riferimento all’entrata della Turchia in Europa e i piccoli mercanteggi che un sindaco fa per sé e il suo povero paesino. Alla luce del lume vediamo il volto della figlia minore del sindaco, è come l’apparizione bella e silenziosa della purezza e della semplicità, contrapposta ai visi enigmatici di quel gruppo di adulti appesantiti dalle loro storie.
La mattina arriverà e rischiarerà ogni cosa, il luogo della sepoltura finalmente identificato, la soluzione dei misteri che stavano dietro quanto avvenuto, la chiarezza che ognuno sembra trovare dentro di sé. E’ un film tremendamente bello e interessante: tremendi sono i drammi personali e i segreti che sembrano doversi rivelare, interessanti sono i ritratti “indulgenti” di ogni personaggio, le piccole storie di burocrazia raccontate dal sindaco e dall’addetto all’esame autoptico, esame che nulla ha di macabro e con discorsi perfino godibili, belli i visi di coloro che sono formalmente la donna e il bambino dell’uomo ucciso che, chissà, il medico immagina come sua famiglia e approdo (“Tutti pagano per i loro peccati ma i bambini pagano per quelli dei grandi”). Due ore e mezza spese benissimo, anche per il piccolo spaccato di Turchia fornitoci, in compagnia dei personaggi e di un film premio speciale della giuria a Cannes 2011.
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giaspoto
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sabato 14 luglio 2012
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autolesionistico
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Certi critici cinematografici continuano imperterriti a recitare la propria ammuffita particina degli intellettuali che esaltano i film quanto più sono insopportabili . "C'era una volta in Anatolia" ricorda una frase di Oscar Wilde: "Chi usa cinquanta parole per dire quello che si può dire in cinque è capace di qualsiasi delitto". Nuri Bilge Ceylan ne ha usate cinquemila (due ore e mezza di film) per raccontare un nulla da cineforum anni 60, quando di estrapolavano sguardi e frasi non dette per esaltare il vuoto spinto. Mediocre spaccato di vita turca, dialoghi da film francese di trent'anni fa. Assenza di musica e di montaggio, per aumentare l'effetto-verità e infierire sugli spettatori.
Per chi vuole espiare e farsi del male.
[+] e' vero
(di gianbond)
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(di wodkalemon)
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(di brian77)
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(di fabri)
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filippo catani
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martedì 14 agosto 2012
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tre uomini toccati dal dolore
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Nella provincia anatolica un gruppo di poliziotti capitanati da un commissario, il procuratore e con l'ausilio del medico legale cercheranno di fare luce su un omicidio. Gli uomini dovranno prima affrontare un lungo viaggio con l'autore del crimine per trovare il cadavere. Sarà questa l'occasione per i tre di soffermarsi sulle sofferenze che provano.
Il film del turco Ceylan è veramente per coloro che amano un certo genere di cinema: ritmo molto lento, grandi silenzi, numerosi paesaggi e grandi riflessioni esistenziali e introspettive. In poche parole non ci troviamo certo davanti a un thriller come siamo abituati solitamente a definirlo in quanto, con l'avanzare della pellicola, il risolvere il caso lascia spazio alle riflessioni di cui si accennava in precedenza.
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Nella provincia anatolica un gruppo di poliziotti capitanati da un commissario, il procuratore e con l'ausilio del medico legale cercheranno di fare luce su un omicidio. Gli uomini dovranno prima affrontare un lungo viaggio con l'autore del crimine per trovare il cadavere. Sarà questa l'occasione per i tre di soffermarsi sulle sofferenze che provano.
Il film del turco Ceylan è veramente per coloro che amano un certo genere di cinema: ritmo molto lento, grandi silenzi, numerosi paesaggi e grandi riflessioni esistenziali e introspettive. In poche parole non ci troviamo certo davanti a un thriller come siamo abituati solitamente a definirlo in quanto, con l'avanzare della pellicola, il risolvere il caso lascia spazio alle riflessioni di cui si accennava in precedenza. Il commissario mette anima e corpo nel lavoro perchè è troppo il dolore di stare a casa e vedere il figlio malato. Lui e la moglie infatti, per sua stessa ammissione, si chiedono spesso perchè proprio loro siano stati toccati da una simile disgrazia. Anche il procuratore è assillato da un vecchio caso di cui metterà a conoscenza il medico che piano piano lo aiuterà a mettere in luce quanto già in cuor suo il procuratore sapeva ma che voleva negarsi. Ma anche il dottore stesso vive di tormenti e rimorsi tanto che ha deciso di lasciare la città per trasferirsi nella remota provincia. In tutto questo si vede la situazione di poveri villaggi alle prese con la mancanza di elettricità e dalla povertà. Non manca però qualche tocco d'ironia specie grazie ad un pedante gendarme la cui unica preoccupazione è quella di sapere i confini dei vari comuni e giurisdizioni. Certo si arriva alla fine un po' provati ma ne vale davvero la pena.
