cinefoglio
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martedì 19 febbraio 2019
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istantanea di the house that jack built
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Presentato fuori concorso a Cannes, dove aveva sconvolto ricevendo fischi dal pubblico, Lars von Trier, assoluto esteta della settima arte, ritorna a scandalizzare il pubblico attraverso la mente malata di Jack.
Come ogni prodotto del cineasta danese, il film suscita, irrinunciabilmente, controversie e pareri distinti: chi inneggiando al capolavoro, chi all’auto-referenza ed il solo gusto del macabro.
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Presentato fuori concorso a Cannes, dove aveva sconvolto ricevendo fischi dal pubblico, Lars von Trier, assoluto esteta della settima arte, ritorna a scandalizzare il pubblico attraverso la mente malata di Jack.
Come ogni prodotto del cineasta danese, il film suscita, irrinunciabilmente, controversie e pareri distinti: chi inneggiando al capolavoro, chi all’auto-referenza ed il solo gusto del macabro. La costruzione della casa di Jack è, prima di tutto, un’esperienza filmica inaspettata e totalizzante. Un’opera profondamente autoriale in grado di attingere, e citare, la filmografia dell’autore stesso, configurandosi come una sintesi del percorso artistico di von Trier.
La presentazione in sala dell’attore protagonista, Matt Dillon, e la sua rassicurazione sul non aver maltrattato né animali né persone nel girato (informazione che ci ha reso tutti più tranquilli e rilassati!) ci ha rivelato che, nonostante fosse un film dalle tematiche forti e noir, la pellicola sarebbe stata impregnata da una densa darkirony. Caratteristica, apparentemente bizzarra, che invece aiuta e movimenta la visione facendo breccia proprio sulla paradossalità delle situazioni.
Le immagini seguono un ritmo concordante ed avverso, in piena mimesi e contraddizione con l’uso, quasi esclusivo della camera a mano. Colmo di ellissi temporali, ad anticipare l’azione successiva, e riavvolgimenti al reverse, quasi pedissequi, degli eventi appena successi.
Animato da apparenti digressioni senza senso, anacronistiche e didattiche (con tanto di immagini in bianco e nero e filmini vintage), ma, a poco a poco, abili nel costruire le fondamenta stesse del pensiero e della filosofia di Jack. Un «castello» ideologico che si fonda, in ultima analisi, nella ricerca di emozioni vive, per un soggetto empatico per definizione. A marcare la progressione (o la discesa nell’inconscio) saranno idee e categorie prese in prestito dalla cultura germanica, come le sublimi parole del sommo poeta am Mein, Goethe.
Il controllo della fotografia è pressoché perfetto, tutto focalizzato a creare un’estetica singolare, fatta di materiale onirico ed immagini iconoclastiche, insieme a momenti di estrema visceralità e crudezza (della carne martoriata e del cadavere in decomposizione).
Ma la Casa di Jack va ben oltre le prime impressioni. Non si accontenta di essere un body-horror, volgare e retoricamente macabro, teso solo all’inseguimento del filo nascosto (incomprensibile, sebbene razionale) di un serial killer, immaginatosi architetto della propria vita.
La pellicola, costruita a tappe di incidenti peculiari, si inoltra in un dialogo interiore (rivolto a noi del pubblico e all’umanità intera), profetico ed in costante affermazione di se stesso. Rompe la barriera della narrazione, lineare o circolare, per dare vita allo specchio dell’anima che lotta, strenuamente, per acquisire la facoltà di controllare la propria vita. Qualità che Jack presume di avere ma, ingenuamente, in un’alternanza di stati emotivi (veicolati da stati omicidi), non possiede. Il fine della sua storia, come ne è stato l’inizio, provvederà a dare un senso alla sua condotta, non lo fermerà nel momento decisivo, ma forzerà l’apertura dei suoi occhi nello scoprire ed ammirare la sua vera natura ed accettare il luogo e lo spazio che tanto ha anelato costruire.
Un prodotto sublime, controverso e non esente da critiche, profondamente autoriale nel momento in cui tutto l’universo concepito dall’autore (nonché sceneggiature) si mostra sul palco luminoso del grande schermo, vomitando l’immagine cruda, e partorita senza compromessi, noncurante della sensibilità del pubblico ma speranzosa possa, quest'ultimo, apprezzarla nella sua interezza.
