Clint Eastwood (Clinton Eastwood Jr.) è un attore statunitense, regista, produttore, musicista, è nato il 31 maggio 1930 a San Francisco, California (USA). Clint Eastwood ha oggi 94 anni ed è del segno zodiacale Gemelli.
Tutta la carriera di Clint Eastwood (classe 1930) è intrecciata al filo rosso del western, dagli esordi come interprete del telefilm Rawhide fino a Space Cowboys. Soprattutto il western, nell'accezione italica, è stato il suo grande trampolino di lancio. Non è stato né semplice né immediato: all'inizio degli anni Sessanta Clint era, negli Stati Uniti, un divo di serie B, co-protagonista di Rawhide, serial vagamente ispirato a Il fiume rosso di Hawks, con Eastwood nei panni che erano stati di Montgomery Clift. Sotto contratto con la Cbs, l'attore vede la sua carriera praticamente arenata e decide, in una pausa della lavorazione del telefilm, di andare in Europa a girare un piccolo western italo-ispanotedesco, Per un pugno di dollari, di Sergio Leone (1964). Eastwood è perplesso sulla possibilità che si possano fare buoni western al di fuori degli Usa, ma sa anche di correre pochi rischi: se il film andrà male non varcherà i confini europei e se invece andrà bene potrebbe contribuire a sbloccare la sua carriera. Il film riscuote un grande successo in Europa, ma non viene distribuito negli Usa se non dopo che Eastwood ha interpretato anche gli altri due capitoli della cosiddetta "trilogia del dollaro" (Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo). Nel 1967 la United Artists acquista i diritti di distribuzione negli States per i tre western di Leone, un piccolo investimento che si rivela fortunato: anche gli spettatori americani dimostrano di apprezzare la rilettura del genere fatta da Leone, e in particolare eleggono a divo l'interprete del suo pistolero laconico e senza nome. Un altro incontro destinato a lasciare un segno importante nella carriera dell'attore è quello con il regista Don Siegel. Eastwood e Siegel realizzano insieme numerosi film, a partire da L'uomo dalla cravatta di cuoio (1968) fìno a Fuga da Alcatraz (1979), passando per film importanti come Ispettore Gallaghan, il caso Scorpio è tuo! (1971). Affermatosi come interprete, Eastwood decide di fondare una propria casa di produzione c di debuttare come regista (con Brivido nella notte, 1971), dando così avvio a una carriera di autore che lo vedrà alternare film più difficili a notevoli successi commerciali. Il suo capolavoro, per unanime plauso di critica e pubblico, è Mystic River (2003), pluripremiato e con un cast di attori di prim'ordine.
È proprio vero che non è mai troppo tardi. All'inizio degli anni settanta Clint Eastwood sembrava arrivato a una situazione destinata a tranquilli sviluppi. Figlio di una famiglia modesta, sostanzialmente autodidatta, ex taglialegna, ex militare, aveva cominciato come interprete di piccole particine atletiche presso la Universal, poi di parti più grandi nella serie tv Rawhide e in una manciata di film di serie B, per diventare quindi l”uomo senza nome” nella trilogia del dollaro di Sergio Leone e l'eroe macho e duro dei film di Don Siegel - da L'uomo dalla cravatta di cuoio (1968) a Fuga da Alcatraz (1979), attraverso Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, del 1971, che segnò la nascita di Dirty Hany (in americano “Callahan” e non “Callaghan”) e della leggenda “fascista” di Siegel e Eastwood.
E in quel giro di anni che comincia una nuova vita. Con la sua casa di produzione (la Malpaso, dal nome di un fiumiciattolo vicino alla città di Carmel, dove risiede e di cui è stato anche il sindaco) ha prodotto il suo primo film da regista, Brivido nella notte (1971), con Siegel in un piccolo ruolo: una storia di tensioni psicologiche molto lontana dal mondo muscolare e violento dell'Eastwood precedente.
