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Exotica, fin dal titolo, allude a un mosaico dell'anima che rimanda a Kieslowski e ad Antonioni. Al primo per il modo in cui i destini dei personaggi si incastrano in un quadro di esistenze frammentarie, dolorosamente irrisolte; al secondo per la ricercatezza cromatica e l'accanimento estetico con cui le solitudini dei protagonisti sono messe in scena(non a caso Egoyan fu scelto come regista di supporto per il film che Antonioni avrebbe dovuto girare dopo Al di là delle nuvole). Ma, tralasciando gli accostamenti ingombranti, il film di Egoyan segue con coerenza delle traiettorie care al suo autore, al quale si addice la rappresentazione di percorsi esistenziali che sfociano in raggelanti vuoti emotivi, amplificati dalla cornice metropolitana che fa da sfondo alla storia. La trama ruota intorno al locale del titolo, un club che è insieme luogo di raffinate perversioni e scambi erotici cerebrali dov'è permesso guardare ma non toccare, quasi a sugellare un patto tra il regista e gli spettatori che assistono al disfacimento dei personaggi attraverso una rappresentazione rarefatta e controllatissima, come se tutta l'azione(o inazione) si svolgesse dietro la teca di un acquario. Ed è metaforicamente nell'acqua, evocata dal titolo e dalle suggestioni fotografiche, che sembrano ritratte con profondità le pulsioni e gli struggimenti proposti dal copione che, in una sorta di girotondo Schnitzleriano, fissa in una desolata cornice il sorprendente epilogo.
Tutto i destini messi in gioco finiscono per galleggiare in un sorta di limbo che rimanda al successivo capodopera del regista, Il dolce domani. Ma, nella raffinta e lancinante ragnatela raffigurata dal film, non c'è innocenza da salvare o alla quale appellarsi. Matteo De Chiara
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