18/02/2019
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carloalberto
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mercoledì 6 marzo 2019
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una via personale per l'inferno
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La Casa di Jack è un pugno allo stomaco. Come Salò o le 120 giornate di Sodoma di P.P.P. La violenza mostrata è iperrealistica. Tale da far distogliere lo sguardo. Non vorremmo vedere. Eppure il nostro mondo è un macello a cielo aperto, come poetò Lorca in Vuelta a la ciudad (“Tutti i giorni ammazzano in New York quattro milioni di anitre, cinque milioni di porci, duemila colombe per il piacere degli agonizzanti, un milione di vacche, un milione di agnelli, e due milioni di galli che fanno i cieli a pezzi.” – Poeta en Nueva York). A ricordarlo non solo i documentari dei campi di concentramento, con i corpi accatastati l’uno sull’altro, ma l’esposizione artistica e macabra dei trofei di caccia.
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La Casa di Jack è un pugno allo stomaco. Come Salò o le 120 giornate di Sodoma di P.P.P. La violenza mostrata è iperrealistica. Tale da far distogliere lo sguardo. Non vorremmo vedere. Eppure il nostro mondo è un macello a cielo aperto, come poetò Lorca in Vuelta a la ciudad (“Tutti i giorni ammazzano in New York quattro milioni di anitre, cinque milioni di porci, duemila colombe per il piacere degli agonizzanti, un milione di vacche, un milione di agnelli, e due milioni di galli che fanno i cieli a pezzi.” – Poeta en Nueva York). A ricordarlo non solo i documentari dei campi di concentramento, con i corpi accatastati l’uno sull’altro, ma l’esposizione artistica e macabra dei trofei di caccia. Tutto rinvia alla violenza insita nei meccanismi biologici di sopraffazione, appena celati dal velo ipocrita della civilizzazione. Da quando è nato il linguaggio e la falsa ideologica distinzione dell’umanità dalla grande famiglia animale cui appartiene per origine e per destino, la violenza è giustificata sempre da un particolare modo di vedere organizzato da un sistema di potere. Ancora si sente in Campo de’ Fiori l’odore della carne bruciata del nolano Bruno, mentre su YouTube vedi le immagini di uomini sgozzati e decapitati dai fanatici dell’altro monoteismo. Von Trier amplia estremizzando e traduce in linguaggio filmico moderno la morale di Monsieur Verdoux di Charles Chaplin (“in tutto il mondo si fabbricano ordigni sempre più perfetti per lo sterminio in massa della gente e quante donne innocenti e bambini sono stati uccisi senza pietà e magari in modo più scientifico. Come sterminatore sono un misero dilettante al confronto!), ma nel farlo esalta nel protagonista, un notevole Matt Dillon, la personale costruzione dell’inferno, paragonata alla creazione di un opera d’arte, facendogli vestire i panni di Dante accompagnato da Virgilio, interpretato dal grande Bruno Ganz, da poco scomparso. Colori tenui pastello per dipingere a contrasto scene orripilanti nella prima parte, mentre, nella seconda, colori vividi forti come il rosso carminio per scene visionarie, il fiume degli inferi e il sangue dei dannati. Ma Von Trier non è soltanto questo. La massificazione degli individui conservati come le pizze surgelate, i bambini ridotti come pupazzi e tanto altro ancora da scoprire andando a vedere il film, la Casa di Von Trier, che è in eterna costruzione e demolizione, un’araba fenice che risorge dalle sue ceneri per rigenerarsi in un nuovo rogo. Una casa sicura, fredda e rigida come un igloo, che non s’abbatte facilmente e duri il tempo della nostra vita mortale, è, invece, sempre e soltanto il nostro rifugio nelle idee morte e mummificate di chi ci ha preceduto, accatastate o ben intrecciate nella nostra mente a formare una gabbia. Lì potremo trovare, forse, se siamo fortunati, una botola nascosta o una camera segreta, una via d’uscita, e sarà la nostra personale via per l’Inferno.
