Il titolo originale è HAEVNEN, Vendetta, che richiama il suo presupposto, cioè la violenza. Un disvalore che sembra aver invaso qualsiasi società, anche la più apparentemente avanzata e progressista dell'Occidente come quella nordeuropea (l'azione si svolge in Danimarca), e che, al di là delle forme e dei contesti, non è poi così lontana dalla brutalità quotidiana che appesta alcuni Paesi africani, dove si uccide e si sventrano donne incinte per pura scommessa.
La primordiale reazione alla violenza è appunto la vendetta, tema cardine del film diretto da Susanne Bier, regista con un passato da Dogma poi ritornata al cinema convenzionale. La vendetta è la pulsione che ha ispirato interi filoni cinematografici (basti pensare al genere western e non solo) ed ha affascinato, trascinato e coinvolto da sempre masse sterminate di spettatori in tutto il mondo. Perchè questo? Appunto perchè essa è la prima, immediata e spontanea risposta che sgorga dall'Io rispetto ad un'offesa subita. Solo con il sorgere di collettività organizzate in modo centralistico questa risposta è stata avocata dallo Stato e trasformata in "giustizia", ma sempre con qualche riserva inconscia da parte dei singoli, che infatti emerge o prorompe in occasione dei grandi fatti di sangue mostrando il lato peggiore dell'uomo. Alcuni Stati, ieri ed oggi, sono arrivati a normativizzare la vendetta ispirata alla legge del taglione, nonostante l'affermarsi ed il dilagare di dottrine etiche o religiose imperniate sul perdono o sul "porgi l'altra guancia".
Nel film la vendetta non è trattata per conquistare istintivamente lo spettatore alla causa (generalmente il ripristino di un valore violato) del vendicatore, che peraltro qui è un adolescente chiuso nella sua impenetrabilità pietrificata dalla morte della madre e dall'odio verso il padre impotente ed assente; è evidenziata nella sua ambiguità attraverso elementi narrativi che interessano due piani collegati, i genitori ed i figli, tra i quali il rapporto, nei Paesi nordici come altrove, è spesso problematico e difficile. Tra gli adulti un padre che subisce una violenza fisica da un energumeno non reagisce secondo la stessa modalità, fornendo un esempio comportamentale diversamente interpretabile (viltà o rifiuto di inciviltà?), e quando prova a convincere con argomentazioni verbali il suo offensore dell'errore di quella azione rischia di essere ulteriormente colpito. Dai figli (quello del padre offeso ed il suo compagno di scuola orfano di madre che lo libera dalle angherie di un bullo) la mancata "lezione" all'aggressore non viene accettata ed innesca un'alleanza tra debole e forte, tra perdente e vincente (rapporto che alla prova dei fatti si invertirà) che spingerà entrambi verso la vendetta. Ma lo scellerato progetto non riesce, e l'esempio del padre ritenuto inadeguato assumerà ben altro senso agli occhi dei due ragazzi, che dopo questa esperienza non saranno più quelli di prima. Tuttavia, in una società dove serpeggia nella sua multiformità la violenza da chiunque esercitata è sempre giusto o utile astenersi da una reazione diretta e non ad altri delegata finalizzata a compensarne gli effetti? Questo è il dubbio che la Bier lascia intravedere, nonostante il lieto fine: il padre vittima della violenza manesca fa il medico in un ospedale da campo africano, e quando vi giunge un torvo boss squartatore di grembi femminili sofferente per una brutta ferita, lo cura per dovere professionale ma non fa nulla per sottrarlo all'ira vendicatrice della folla esasperata da delitti e turpitudini. Il transfert di identificazione (come l'assunzione della responsabilità morale) è evidente, così come quello assolutorio dello spettatore verso l'autore dell'"omissione di soccorso".
Non aggiungo nulla sugli altri temi affrontati, dalle incomprensioni intergenerazionali e coniugali, alla difficoltà dell'elaborazione del lutto, al bullismo, già abbondantemente altrove trattati. Il film è tutto spostato dalla parte maschile, visto che gli uomini ed i ragazzi sono i veri artefici della storia, con tutte le loro debolezze (molte) e virtù (poche). Il finale appare un po' scontato e convenzionale, con la compresenza sapientemente miscelata di eroismo, intervento salvifico e redenzione.
Qual è il mondo migliore del titolo italiano? Per contrasto quello in cui tutto ciò che è narrato o mostrato non abbia posto, dove la violenza e la conseguente vendetta siano banditi, dove gli esseri umani rifiutino di farsi allontanare dalle proprie diversità e si lascino attrarre dalla comprensione reciproca. Dove non si diventi come ragni solitari, in attesa di aggredire per nutrire se stessi cioè la propria rabbia, arroganza, infallibilità, e ci si senta come formiche, a stretto contatto, pacifiche, egualitarie e solidali, come le ultime inquadrature simboliche tratte dal mondo della natura sembrano suggerirci.
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