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gianleo67
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domenica 6 ottobre 2013
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il dolente umanesimo del cinema turco
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In una ventosa notte autunnale, sotto un cielo che minaccia tempesta, i fari accesi di tre auto della polizia setacciano i campi di una località dell'Anatolia alla ricerca di un abbeveratoio nei cui pressi sarebbe stato seppellito il corpo di un uomo che i due rei confessi dichiarano di aver ucciso poche ore prima. Il comandante della locale stazione di polizia,il procuratore ed un medico legale risolvono il caso solo all'alba, quando si profila il senso di una vicenda umana triste e dolorosa che in qualche modo incrocia le loro fallimenentari esperienze personali e familiari.
Immersi nell'estenuante e incessante sibilio del vento che spazza le colline di una sperduta landa rurale e abbacinati dal vivido realismo di una stupefacente fotografia (del misconosciuto Gökhan Tiryaki) il pluripremiato regista Nuri Bilge Ceylan, costruisce con paziente indulgenza una sorta di giallo psicologico che prende le mosse dallo squallore di un banale fattaccio di cronaca nera per trasformarsi ben presto in una sorta di psicodramma collettivo dove, nel baluginante chiaroscuro di una notte da lupi, emergono le tensioni e le dolorose vicende di personaggi alle prese con la indicibile complessità della propria esperienza umana, una lucida e straziata ricognizione nei destini personali di uomini cui tocca in sorte la responsabilità di giudicare altri uomini oltre i limiti angusti e meschini di un mero dovere burocratico.
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In una ventosa notte autunnale, sotto un cielo che minaccia tempesta, i fari accesi di tre auto della polizia setacciano i campi di una località dell'Anatolia alla ricerca di un abbeveratoio nei cui pressi sarebbe stato seppellito il corpo di un uomo che i due rei confessi dichiarano di aver ucciso poche ore prima. Il comandante della locale stazione di polizia,il procuratore ed un medico legale risolvono il caso solo all'alba, quando si profila il senso di una vicenda umana triste e dolorosa che in qualche modo incrocia le loro fallimenentari esperienze personali e familiari.
Immersi nell'estenuante e incessante sibilio del vento che spazza le colline di una sperduta landa rurale e abbacinati dal vivido realismo di una stupefacente fotografia (del misconosciuto Gökhan Tiryaki) il pluripremiato regista Nuri Bilge Ceylan, costruisce con paziente indulgenza una sorta di giallo psicologico che prende le mosse dallo squallore di un banale fattaccio di cronaca nera per trasformarsi ben presto in una sorta di psicodramma collettivo dove, nel baluginante chiaroscuro di una notte da lupi, emergono le tensioni e le dolorose vicende di personaggi alle prese con la indicibile complessità della propria esperienza umana, una lucida e straziata ricognizione nei destini personali di uomini cui tocca in sorte la responsabilità di giudicare altri uomini oltre i limiti angusti e meschini di un mero dovere burocratico. Grazie allo stile personale che da sempre costituisce la cifra di un linguaggio intriso di una profonda umanità, il regista turco ci conduce in una sorta di viaggio 'metafisico' attraverso le steppe dell'Anatolia, nel non luogo senza tempo di una arcaica modernità, alla ricerca di un cadavere e del senso perduto dell'esistenza dove i destini di vittima , carnefici e inquisitori finiscono per incrociarsi nel 'cerchio rosso' di una ineluttabile convergenza, nel tragico determinismo 'Melvilliano'di un insinuante disincanto, trasfigurando così l'apparente banalità del soggetto nella suggestiva cornice di una elegante affabulazione. Questo livello 'simbolico' della narrazione si addentra nella furia degli elementi come lungo il tortuoso cammino dell'uomo di fronte alla crudeltà ed alla fragilità della propria natura (l'assassino piange nel guardare incantato il viso angelico della creatura che gli porge da bere: uno struggimento per la bellezza del mondo che lui ha tradito; il medico indulge in una 'diagnosi' favorevole al carnefice pensando al destino di un figlio senza padre). Penetrante e complesso anche dal punto di vista psicologico vive di uno straziato dualismo tra passato e presente, nel segno di una difficile continuità anagrafica (tra paternità mancata e surrogata), nel tema della colpa lungo il terreno scivoloso di una responsabilità personale verso se stessi e verso l'altro, nel maturo disincanto di un destino crudele e inane. Forse un pò irrisolto nelle eleganti sfumature del sottotesto è comunque un film notevole e di sicuro l'opera migliore del regista turco. Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 64º Festival di Cannes.
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