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cannedcat
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giovedì 28 febbraio 2019
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l'ossessività è il tema
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Il titolo del film è un richiamo ad una filastrocca inglese per bambini,("This is the house that Jack built") qualcosa che somiglia, nella struttura, alla canzone di Branduardi "Alla fiera dell'Est", una susseguirsi di strofe, senza senso, in cui l'elemento principale è l'accumulo, e in sottofondo c'è l'ossessività, come quella che porta a contare di continuo le cose, il disturbo ossessivo compulsivo che porta al perfezionismo maniacale, quello di Jack il protagonista che vuole costruire una casa perfetta che non può essere altro che fatta dei morti che sono un simulacro di quelli che lui avrebbe voluto veramente uccidere: i suoi genitori.
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Il titolo del film è un richiamo ad una filastrocca inglese per bambini,("This is the house that Jack built") qualcosa che somiglia, nella struttura, alla canzone di Branduardi "Alla fiera dell'Est", una susseguirsi di strofe, senza senso, in cui l'elemento principale è l'accumulo, e in sottofondo c'è l'ossessività, come quella che porta a contare di continuo le cose, il disturbo ossessivo compulsivo che porta al perfezionismo maniacale, quello di Jack il protagonista che vuole costruire una casa perfetta che non può essere altro che fatta dei morti che sono un simulacro di quelli che lui avrebbe voluto veramente uccidere: i suoi genitori.
Un'ossessività che ha l'apoteosi nel delitto finale, il perfezionismo che lo porta a superare finalmente la porta simbolica che però lo conduce solo a Verge, alla sua coscienza.
Von Trier aveva già utilizzato la filastrocca in un altro film, "The element of crime", dove una prostituta la canta ad un bambino, come lei rinchiuso in una gabbia (l'ossessione) da cui è difficile uscire senza una cura psicanalitica che vada alle radici di questa nevrosi.
La chiave del disturbo di Jack è nel primo "incidente", la donna esigente e provocatoria, come certi genitori che ossessionano i figli, che finiscono poi per provare verso di loro solo il desiderio di eliminarli dalla propria vita, mantenendo però il desiderio di perfezione instillato dai genitori stessi, che si "fissa" su altri oggetti: la casa da costruire, nonchè i sensi di colpa che portano al desiderio di farsi scoprire e farsi punire, come avrebbe voluto il genitore, spesso però incontrando l'autorità (il padre) simbleggiato da poliziotto che fa solo multe, e che non s'interessa del problema profondo del bambino-Jack.
Perché Jack non è altro che un bambino (la filastrocca) abusato dai sui genitori, nella fase di sviuppo della personalità, non con lodi e premi ma con punizioni e rimproveri, un modo di operare che porta alla nevrosi e ai disturbi ossessivi.
Forrse il regista stesso?
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paolp78
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mercoledì 29 giugno 2022
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provocatorio e disturbante
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Opera molto complessa ed ancor più discutibile con cui il talentuoso autore danese Lars von Trier si cimenta in indagini psicoanalitiche e filosofiche, condendo il tutto con dotti richiami letterari ed artistici. L’opera che ne deriva è tanto ambiziosa quanto confusa e difficile da decifrare.
La cifra stilistica che caratterizza la pellicola è l’ossessiva ricerca dello sgradevole e del disturbante; sembra in effetti che von Trier si sforzi di sfidare il buon gusto, provocando pesantemente lo spettatore nel nome di una libertà artistica che non accetta alcun limite, tantomeno quelli dettati dall’etica e dalla morale.
Il prodotto finale è un’opera cinematografica deformata da questo pervicace desiderio di scioccare ad ogni costo il pubblico, elemento che finisce col penalizzare lo stesso reale valore artistico della pellicola.
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Opera molto complessa ed ancor più discutibile con cui il talentuoso autore danese Lars von Trier si cimenta in indagini psicoanalitiche e filosofiche, condendo il tutto con dotti richiami letterari ed artistici. L’opera che ne deriva è tanto ambiziosa quanto confusa e difficile da decifrare.
La cifra stilistica che caratterizza la pellicola è l’ossessiva ricerca dello sgradevole e del disturbante; sembra in effetti che von Trier si sforzi di sfidare il buon gusto, provocando pesantemente lo spettatore nel nome di una libertà artistica che non accetta alcun limite, tantomeno quelli dettati dall’etica e dalla morale.
Il prodotto finale è un’opera cinematografica deformata da questo pervicace desiderio di scioccare ad ogni costo il pubblico, elemento che finisce col penalizzare lo stesso reale valore artistico della pellicola.