Da allora la carriera e il mondo espressivo di Eastwood regista si sono andati definendo in maniera sempre più interessante. Non c'è dubbio che Eastwood sia un autore da Americana, un narratore tradizionale di storie “extraurbane” - perché, uomo dei grandi spazi, non potrebbe essergli più estraneo il mondo della megalopoli che costituisce lo sfondo di metà del cinema made in Usa, mentre fanno appello al suo cuore di Loner, di solitario, il mondo della provincia, delle piccole città, delle pianure e delle montagne del West: quello che ha raccontato in una serie di piccoli e grandi film, spesso balzani (penso a Bronco Billy, 1980, che si svolge in un circo scalcinato), qualche volta elegantemente reticenti(Bird, 1988, su Charlie Parker), qualche volta brillanti e sottovalutati(Cacciatore bianco, cuore nero, 1990), qualche volta belli e sopravvalutati(Gli spietati, 1992): tutti economicamente fortunati, tutti accolti con entusiasmo fin eccessivo da una critica convertitasi alla sua causa. Saggiamente, anziché riposare sugli allori di questa carriera di regista e produttore, Eastwood continua a recitare, oltre che nei propri film, anche in quelli altrui(Nel centro del mirino, 1993), candidandosi a simbolo indiscusso del grande cinema americano di confezione.
Da Irene Bignardi, Il declino dell'impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
BEING introduced to Clint Eastwood is something like seeing a California redwood for the first time. The difference is that this redwood, even at the age of 78, reaches out to shake your hand with a firmness that still intimidates no matter how much time you spent preparing your grip (for the record: three days).
He arrived for the interview at the Mission Ranch restaurant here as if he owned the place, and it didn’t make any difference that, in this case, he does. He had his first legal drink in the bar while he was stationed at the nearby Army base in the late 1940s. In 1986 he bought the property and rebuilt it to his taste, with a piano bar, heart-stopping views of the ocean spray on Point Lobos and plenty of meat on the menu. Despite what you might have read on Wikipedia, Mr. Eastwood is not a vegan, and he looked slightly aghast when told exactly what a vegan is. “I never look at the Internet for just that reason,” he said.
It’s been 20 years since Mr. Eastwood was mayor of Carmel, but clearly he’s still the king around here. Unlike the taciturn characters he plays on screen, he’s voluble, chatting and laughing with his staff with a sharpness and enthusiasm that make him seem far younger than his age. After showing me around the property, he insisted I come back that evening for a steak dinner. “We’ve got good chow,” he said. Go on: you tell him you’ve made other plans.
Mr. Eastwood’s on familiar ground in another way. It’s coming up on the Oscars, and he has two films in contention, “Changeling,” with Angelina Jolie, and his newest, “Gran Torino,” which he finished shooting only this summer and which began appearing in theaters on Friday.
In “Gran Torino” Mr. Eastwood plays Walt Kowalski, a Korean War veteran, retired Ford line worker and full-time bigot who stews on his porch in Detroit watching his block being taken over by Hmong immigrants from Southeast Asia. When a gang pressures a teenager living next door (played by Bee Vang) into trying to steal Walt’s vintage Gran Torino, the aging veteran gets pulled reluctantly, then violently, into the lives of his neighbors.
Mr. Eastwood has already won the best actor prize for “Gran Torino” from the National Board of Review, and the Oscar talk — he has never won as an actor — is running high. He claims not to care deeply about awards. When asked whom he makes films for, Mr. Eastwood said, “You’re looking at him.” Calculated or not — those films do have a habit of showing up (sometimes unexpectedly) in prime Oscar campaigning season — that stance seems to charm the voters some 300 miles to the south in Los Angeles, who have rewarded his movies richly in the past 15 years, including two best-picture awards. Mr. Eastwood has become the George Washington of the awards season: if called, he will serve. But he doesn’t seem to believe in term limits.
“Gran Torino” is the 29th full-length movie Mr. Eastwood has directed — more than Scorsese, more even than Spielberg — so perhaps it’s an accident of memory that his name first conjures up the impression of the squinty guy on a horse. Starting in the mid-1980s he began to change some minds by pushing the boundaries of his cowboys-and-cops image with films like “Honkytonk Man” and “Tightrope,” but he said about his reputation, “If that’s how people want to pigeonhole me, that’s fine.”
If anything, his directing pace has picked up in the past five years.
The script for “Gran Torino” had been kicking around Hollywood for a while before Mr. Eastwood read it. The writer, Nick Schenk, who worked in a Ford plant years ago, based the character of Walt on the men he met there, many of them Korean War veterans. “I’d talk a lot to these guys, and they’d tell me stuff they wouldn’t tell their wife and kids,” Mr. Schenk said.
Some directors are known as an actor’s best friend. Mr. Eastwood may be the writer’s. “He didn’t change a word,” Mr. Schenk said. “That never happens.”
