Sentieri selvaggi

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Un film di John Ford. Con John Wayne, Natalie Wood, Ward Bond, Jeffrey Hunter, Vera Miles.
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Titolo originale The Searchers. Western, durata 119 min. - USA 1956. MYMONETRO Sentieri selvaggi * * * * - valutazione media: 4,34 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Torniamo a casa Debbie... Valutazione 5 stelle su cinque

di Vincenzo Carboni


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giovedì 2 giugno 2011

 Sentieri selvaggi… Il titolo risuona araldico, nella ellissi della una ricerca di una bambina intorno al buco creato dal massacro dei Comanchi Noyeki. Il Reale come accadimento, come evento nucleare, nell’etimo dell’infinitamente piccolo che allarga il proprio centro all’infinitamente grande nella sua deflagrazione, crea il buco nero, selvaggio e incapace di mediazione, di negoziazione con l’altro, che può avvenire solo per scambiare una donna con un cappello, un cavallo per onorare l’orgoglio di un grande capo. Nell’incontro tra Ethan e Scar il duello mortale si prefigura con le parole che malgrado la reciproca e blandita conoscenza della lingua dell’altro non permettono un riconoscimento (“Parli bene per essere un bianco”, e viceversa: “Non c’è male per un indiano”). La possibilità del dialogo –seppure sospeso- tuttavia permette la tregua (Cito a memoria: “Perché non ci ha attaccato li?” chiede Martin; “Sarebbe stata una scortesia” risponde Ethan), e la possibilità per ciascuno di rilanciare le proprie ferite (anche Scar ha avuto sacrificati due figli uccisi dai bianchi), di contrapporre il proprio buco contro quello dell’altro. Le ragioni di ciascuno -come il viaggio dei due searchers- percorrono vie oscure, misteriose, ma segnate come una pista che non si lascia cancellare dal vento e dalla pioggia. Nessuno lascia che le ragioni dell’altro depositino dentro sé le loro radici in modo tale da far germogliare le parole del perdono e della pietà. Anche Ethan è senza occhi, ed è costretto per questo ad essere portato dal vento in eterno, come un comanche che muore cieco. Lo sguardo di Ethan si pietrifica nella visione della fattoria distrutta, e prima ancora –mentre asciuga il sudore al proprio stremato cavallo- nella visione di quello che inevitabilmente accadrà (Come farà a resistere nell’attesa? Come ingannerà l’angoscia? Ho sempre pensato che ha avuto la santa follia di Mose Harper a cui aggrapparsi). Il terzo sguardo è quello celeberrimo dell’inusuale per Ford rapido carrello in avanti sul volto smarrito di Ethan-Wayne (dopo quello sul volto atterrito di Lucy presa improvvisamente nella visione di ciò che accadrà), a guardare cosa? Qualcosa che ha a vedere con l’orrore konradiano forse. Ma se Kurtz ne rimane schiacciato, impietrito, accecato (esito certo per chi fissa troppo a lungo il volto della gorgone), Ethan se ne fa scudo con la propria eroica certezza ontologica, e –protetto dall’ombra della falda del monumentale cappello a scrutare la verità di donne bianche non più bianche- può gettare lo sguardo sull’orrore dell’alienazione di sé, di quella dell’altro, in cui può accadere che la fiducia nei più teneri sentimenti che promette il domani, può rovesciarsi in una ontologia dell’uomo bianco come macchina, tale da porsi l’esclusivo scopo di annientare l’altro da sé, il suo ecosistema (la carne di bisonte), la sua stessa anima (lasciarlo vagare al vento). Ecco allora Ethan poter solo osservare dal di fuori la tenerezza domestica (Marta che depone il cappotto di Ethan nel baule accarezzandolo come fosse la pelle di un bambino, o suo fratello che chiude la porta della sua camera da letto con dentro Marta ad aspettarlo, come se si trattasse di un diritto che non gli appartiene). Ford –afferma Curtis Hanson- ti costringe ad usare la tua stessa immaginazione, per dare un senso ai buchi della narrazione che il regista stesso crea, quasi fossero analoghi dei buchi del Reale ma addomesticati, essa stessa la narrazione un unguento sopra una ferita di verità che può così sperare di rimarginarsi. Ecco che ci chiediamo: perché Aaron non è così felice dell’arrivo del fratello? Come mai tanta tenerezza tra Ethan e la cognata Martha (Clayton stoicamente guarda fisso in avanti facendo finta di niente mentre beve il caffè. Evidentemente Martha amava Ethan prima di Aaron, ma il carattere ribelle di Ethan non