Provando a catalogare l’opera dentro i canoni della cinematografia classica, la si può definire un thriller orrorifico che, seguendo un filone invalso già intorno all’inizio del ventunesimo secolo, propone, con sadico compiacimento, una serie di situazioni in cui un odioso maniaco psicopatico infligge ogni specie di tortura alle sue malcapitate vittime. Il pubblico è costretto ad assistere inerme allo spettacolo e ne resta frustrato in quanto desidererebbe vedere una punizione del carnefice, ma questo naturale desiderio non viene appagato. Insomma un film dalla cui visione se ne esce soddisfatti solo se masochisti.
Tra i riferimenti letterari rinvenibili, quello certamente più esplicito, ma francamente poco convincente, è all’”Inferno” di Dante, mentre nell’assenza di sensi di colpa e nell’impunità dell’assassino, si può forse cogliere una specie di rivisitazione del “Delitto e castigo” di Dostoevskij.
Il difficile ruolo del disumano maniaco protagonista è ricoperto da Matt Dillon, mentre Bruno Ganz, in una delle sue ultime prove, interpreta l’enigmatico Virgilio presente dall’inizio della pellicola come voce fuori campo con cui dialoga col maniaco, per poi mostrarsi soltanto nel finale. Per il resto si segnala Uma Thurman nella parte di una delle vittime, la prima.
Talune sequenze macabre risultano effettivamente disgustose.
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blackredblues
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lunedì 25 marzo 2019
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lars "coverizza" lars.
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Da tempo non recensivo qualcosa. Lars Von Trier è, per il sottoscritto, sempre un buon motivo per farsi sotto. Personalmente tra i vari Lars io ne ho individuati principalmente due. Uno mi piace molto e l’altro un po’ meno. Il primo è dotato di anima. Il secondo (apparentemente) no. Questo film, come anche Nymphomaniac, appartiene al secondo. Spieghiamoci. La storia è quella di…di? Di un serial killer?! Forse, forse no. Forse il serial killer è un pretesto per dire qualcosa di molto personale che esula dalla storia stessa. Forse sì, potrebbe essere così. Nella scelta dei cinque episodi di tortura e massacro delle proprie vittime manca l’emozione, il pathos, la frenesia.
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Da tempo non recensivo qualcosa. Lars Von Trier è, per il sottoscritto, sempre un buon motivo per farsi sotto. Personalmente tra i vari Lars io ne ho individuati principalmente due. Uno mi piace molto e l’altro un po’ meno. Il primo è dotato di anima. Il secondo (apparentemente) no. Questo film, come anche Nymphomaniac, appartiene al secondo. Spieghiamoci. La storia è quella di…di? Di un serial killer?! Forse, forse no. Forse il serial killer è un pretesto per dire qualcosa di molto personale che esula dalla storia stessa. Forse sì, potrebbe essere così. Nella scelta dei cinque episodi di tortura e massacro delle proprie vittime manca l’emozione, il pathos, la frenesia. Manca una storia del personaggio, manca una profondità (anche se con tutto un altro soggetto mi è venuto in mente Spider di Cronenberg e di quanta differenza ci sia). E’ per questo che credo che la storia non narri di un serial killer (nel caso specifico caricaturale, sconclusionato, una sorta di Frankenstein di tanti serial killer condensati in un’improbabile persona sola). Lars cita se stesso (quando farebbe meglio a citare i suoi maestri secondo me), sembra parlare di sé, della sua attrazione per il male e del fascino voyeuristico di starci dentro (senza vivere le cose in prima persona). Bei momenti di tecnica, bell’acting, bei quadri ad olio e citazioni colte. Forse il momento più bello coincide con il finale, qualcosa che risolve e da pace. Perché i due Lars? Perché nel Lars di Antichrist e di Melancholia ci sono (e si sentono potenti) la fobia, l’ansia, la psicopatologia, la claustrofobia, la depressione narrate in modo metaforico e magistrale. Negli ultimi due lavori c’è una certa devitalizzazione, forse troppi stabilizzatori dell’umore e troppi farmaci che comprimono il sentire dell’architetto in una zona grigia fatta di una infausta (ma salvifica almeno in termini di sopravvivenza) normalizzazione dei picchi (in alto e in basso). Come capita (ed è capitato) a tante rock band l’impressione è che Lars, in questo film, coverizzi se stesso quando invece la voglia (almeno la mia) sarebbe quella di vederlo innovare e rinnovare se stesso o al limite tacere godendosi quello che resta del giorno.