Mr. Eastwood said he learned his lesson after making extensive revisions on the script for “Unforgiven,” then calling up the writer, David Peoples, and announcing he was returning to the first draft. “I’m emasculating this thing,” he told Mr. Peoples.
There was one major disappointment for Mr. Schenk: the setting of “Gran Torino” was shifted from Minneapolis to Detroit, the original home of Ford and, not coincidentally, the home of 42 percent tax credits for films made there. (That helped make it easy for Warner Brothers to sign off on bankrolling the movie, something that hasn’t always been a given in the studio’s relationship with the director.)
Mr. Eastwood bought the script in February, then shot the movie over the summer at a guerrilla filmmaker’s pace, finishing in 32 days. The fast clip, Mr. Eastwood said, helped him with the Hmong members of the cast, most of whom had never acted and many of whom didn’t speak English. “I’d give them little pointers along the way, Acting 101,” he said. “And I move along at a rate that doesn’t give them too much of a chance to think.”
It also doesn’t give Mr. Eastwood too much time to worry about Hollywood. After shooting, he returned to Carmel, where he lives with his wife, Dina Ruiz, and manages his investments, including an ownership stake in the Pebble Beach golf course company. He set up a bay and worked with his two film editors in an 1862 farmhouse on the Mission property for a week or so. Between sessions he sat at the piano and picked out a score: he has written music, including full scores, for many of his films. He even sings one of his own melodies over the film’s final credits, his voice burned down to a whisper. (Mr. Eastwood himself refuses to call it singing because that conjures up memories of “Paint Your Wagon,” the misbegotten 1969 musical. “I vowed I’d never do that again,” he said.)
Like “Million Dollar Baby” and “Mystic River” before it, “Gran Torino” is a modern story that feels anachronistic. Walt’s neighborhood is every bit as bounded and knowable as the town of Lago in “High Plains Drifter,” and the confrontations with the Hmong gang members build methodically, as if in a town square. But when the film threatens to descend into a vigilante picture — the last guy who actually thought he could solve Detroit’s problems with his fists was Gordie Howe — “Gran Torino” takes some unexpected turns.
Before filming there had been gossip (again, the Internet) that Mr. Eastwood was making another “Dirty Harry” sequel. What “Gran Torino” does share with the “Dirty Harry” movies is the sheer force of its incorrectness. Walt, who stokes his resentment with cigarettes, beef jerky and Pabst Blue Ribbon, expresses his disgust for the Hmong and just about every other racial group in a steady stream of obscenities. Robert Lorenz, Eastwood’s frequent producing partner, said that what he appreciated about Mr. Schenk’s dialogue was that “he didn’t hold back.”
“It was left really raw,” he said. “It sounded like those people you know, or your uncle saying something really bad at a wedding.”
Brian Grazer, a producer of “Changeling,” sees this kind of directness as a strength. “What most interested me about Clint Eastwood as a director is the honesty and intensity he injects into the movies that he directs,” he said. “He is so confident as a director that he will allow the sometimes ugliness of life to live inside the scenes of his movies.”
For Mr. Eastwood the raw language is central to Walt’s story. “If he comes in and just befriends these people and doesn’t have any hurdles — any personal hurdles to overcome — that doesn’t make for a very interesting character,” he said. But Mr. Eastwood, who last spring had a verbal run-in with Spike Lee over the lack of black soldiers in the Eastwood film “Flags of Our Fathers,” also confesses to some sympathy for Walt’s choice of words in a way sure to irk the Hollywood types who have finally embraced him despite his libertarian politics.
“A lot of people are bored of all the political correctness,” he said. “You’re showing a guy from a different generation. Show the way he talks. The country has come a long way in race relations, but the pendulum swings so far back. Everyone wants to be so” — here he paused and narrowed his eyes, like Dirty Harry drawing a bead on a perp — “sensitive.”
What we admire about heroes (and villains) like the ones Mr. Eastwood used to play isn’t their sensitivity, it’s their single-mindedness: they say what they’re going to do, then do it. Whether in Spain or in San Francisco, Mr. Eastwood’s heroes were never given the “kill one to save a thousand” liberal trapdoor of other Hollywood films. The violence of the “Dirty Harry” movies seems almost quaint now, but what Harry says — “Ask yourself one question: Do I feel lucky?” — still has the power to shock.
