Neve rossa

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Bianco, nero, rossso! Valutazione 4 stelle su cinque

di Vincenzo Carboni


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sabato 25 giugno 2011

 C’è un uomo che vede (Jim), e vede macchie rosse su tutto quello che tocca. Ne rimane accecato, da quell’orrore, fino a non riconoscere più sé stesso. E c’è una donna cieca (che quindi non può rimanerne accecata), tanto cieca da poter conoscere il mondo senza la dominazione dello sguardo. Lo sguardo è dominazione per Jim e Brent, tanto da esserne dominati (cercare tracce, ombre che fuggono, luci che si accendono e poi si spengono). Ma si domina un mondo bicromatico, che a volerlo penetrare, sfondare con lo sguardo per vedere meglio, se ne ha solo scale di grigi, quindi la stessa povera informazione, qualcosa che torna all’occhio senza un plus di conoscenza. La morte arresta la corsa dei due fino al limite ultimo, e finalmente permette di vedere che il fuggiasco è solo un ragazzo, che la malattia è il mostro e non colui che ne è il portatore. L’informazione povera è il bianco e nero del film (impastato, mischiato come su una tavolozza, una sorta di scuro ‘trucolor’ ante litteram, quasi una prigione cromatica tanto da credere che anche i personaggi del film non possano che vedere a loro volta in bianco e nero, in una cosmogonia dove un demone abbia rubato al creato i colori), dove tutto è notte, perfino il giorno, e dove il colore del sangue è nero su nero (nella metropoli notturna il sangue non si scorge ma c’è), e nero sul bianco della neve. Sullo sfondo immacolato della campagna innevata quelle macchie scure alludono ad una interruzione visiva, cui fa seguito uno stordimento che prelude ad una incertezza, tanto che la neve sembra essere quasi lo schermo cinema, il bianco su cui verranno proiettate le ombre, i simulacri degli oggetti che si agitano tremolanti ed incerti davanti agli occhi sulla cui superficie è sceso un sipario lattiginoso. Il sangue non sosta sulle mani (Jim che si asciuga torturandosi le mani con il panno), Jim non può vederlo ma ne avverte la presenza: ecco l’impossibile compromesso tra il fondersi con l’oggetto dello sguardo, quasi affogarci dentro, per cui il problema dei detective è continuare a tenere a vista la preda in modo da alimentare l’eccitazione della caccia, e l’oggetto che si fa presenza, che è disponibile ad essere conosciuto, che si offre ad una conoscenza che non può che essere cieca, pena il proprio annientamento. La realtà non buca gli occhi di Jim, ma li circondano di inquietudine in quanto Jim non riesce a fermarla, quella realtà; Mary piuttosto ha gli occhi bucati dalla necessità di fidarsi di tutti, di essere poca cosa, di consegnarsi all’altro e al suo messaggio, inerme, e lasciarsi proteggere proprio dal sintomo di suo fratello che non sa leggere lo sguardo dell’altro, di quella bambina che smette di ridere, che non vuole sorridergli. L’assassino e Jim hanno questo in comune, più della violenza di cui sono vittime e carnefici: non poter avvicinare la paura nello sguardo dell’altro, preferendo essi stessi essere la paura che annienta l’altro e nell’altro la propria. Questa regressione emotiva troverà per entrambi una sponda pietosa in Mary, che mancando di reagire, proclamandosi essa stessa inerme e innocente (da non vedente non può essere lesa nello sguardo, accecata più di quanto non sia), restituisce l’emozione violenta permettendo così di renderla visitabile attraverso lei, e offrire così momenti di pace. C’è una pace eterna che si non si può non accettare, quella di Danny e della bambina uniti ora –carnefice e vittima- grottescamente sotto lo sguardo di dio, e una pace da costruire come una forma di corrispondenze disposte ad abbracciarsi ma così… senza quasi cercarsi. Da non vedente Mary “… non ha mai avuto paura di niente”, ora con una prospettiva contro cui allungare lo sguardo cieco (guardare Jim e da lui essere guardata), Mary ha paura («La prego se ne vada»). Ora non vuole più essere vista, sentire il desiderio di lui sulla pelle diafana degli occhi. Il desiderio con quali sensi vede? Da ciechi si può essere al riparo dal desiderio? Per Jim quello sguardo cieco su di sé è un sollievo perché sospende la sua identità simbolica (essere un poliziotto, e quindi per necessità un duro), ma anche immaginaria perché così facendo ha la facoltà di non vedere riflesso nell’altro il suo (cieco) furore. In Mary può vedere riflessa solo una immagine muta, il proprio IO che ha bisogno di essere toccato più che di essere veduto (si lascia avvolgere la grande testa dalle piccole mani di lei). Si nasce ciechi, e in questa regressione quasi neonatale Jim ha la possibilità di tornare ad essere anche lui poca cosa: muto, cieco, nell’attesa di essere toccato da chi ha uno sguardo su di sé pietoso, benchè cieco anch’esso. Il finale così sommesso e intenso, in puro stile Ray, così narrativamente abbozzato, quasi ai limiti del didascalico per eccederlo con il salto temporale del viaggio che ellitticamente ritorna su sé stesso, con il parabrezza che si fa schermo per la dissolvenza tra la neve e la notte della metropoli e viceversa, è un momento di cinema sublime, e –direi- cieco, come se davanti allo sguardo reso serenamente cieco del poliziotto qualcuno agitasse l’analogo della fiamma di uno zippo, come Jim aveva fatto con Mary per essere certo che fosse non vedente. Sono le sembianze del mondo che si agitano davanti al nostro sguardo inquieto, e da cui prendere le distanze per trovare rifugio in una donna che aspetta al buio del proprio letto vuoto, al riparo così del proprio sguardo, fidando solo in sensazioni vaghe. Siamo prigionieri del nostro sguardo come forma di dominio del mondo, di controllo degli altri, e di noi stessi quando è uno specchio a rifletterci. Non resta che lasciare i nostri occhi alle cose, agli oggetti, e lasciarsi guardare da questi, dagli eventi, che dopotutto obbediscono solo a sé stessi: accadono. Ecco il braccio teso di Jim che torna da Mary a cercare la sua mano come si torna in una chiesa a cercare una idea di salvazione: non si tratta di casa propria, ne mai potrà esserlo, si tratta di quella dell’altro, fino a quando a lui piacerà di dargli riposo dalla propria febbre di vita. Quell’incontro delle mani si arrende all’equivoco degli sguardi per farne a meno. È una ricerca già ceca, già ultima, di completo abbandono, prima di desiderare ancora. 

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