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alvise bittente
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mercoledì 5 giugno 2019
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lvt: ovvero l’invidia della grandezza
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LVT: la casetta di jack (ovvero l’invidia della grandezza nella rappresentazione)
di corpo in corpo e di capo in capo …alla fin fine anche glenn gould, hitler e senzameno i cacciatori, in certa ritualità maniacale da trofeo, vedi la dispendiosa caccia contemporanea dei facoltosi tedeschi nello splendido Safari di Ulrich Seidl (2016), sono ingegneri, talentuosi, per carità. Quest’ultimo capolavorocorpo dello scomodo danese è un film demoralizzato, impietoso et intransigente, come solo il comico del ridicolo può essere, che si fa lucidissima denuncia dell’incapacità creativa di una testa da ingegnere, capace di leggere la grandezza ma impossibilitato a realizzarla, fallimento d’artista.
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LVT: la casetta di jack (ovvero l’invidia della grandezza nella rappresentazione)
di corpo in corpo e di capo in capo …alla fin fine anche glenn gould, hitler e senzameno i cacciatori, in certa ritualità maniacale da trofeo, vedi la dispendiosa caccia contemporanea dei facoltosi tedeschi nello splendido Safari di Ulrich Seidl (2016), sono ingegneri, talentuosi, per carità. Quest’ultimo capolavorocorpo dello scomodo danese è un film demoralizzato, impietoso et intransigente, come solo il comico del ridicolo può essere, che si fa lucidissima denuncia dell’incapacità creativa di una testa da ingegnere, capace di leggere la grandezza ma impossibilitato a realizzarla, fallimento d’artista. Dantesca discesa negl’inferi, che si fa liricamente commedia, declinata nemmeno alle profondità, ma a qualche girone più su. Gelosia? Invidia? Se, e sempre, solo dell’arte. Non è con la pulizia maniacale dell’ordine, le matite prima, i mattoni poi, i legni dopo, che costruisci la tua opera d’arte. Deve arrivare Verge virgo la Virgilio, a condurre gl’occhi, la costruzione è già un’architettura, un corpus di corpo in opera, casa di cadaveri. L’architetto regista filma il girone più autentico cerebralcelebrativo artifizio di tutti i suoi film, portando con lucidissima et impeccabile parodia all’estremo il corpore comico dell’estetica del contesto, graziata nelle pose scomposte dei poster(i). Nessuno, forse Linch in altro modo, aveva mai fatto un teorema così brillante sul negativo, cioè sull’oblio oscuro della luce, sul bianconero, sull’impossibile demenza manipolatrice della tecnica di diventare arte. Non basta l’ingegno, ma basta cambiare la scatola e il gioco dentro si scamicia di forza e una lavata di pioggia deterge qualsiasi traccia, tranne quella di un profondo dolore del fallimento, di quello che non potrà mai essere iconoclastia, ma nemmeno icona. Film senza càtarsi, perché rinchiuso per dirla alla freud nel girone della siddetta fase anale, dove si può implorare logorrea, ma a salvarti non arriva nessun supereroe, e senza seno del già, ti ritrovi sfacciatamente negl’inferi sul tetto del ghiaccio che scotta.
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lucio di loreto
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martedì 9 luglio 2019
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le sgradevoli ossessioni di lars
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La Casa di Jack è l’esaltazione della pazzia, che ha coinvolto uno dei migliori geni della macchina da presa, buttandolo così in pasto a critiche (meritate) ipocrite di festival ad hoc, rendendo un regista da sempre ricco di originalità come un fenomeno da baraccone che deve colpire sempre e in ogni situazione. La lunga assenza dai grandi schermi non giustifica un rientro così grottesco e sgradevole, dove la sceneggiatura è un optional e viene sostituita da una infinita serie di storielle che il protagonista, un Matt Dillon tanto lodevole per impegno ma talmente fuori luogo da ergersi a macchietta, racconta per giustificare i suoi crimini, con frasi innocue e incaute durante ad esempio l’uccisione dell’intera famiglia, che danno all’animo di Jack non il senso voluto di ossessione e compulsione, ma un atteggiamento da serial killer quasi comico.