But if Mr. Eastwood shoulders some blame for every “Rambo” and “Die Hard” that followed, he should be given credit for looking at a more complicated transaction in the films he directs, one where people’s actions are at odds with their beliefs. What helps sell the contradiction in “Gran Torino” is Mr. Eastwood’s own physical presence. More so than any other leading man, he has been willing to play his real age. At 78 he is perhaps thinner than he once was, but in that sinewy way that reveals strength as much as diminishes it. After Walt beats up one gang member — hey, he’s still Clint Eastwood — the next scene shows him out of breath, struggling to open his front door.
To Mr. Eastwood being able to play 78 is just one of the benefits of a long career. “It’s ridiculous when you won’t play your own age,” he said. “You know when you’re young and you see a play in high school, and the guys all have gray in their hair and they’re trying to be old men and they have no idea what that’s like? It’s just that stupid the other way around.”
The other benefit is that, even after a great career in the movies, you can fashion another. “After ‘The Good, the Bad and the Ugly,’ I walk down the street and everybody would whistle out” — here he sang the movie’s famous theme. “Then it became ‘Do I feel lucky?’ and ‘Make my day.’ But it’s progressed along. Whether it’s taken this turn on purpose, I can’t say.”
Walt Kowalski has a catchphrase too in “Gran Torino.” “This is what I do,” he tells the Hmong teenager before the film’s final act. “I finish things.” So does Mr. Eastwood, just not in the way anybody would have expected.
And he may not be done. There were reports — again on the Internet — that this would be his last role, a rumor he helped fuel but now says is not necessarily true.
“Somebody asked what I’d do next, and I said I didn’t know how many roles there are for 78-year-old guys,” he said. “There’s nothing wrong with coming in to play the butler. But unless there’s a hurdle to get over, I’d rather just stay behind the camera.”
Da The New York Times, 14 dicembre 2008
Alla vigilia degli 80 anni, che compirà i13 maggio del 2010, Clint Eastwood è un film maker riconosciuto su cui sono tutti d'accordo: l'ex tagliaboschi, ex soldato, ex comparsa, l'uomo che, ai bei tempi dei western all'italiana, aveva solo due espressioni con o senza cappello, il regista che timidamente aveva cominciato a esprimere i suoi lunghi silenzi in film spesso inconsueti e interessanti (in quella fase, io tifo per Play Misty for Me), è ora per definizione bravissimo o semplicemente perfetto, vedi il caso del recente The Changeling.
Per chi voglia ripercorrere una fase importante del passato di questo simbolo dei cinema, la Warner Home Video annuncia un intero ciclo dedicato a Dirty Harry, l'ispettore Callahan - da noi diventato, chissà perché, Callaghan - e fa risuonare il suo nome fin dal primo titolo del cielo, Ispettore Callaglian. Il caso Scorpio è tuo (1971). È strano, adesso, pensare che si sia potuto prendere in considerazione per Dirty Harry qualcun altro (Frank Sinatra, John Wayne o Paul Newman), tanto il volto di Callaghan è quello di Eastwood.
All'epoca, in anni freschi di grida di libertà, H comportamento di Callaghan, che fa giustizia da solo, il suo interprete e il regista del film, Don Siegel, vennero visti come portatori di «un attacco ai valori liberai», secondo quanto scrisse allora un grande critico come Pauline Kael, che definì Dirty Harry una «fantasia di destra», un «potenziale fascista».
È così? Il giudizio si è ammorbidito con il tempo, con la popolarità del nostro eroe, con la durezza delle realtà che abbiamo attraversato e dei film che abbiamo visto. Ma qualche dubbio resta. I cinque titoli della serie - seguono Una 44 Magnum per l'ispettore Callaghan (1973), Cielo di piombo, Ispettore Callaghan (1976), Coraggio... Fatti ammazzare (1983), diretto da Eastwood stesso, e finalmente Scommessa con la morte, del 1988 - passano, commentati da Richard Schickel, dalla brutalità alla parodia, dallo humour nero al puro action movie. Ma il «dirtyharrismo» continua. Sta arrivando sugli schernii Gran Torino dove, dice il critico del New Yorker, Eastwood dà corpo alla parodia (o all'autocritica) di un Dirty Harry invecchiato.