era fatto per il matrimonio)? Perché Aaron non fa una grinza quando il fratello gli sbatte in faccia le monete per pagare il suo soggiorno? E perché mai sente di dover pagare per stare dal fratello? Nessuna scena cinematografica mi commuove come quella in cui Debbie prega con una circonlocuzione ingenua e infantilmente astuta suo zio di regalargli una collana, sollevando una questione di giustizia che come tale non può non essere ascoltata (sua sorella ha avuto dallo zio una collana che le fa il collo nero: perché a lei no? A lei non importerebbe che le facesse il collo nero). La collana che le regala è un’onorificienza che non ha più valore per lui, e Debbie: “Che bello una collana anche per me”. Quella collana-medaglia per un lavoro mercenario (si intuisce che Ethan dopo la guerra fugge a fare il soldato altrove) tornerà ancora come fosse un messaggio in cerca del proprio destinatario tra i tanti, con la piccola Debbie come portalettere: troveremo la medaglia al collo di Scar, per vedere mutato il suo valore simbolico da riconoscimento affettivo (un bacio eterno al collo di sua nipote, o –perché no?- di sua figlia) ad amuleto in grado di rilasciare a chi lo porta il valore dell’uomo odiato e temuto-ammirato. Sta per lo scalpo che Scar vuole prendere a Ethan per impadronirsi delle sue virtù guerriere (spalle larghe), cosa il cui esito rovesciato avrà per il capo indiano il sapore postumo dell’ironia. Ma l’alieno e l’umano si contagiano, l’odio contagia l’amore, il bianco contagia il rosso e viceversa, e la resistenza a questo contagio è la furia cieca di Ethan, perfino di fronte alle spaurite superstiti bianche dell’assalto al villaggio indiano. Nell'omonimo romanzo di Alan Le May la ragazza a cui si ispira Debbie pare sia stata salvata dal fuoco dell’esercito dal fatto di avere gli occhi chiari: ecco il riconoscimento –che tuttavia non vale una appartenenza- che malgrado tutto Ethan non attribuisce: “Non sono più bianche. Considerale morte!”. Ma in fin dei conti anche Ethan non è più bianco, non sa più chi è nello spossessamento identitario che arriva a fare di lui una macchina di distruzione, perfino –fino a prova contraria- della sua amatissima nipote (insisto: figlia?), la figlia della sua amata Martha. Ecco il legame di sangue, il potere dell’uomo bianco, ecco ciò che con fredda e paziente determinazione permette di perseguire uno scopo. Si tratta di un affetto che non si è compiuto (l’amore verso Martha), e di uno che è stato reciso (la pietra tombale dietro la quale Debbie tenta di nascondersi riporta un'iscrizione che rivela il motivo dell'odio che Ethan nutre per i nativi americani: Qui giace Mary Jane Edwards uccisa dai Comanche il 12 maggio 1852. Una brava moglie e madre nei suoi 41 anni). Gli indiani inseguono qualcosa finchè credono di averla seguita abbastanza –dice Ethan- poi la piantano, lo stesso succede quando fuggono. Non si rendono conto ci possa essere qualcuno che continua ad inseguire la sua preda, checioè persegua il soddisfacimento impossibile del desiderio, di una mancanza che per un Comanche è strutturale, naturale, ossia connaturata alla propria esistenza di uomo, tale che è disposto ad accettare la morte come la vita, nella sua ferocia e nella sua generosità. Per un bianco non è così evidentemente. Si segue la preda finchè questa non è tanto stanca da abbassare la guardia. In questo senso Ethan oppone il suo essere macchina all’essenza naturale benché feroce di Scar, perdendo la propria identità, confondendosi con quella di Scar senza però assumerla, alla faccia di ogni dannata ontologia. Ethan non ha religioni, le conosce entrambi, ma non ne abbraccia nessuna. Ma della religione della sua razza, una cosa trattiene ed è il perdono. Può perdonare Debbie per essere stata violata, come lui lo è stato un tempo, e può perdonarla perché alla fine di tutto perdona a sé stesso. Le perdona qualsiasi cosa: “Torniamo a casa Debbie”. Torniamo a casa anche noi, alle nostre strutture… Il tempo favorisce gli artisti, il tempo è il solo vero criterio –dice Curtis Hanson- con cui si può giudicare l’arte. Quest’opera senza tempo, senza spazio, senza oscar, immensa come la Monument Valley, non smetterà mai di essere vista, perché dentro c’è qualcosa di noi che guardiamo e che ci inghiotte come in una corrente fredda e calda insieme. Certamente non tiepida. Certamente selvaggia.

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