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La Casa di Jack è l’esaltazione della pazzia, che ha coinvolto uno dei migliori geni della macchina da presa, buttandolo così in pasto a critiche (meritate) ipocrite di festival ad hoc, rendendo un regista da sempre ricco di originalità come un fenomeno da baraccone che deve colpire sempre e in ogni situazione. La lunga assenza dai grandi schermi non giustifica un rientro così grottesco e sgradevole, dove la sceneggiatura è un optional e viene sostituita da una infinita serie di storielle che il protagonista, un Matt Dillon tanto lodevole per impegno ma talmente fuori luogo da ergersi a macchietta, racconta per giustificare i suoi crimini, con frasi innocue e incaute durante ad esempio l’uccisione dell’intera famiglia, che danno all’animo di Jack non il senso voluto di ossessione e compulsione, ma un atteggiamento da serial killer quasi comico. Diventano a loro volta ridicole anche le sue vittime, che non si tolgono i cappellini rossi nemmeno quando devono nascondersi da lui, che “abboccano” ai suoi metodi in modo alquanto bizzarro, facendosi prendere le misure delle parti intime, rinchiudere in gruppo dentro celle frigorifere o farsi ammaliare da storie da finto poliziotto prima e da agente assicurativo poi accorgendosi sempre troppo tardi della fiducia data ad un uomo che sembra (volutamente?) psicopatico al primo sguardo. Non c’è in pratica nessuna idea artistica e nelle interminabili due ore e mezza di trash (nel senso più brutto del termine) le divagazioni di stile sono troppe e affogano le poche intuizioni esistenti. Questo viaggio nello splatter Tarantiniano, mantenendo però allo stesso tempo il proprio stile minimalista, è un flop pazzesco, dato che la sua di violenza, a differenza di quella del vero maestro sui generis, non è per nulla efferata, le uccisioni sono programmate e compiute male e la cinepresa non ottiene nessun climax sperato. Il film arriva ad essere un triste esempio di “morte al lavoro”, con le sequenze degli omicidi buttate lì senza perizia o finezza alcuna, cercando di recuperare e abbellire il tutto con delle patetiche autocitazioni troppo didascaliche, fino a giungere all’esilarante epilogo di “Dante Dillon” e “Verge Ganz”! La pellicola non è altro che una progressione del lutto, dei limiti della libertà e del male già scavati da “Antichrist” in poi! Come in Nymphomaniac inoltre anche qui il protagonista si racconta all’anziano navigato, ma la censura troppo ironica di quest’ultimo fa perdere di credibilità l’idea originale. Scritto, sceneggiato e diretto in tempo per andare a Cannes, anni dopo le frasi ad effetto giudicate filonaziste, questo lungometraggio è andato a sbattere contro un muro invalicabile, quello di chi deve provocare a tutti i costi rischiando così il fallimento epico, che rimarrà indelebile in un curriculum altresì più che dignitoso.
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luca scialo
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domenica 22 marzo 2020
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la violenza umana, tra misoginia e riferimenti colti
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Dopo aver spiazzato il pubblico con Nymphomaniac, apologia del sesso, Lars Von Trier prova a scuotere nuovamente pubblico e critica con un film sulla violenza umana. Incarnata nel folle Jack, serial killer autore di oltre 60 omicidi efferati. Con questo film, il regista danese, mai banale e alla ricerca di sempre nuovi limiti da varcare, tratta a modo suo della violenza cui è capace macchiarsi l'umanità nel corso della sua storia. Con scene violente intervallate da ripetuti riferimenti colti ad opere architettoniche e pittoriche. A loro modo anch'esse raffiguranti un lato oscuro e un represso simbolismo violento. Il che rievoca il fare colto di un altro criminale del cinema per antonomasia: Hannibal Lecter.