Da Il Venerdì di Repubblica, 16 gennaio 2008
Nel 1965, mentre Clint Eastwood girava Per qualche dollaro in più nel finto West reinventato da Sergio Leone in qualche parte della Spagna, nel vero West, a Fremont, California, nasceva una certa Dina Ruiz. Oggi i due sono marito e moglie. Tutte le mattine, Clint affetta la frutta e la mette nel frullatore. Insieme con la loro bambina, Morgan, sette anni, gli Eastwood bevono milkshake a colazione. «Clint è fissato sull'importanza di frutta e verdura nell'alimentazione», spiega Dina. Che sia questo il trucco della longeva grinta di suo marito? Fosse così semplice, avremmo tutti più frullatori che cellulari. Infatti, se qualcuno chiede a Clint Eastwood qual è il segreto della sua energia a 74 anni compiuti, mica risponde «le mele». Lui dice: «Di». L'estroversa, vivace, solare Dina, sposata nel 1996, la donna che ha poco più della metà dei suoi anni, ma che è riuscita dove altre avevano fallito, quella che ha dato una regolata al vecchio cowboy. «Forse era tempo che mi calmassi comunque», ammette lui. E poi aggiunge: «Certo che Dina mi ha cambiato».
Chi è Dina Ruiz? Una che è cresciuta senza vedere nessuno dei film di Eastwood. Né un western né un Ispettore Callaghan, nemmeno per sbaglio. A Dina non piaceva neanche il jazz, prima che Clint entrasse nella sua vita. E nemmeno il golf, lo sport che scopre chi ha già avuto tempo di provare tutti gli altri. Adesso Dina sa apprezzare Charlie Parker (per forza! Suo marito gli ha dedicato un intero film, Bird) e, se capita, gioca a golf con lui. Quanto ai film, si è plan piano messa al pari coi compiti. Anche se a lei, a vent'anni, il film che piaceva davvero era Flashdance. Più che altro perché finalmente sullo schermo brillava una stella sangue misto, Jennifer Beals, con i capelli neri e la pelle come cappuccino. Una un po' come lei, finalmente una bellezza diversa dalle classiche bionde californiane.
Adesso, avendo studiato la filmografia del marito, Dina dice la sua: «Nella vita di tutti giorni, Clint non somiglia per niente al personaggio di duro che ha interpretato per tanto tempo. Piuttosto è simile al protagonista dei Ponti di Madison County. Sempre premuroso, sempre pronto a invitarti a ballare. Anche in cucina». Se poi le chiedete qual è il film migliore di Clint vi risponderà che è l'ultimo, questo Million Dollar Baby che gli scommettitori danno per favorito nella corsa agli Oscar. Dice il vecchio adagio che «c'è sempre una gran donna dietro a un grande uomo». In questo millennio, la gran donna deve anche avere un tempestivo sesto senso per la promozione. E Dina ce l'ha.
È una giornalista. O meglio: lo era quando ha incontrato Eastwood. Era il 1992. Lui aveva da poco ricevuto l'Oscar per Gli spietati. Lei era stata mandata dalla tivù locale per cui lavorava a intervistarlo a Carmel, incantevole città-cartolina sulla penisola di Monterey, che l'attore ha da tempo scelto come residenza e di cui è anche stato sindaco. Carmel, snodo turistico sulla Highway Number One resa famosa da Jack Kerouac e dalla Beat Generation, è oggi una località per turisti abbienti che conserva un certo fascino.
Fino all'incontro con Dina, il profilo di Eastwood era quello di un donnaiolo senza pietà. Sciupava femmine come sciupava la sua carriera. Solo in apparenza, almeno per quanto riguarda la carriera che, vista con il senno di poi, è una traiettoria geniale, contro ogni stereotipo. A lungo considerato un soldato semplice del cinema, peggio, un attore senza qualità («Ha due espressioni: una con il sigaro e una senza», si diceva), Eastwood è fiorito nel tempo. Interprete interessante, regista competente, musicista jazz ben oltre la soglia del diletto, cittadino impegnato. Un cineasta da Oscar. L'uomo del western colto e crepuscolare, ma anche il protagonista dei film d'azione con un tocco di sensibilità in più (Nel centro del mirino), l'icona di un romanticismo ruvido e credibile persino a un'età in cui, di solito, ci si dedica al riposo dei sensi (I ponti di Madison County). Bel percorso. Ma ci sono voluti anni. Chilometri di pellicola. E di vita.
