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Olma Djon |
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Un film di Victoria Yakubov.
Con Natasha Mashkevich, Aziz Beyshenaliev, Amirkhan Assenov, Azat Nurtay, Muratbek Aubakirov
Drammatico,
durata 72 min.
- Francia, Kazakhistan 2019.
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"Non piangere, piccolo mio, non piangere mai."
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| martedì 24 marzo 2020 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
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In una pianura al disgelo ai piedi di alte montagne brune c’è una piantagione di meli in lunghissimi filari, con frutti maturi di rosso carico su rami scheletriti. Una famiglia vive in una casa ai limiti della piantagione: un uomo sui 30 anni di nome Bolot, la moglie ed una bambina di 5-6 anni, Sholpan. Siamo nel Kazakistan (la repubblica dei cosacchi, nata nel 1991, dal disfacimento dell’URSS); in lingua turca del XIII secolo kazako vuol dire indipendente, libero, nomade. Nella prima scena Bolot parla lentamente alla bambina:- All’inizio era il Verbo, la parola. - E poi indica la foglia appassita di un melo e scandisce : - Foglia. Di’ foglia! –. La bambina tace e non ripete neanche la parola cielo quando il padre lo indica. Sholpan è autistica; un grande dolore per i genitori. Ma oltre lo steccato che separa la casa dal frutteto appare una donna attempata, vestita in modo strano, con ornamenti di piume di uccelli, con un viso dai tratti mongoli. Lancia a Sholpan tre mele mature e la bambina le raccoglie sulla sua gonna. Quando la famiglia è a tavola a mangiare una minestra, la bimba offre una mela al padre che reagisce severo:- Non si mangiano le mele nella zuppa … -, e poi va a sdraiarsi sulla neve vicino allo steccato per dormire. Nel sonno sente la voce della madre che gli canta una ninnananna e nel dormiveglia accetta una tazza con una bevanda calda offerta dalla sciamana attraverso una fessura nello steccato … Il film è un rebus per chi non conosce le pratiche sciamaniche tra Russia e Mongolia: gli stregoni sono sensitivi che dicono di poter visitare il passato e il mondo dei defunti, andando in trance, in presenza di chi è ammalato o ha un problema, con l’aiuto di bevande alcoliche e/o funghi allucinogeni e battendo ossessivamente colpi sul loro tamburo: è come una immersione in apnea in un fiume, lo Jenissei, risalendo verso la sorgente per scoprire dove il blocco, l’errore, il male si è originato; poi alla riemersione nel presente si sa quale è il motivo da rimuovere per guarire la persona. Bolot, portato indietro nel tempo dalla sciamana, torna bambino e riascolta la madre che gli diceva: “ Non piangere, piccolo mio, non piangere mai.” Incontra anche i suoi avi, che lo incoraggiano. La moglie di Bolot con la sciamana rivive i dolori del parto. Sholpan non parla perché Bolot e la moglie non comunicano tra loro: Bolot non mostra le sue lacrime per non apparire debole, mentre sua moglie non confessa che la paura di essere madre gli ha procurato forte sofferenza. Fotograficamente il film è bello, ma anche estetizzante, “un Tarkowskij “ con una ostentata ricerca minimalista nelle inquadrature di paesaggi e di oggetti in una casa kazaka; i tempi della ripresa sono reali come nel film Nel corso del tempo di Wenders e il pubblico è poco abituato a questo pur conoscendo i lunghi piani-sequenza di Kassavetes, Kiarostami, Leone, Ceylan e Panahi. Non convince del tutto la mescolanza di icone da chiesa bizantina-russa (la moglie che sorregge Bolot, come la madonna col figlio morto del famoso gruppo marmoreo, contrapposta ad un’immagine precedente frantumata in uno specchio a forma di trittico con marito e moglie agli estremi) con i rituali pagani sciamanici, tutto sommato più veri e sobri, meno insistiti di quelli rappresentati di recente in Un Monde Plus Grand di Fabienne Berthaud. Non bisogna rivelare l’ultima scena. Da vedere. Valutazione *** FabioFeli
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