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Dopo aver spiazzato il pubblico con Nymphomaniac, apologia del sesso, Lars Von Trier prova a scuotere nuovamente pubblico e critica con un film sulla violenza umana. Incarnata nel folle Jack, serial killer autore di oltre 60 omicidi efferati. Con questo film, il regista danese, mai banale e alla ricerca di sempre nuovi limiti da varcare, tratta a modo suo della violenza cui è capace macchiarsi l'umanità nel corso della sua storia. Con scene violente intervallate da ripetuti riferimenti colti ad opere architettoniche e pittoriche. A loro modo anch'esse raffiguranti un lato oscuro e un represso simbolismo violento. Il che rievoca il fare colto di un altro criminale del cinema per antonomasia: Hannibal Lecter. Non manca però anche una non poca velata messa alla berlina della polizia, che più volte avrebbe potuto fermare Jack e non ci è riuscita. Così come le vittime raccontate siano principalmente donne ingenue. Il che potrebbe facilmente far accusare Von Trier anche di misoginia. Il finale dantesco, dalla forte espressività, non riesce a chiudere il cerchio di un film sostanzialmente violento che non riesce a scavare nella psiche del personaggio. Come invece accade per esempio ne Il silenzio degli innocenti. Almeno nel precedente lungometraggio, il lato psicologico era riuscito a venir fuori, forse perfino a prevalere su quello fisico. Malgrado il tema trattato. La pellicola quindi finisce per essere relegata a mera provocazione. E la disumanità, più che disapprovata, finisce perfino per essere esaltata.
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andrewlecce
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lunedì 4 marzo 2019
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dietro la macchina o dietro la cattedra?
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Non so se tra i tanti errori consentiti a un genio ci sia anche quello di cadere nello stereotipo di se stesso. L'unico, vero problema de "La Casa di Jack" consiste nell'essere esattamente ciò che lo spettatore con meno immaginazione sulla faccia della terra si aspetterebbe da un film su un serial killer girato da Lars Von Trier, mentre chi lo conosce e lo apprezza è abituato ad aspettarsi tutto da lui, meno che la prevedibilità. Di sicuro è il suo film più egocentrico: Lars c'è tutto, forse pure troppo, tanto che l'autocitazione sconfina spesso nell'autocelebrazione (ora vuota, ora persino risibile: c'è addirittura una sequenza, animata dalla voce fuori campo, che raccoglie piccoli spezzoni dei suoi film precedenti).
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Non so se tra i tanti errori consentiti a un genio ci sia anche quello di cadere nello stereotipo di se stesso. L'unico, vero problema de "La Casa di Jack" consiste nell'essere esattamente ciò che lo spettatore con meno immaginazione sulla faccia della terra si aspetterebbe da un film su un serial killer girato da Lars Von Trier, mentre chi lo conosce e lo apprezza è abituato ad aspettarsi tutto da lui, meno che la prevedibilità. Di sicuro è il suo film più egocentrico: Lars c'è tutto, forse pure troppo, tanto che l'autocitazione sconfina spesso nell'autocelebrazione (ora vuota, ora persino risibile: c'è addirittura una sequenza, animata dalla voce fuori campo, che raccoglie piccoli spezzoni dei suoi film precedenti). Ci sono tutti i tratti distintivi del suo cinema, portati all'eccesso, ma senza ciò che ne ha sempre decretato la genialità. C'è la storia di una discesa agli inferi, ma senza la portata innovativa e distruttiva di "Dogville"; c'è la studiata architettura narrativa di una tensione crescente, ma senza il ko tecnico del finale di "Dancer in the Dark" ; c'è l'estetica della morte e dell'orrore, ma senza gli eccessi di "Antichrist" (né tantomeno la perfezione del suo prologo); c'è l'allegoria - la rivelazione della cui matrice dantesca, nel finale, diventa davvero troppo didascalica - ma senza la visionarietà di "Melancholia"; e via dicendo... Resta di positivo la sua mano registica inconfindibile, il suo algido sguardo da entomologo che qui anatomizza acutamente la devianza omicida (ah, di positivo ci sono pure le ritrovate fattezze originarie di Uma Thurman - sempre da f*ga stratosferica - dopo la devastazione facciale per qualche intervento sbagliato ritratta dai giornali un po' di tempo fa). Più che le scene di uccisioni, mutilazioni e squartamenti vari, a far stringere davvero il cuore è la breve ma incisivissima interpretazione-testamento del grande Bruno Ganz, venuto a mancare da pochi giorni, mentre presta il volto al "suo" Virgilio.
Forse, però, l'aspetto più interessante del film è proprio la visione, da parte del protagonista, dell'omicidio come opera d'arte. E l'artista Jack ha non pochi tratti in comune con l'artista Lars : esteta maniacale, quasi malato di autocompiacimento, ossessivo-compulsivo, perfettamente conscio e paziente illustratore dei propri riferimenti culturali (in questo film più che mai - anche troppo, è bene ribadirlo). Che il buon Lars stia cercando di dirci qualcosa? 😏
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