Nel privato ci sono stati un matrimonio a vent'anni, diverse relazioni (la più nota e tempestosa, con l'attrice Sandra Locke), sei figli, due nipoti. Poi è arrivata Dina. Secondo matrimonio. Settima figlia. Pace borghese e alcuni dei film migliori come regista. Un mondo perfetto, per esempio, con Kevin Costner, girato subito dopo averla conosciuta. Pensare che, di solito, la gente famosa per i giornalisti prova una certa allergia. Eppure. Come tra Gregory Peck e la reporter Véronique Passani, inviata a Roma sul set di Vacanze romane, come tra la redattrice di Vogue Jacqueline Bouvier e John Kennedy, come tra la anchorwoman Letizia Ortiz e il principe Felipe, anche tra Diria e Clint c'è stato il colpo di fulmine causa intervista. «Doveva durare quindici minuti, abbiamo parlato tre ore», racconta lei. «Ho pensato subito che era una donna molto interessante», ricorda lui. Poi, nessun contatto. Un anno dopo, si sono rivisti a una serata. E hanno deciso che quell'intervista valeva la pena continuarla.
Da Vanity Fair, 3 febbraio 2005
Film dopo film, il grande autore rivela con lucidità impressionante un'America lontana da ogni glamour. E l'ultimo, Gran Torino, è una veggente parabola sulla crisi.
Get off the lawn!, Via dal prato! Pare che a Los Angeles l'intimazione sia già storia del cinema, palleggiata ritualmente nelle conversazioni tra amici. Non stupisce, visto che a ruggirla (nel film Gran Torino) è un pensionato di Detroit che ha le sembianze di Clint Eastwood, e che riesce a dare a quest'esortazione in apparenza innocua la stessa minaccia del mitico Go ahead… make my day!, Coraggio... fammi contento (di ammazzarti, ndr) ringhiato dall'ispettore Callaghan nel terzo episodio della serie dedicata al poliziotto più feroce di San Francisco.
Gli spietati e Un mondo perfetto, Mystic River e Million Dollar Baby, Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima - adesso Changeling e Gran Torino (in Italia il 13 marzo): con un'impennata creativa sorprendente anche per lui, l'energia di un ventenne (ne ha 78) e la libertà di gesto dei migliori musicisti jazz, negli ultimi tempi Clint Eastwood ha coniato e fatto suo lo stranissimo formato della doppietta cinematografica - non un film all'anno, ma due - entrambi magnifici.
In genere è il secondo, quello più «piccolo», «improvvisato» e «oscuro» a risultare il più sorprendente e sovversivo dei due, la pallottola più micidiale. In genere sono film che dialogano tra loro, densi di presente e d'America (come tutti i film di Eastwood, anche quando parlano di soldati giapponesi).
Più facilmente, è un'America di strade polverosamente indistinte, di periferie operaie, di baracche messe insieme in fretta da un gruppo di cercatori d'oro sfortunati o da pionieri tutt'altro che irreprensibili - non quella dell'epica perfetta di Monument Valley e degli skyline d'acciaio e vetro delle grandi metropoli. Senza eccezione, è un'America di destini solitari in modo lancinante.
In un bel testo del 1983, Norman Mailer (che ammirava le doti fisiche di Eastwood e il suo volto «immobile come l'argine di un fiume pronto a reggere la corrente impetuosa che si avvicina da dietro un'ansa») riconosceva nei suoi film «una filosofia nazionale, un'operosa e sottile filosofia americana di tutti i giorni». E ricordava l'infanzia itinerante di Clint durante la Grande depressione, «quando suo padre portava la famiglia su e giù perla California, nella speranza di trovare un'occupazione - una famiglia rispettabile in mezzo a un mucchio di poveri immigrati dall'Oklahoma in cerca di lavoro». Sono gli anni Trenta, infatti - non i Sixties in cui si è fatto conoscere con gli «spaghetti western» di Leone o i Seventies di Dirty Harry - la decade che più lo ha formato, e in cui ha incominciato a scoprire l'altra grande passione della vita, il jazz, grazie ai dischi di Fats Waller di sua madre. È in quella decade che è ambientato Changeling. Ed è in un'altra «grande depressione» - quella che stiamo attraversando - che è ambientato Gran Torino. Perché Eastwood, che non smette mai di pensare, lavora sempre tra il rarefarsi dei valori del passato e una modernità abbagliante.
Storia di un veterano di Corea e della catena di montaggio della Ford (il titolo del film si riferisce a un famosissimo modello delle loro auto) Gran Torino è stato siglato dal critico di Variety Todd McCarthy come «il primo film dell'era di Barack Obama». L'etichetta è curiosa - è difficile che Eastwood abbia dato il suo voto al nuovo presidente degli States - ma tutt'altro che immeritata.
«Non sono attivo in politica da tempo», mi aveva detto l'autunno scorso durante un giro promozionale a New York. « Inizialmente ero repubblicano, un ventunenne arruolato nell'esercito, che votava per Dwight Eisenhower. Ma, dagli anni Cinquanta a oggi, repubblicani e democratici sono cambiati moltissimo. Personalmente, mi sento più vicino al punto di vista dei libertari. L'idea di essere lasciati in pace, senza troppe leggi, regole e cose del genere, è molto attraente per chi, come me, è cresciuto negli anni Trenta e ha visto i suoi genitori lottare contro la povertà. In quel pe riodo, nessuno si aspettava nulla gratis. Oggi, politicamente parlando, si promette tutto a tutti. È l'unico modo di essere eletto. Per me è una perversione della politica. Questa è un'era molto confusa».
E ancora: «Tutti danno la colpa a Wall Street di quello che sta succedendo in economia. Ma secondo me bisogna anche tener conto di quanto sia stata corrotta la mentalità del nostro Paese. Con un tesserino di plastica hai l'autorizzazione di comprarti il mondo, senza preoccuparti di quello che puoi, o meno, permetterti. È un modo di pensare nuovo, come vivere nel mondo dei sogni». Sono parole che Barack Obama condividerebbe pienamente. D'altra parte, i valori della responsabilità evocati nel discorso dell'inaugurazione presidenziale appartengono proprio a quella stessa, antica, «filosofia americana» di cui, appunto, parlava Mailer.
Pochi sono gli attori/autori hollywoodiani che hanno un rapporto intenso e lucido con il proprio personaggio come quello di Clint Eastwood (Jodie Foster e Sylvester Stallone sono altri nomi che vengono in mente). Per la prima volta attore dai tempi di Million Dollar Baby, in Gran Torino Clint raccoglie in un unico personaggio l'eredità di Dirry Harry (del cui ciclo questo film rappresenta una sorta di conclusione, come Gli spietati degli western) e quella di Thomas Highway (ìl sergente di Gunny), portando a compimento una riflessione sulla vendetta e sulla violenza iniziata quasi quarant'anni £a, per le strade di San Francisco. E attraverso la storia di un vecchio razzista, solo tra le macerie di tutto ciò che ha amato e capito del suo Paese (l'ispettore Callaghan alla soglia della tomba) e quella della famiglia di immigrati asiatici che gli sta a fianco, Eastwood arriva a un epilogo di bellezza e limpidità straordinarie: la 44 Magnum è diventata un dito puntato, le chiavi della (Ford) Gran Torino - e il futuro dell'America - nelle mani di un ragazzino introverso con gli occhi a mandorla.
Da Lo Specchio, febbraio 2009
Tra Eli Wallach e Lee Van Cleef, Clint Eastwood è senz'altro quello che più somiglia ai propri personaggi: chiuso, taciturno, ironico. Diventa umano solo davanti a un piatto di spaghetti: eccettuato Bud Spencer non ho più visto un altro attore capace come lui di farsene regolarmente tre doppie porzioni. Ma lui non ingrassa, maledetto.
Di recente ha diretto e prodotto il film drammatico Changeling, interpretato da Angelina Jolie che è la storia vera di un terribile caso di rapimento avvenuto nel 1928 che ha scosso il Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Il film ha ricevuto la nomination per la Palma D’Oro al Festival del Film di Cannes del 2008 ed ha vinto uno Special Award dopo essere stato proiettato in prima a tale Festival. Eastwood prossimamente dirigerà e produrrà un dramma storico sul Sudafrica post-apartheid, che sarà interpretato da Matt Damon e Morgan Freeman nel ruolo di Nelson Mandela.
Nel 2007, Eastwood ha ottenuto due nomination all’Academy Award®, nelle categorie Migliore Regia e Miglior Film per l’acclamato film drammatico sulla Seconda Guerra Mondiale Lettere da Iwo Jima, che racconta la storia della battaglia storica vista dagli occhi dei giapponesi. Il film, inoltre, ha vinto i premi Golden Globe e Critics’ Choice Awards come Miglior Film in Lingua Straniera ed ha ricevuto premi come Miglior Film da una serie di gruppi della critica cinematografica, compreso il Los Angeles Film Critics ed il National Board of Review. Lettere da Iwo Jima è il film che segue il famoso ed acclamato film di Eastwood Flags of Our Fathers, che racconta la storia degli uomini americani che hanno innalzato la bandiera su Iwo Jima e che sono ritratti nella famosa fotografia.
Nel 2005, Eastwood ha vinto gli Academy Award® come Miglior Film e Migliore Regia –secondi per lui in entrambe le categorie- per Million Dollar Baby. Ha anche ottenuto la nomination come Miglior Attore per la sua performance nel film. Inoltre Hilary Swank e Morgan Freeman hanno vinto gli Oscar® come Migliore Attrice e Migliore Attore non protagonista rispettivamente, ed il film ha ricevuto anche la nomination come Miglior Adattamento Sceneggiatura e Miglior Montaggio.
Nel 2003, il film drammatico di Eastwood, Mystic River, molto acclamato dalla critica, ha fatto il suo debutto al Festival del Film di Cannes, facendogli ottenere una nomination alla Palma d’Oro ed il Premio Golden Coach . Mystic River ha proseguito i suoi successi ottenendo sei nomination per l’Academy Award® tra cui due per Eastwood per Migliore Regia e Miglior Film. Sean Penn e Tim Robbins hanno vinto gli Oscar®, nelle categorie Miglior Attore e Miglior Attore non protagonista, mentre il film ha ottenuto anche le nomination per la Migliore Attrice non protagonista e la Migliore Sceneggiatura.
Nel 1993 la rivisitazione di Eastwood dello stile western con il film Gli spietati gli ha fatto ricevere nove nomination all’Academy Award®, di cui tre per Eastwood, che ha vinto il premio come Miglior Film e Migliore Regia ed ha ottenuto la nomination come Miglior Attore. Il film ha vinto anche gli Oscar® nelle categorie Migliore Attore non protagonista (Gene Hackman) e Migliore Montaggio ed ha ricevuto la nomination per la Migliore Sceneggiatura Originale, Migliore Cinematografia, Migliore Direzione Artistica, Miglior Montaggio e Miglior Suono. Nel 1995 Eastwood ha ricevuto anche un importante premio dell’Academy, l’Irving Thalberg Memorial Award.
Eastwood ha vinto i Golden Globe per la prima volta nel 1971 con l’Henrietta Award per il World Film Favorite. Nel 1988, ha vinto il premio Cecil B. DeMille Lifetime Achievement. L’anno seguente ha vinto il suo primo Golden Globe per la Migliore regia per il film Bird e nel 1993 ha ricevuto nuovamente il premio per la Migliore Regia con il film Gli spietati. Nominato nel 2004 per la sua regia nel film Mystic River, Eastwood ha portato a casa il suo terzo Golden Globe per la Migliore regia nel 2005 per Million Dollar Baby. Nel 2005, è stato nominato anche come compositore della colonna sonora del film.
I film di Eastwood hanno ricevuto molti riconoscimenti internazionali sia dalla critica sia nei festival cinematografici, tra cui quello di Cannes, del quale è stato presidente della giuria nel 1994. Inoltre ha ottenuto le nomination alla Palma d’Oro per il suo film Cacciatore bianco, cuore nero nel 1990; per Bird, che ha vinto anche il premio per il Miglior Attore ed un premio per la sua colonna sonora al festival del film del 1988; e per Il cavaliere pallido del 1985.
Oltre al Thalberg Award ed al DeMille Award, gli altri numerosi riconoscimenti ricevuti da Eastwood nella sua lunga carriera comprendono i premi della Directors Guild of America, della Producers Guild of America, della Screen Actors Guild, dell’ American Film Institute, del Film Society of Lincoln Center, della French Film Society, del National Board of Review, dell’Henry Mancini Institute (Premio Hank per essersi distinto nella campo della musica americana), dell’Amburgo Film Festival (Premio Douglas Sirk) e del Festival del Film di Venezia (Leone d’oro alla carriera). Ha ricevuto anche il riconoscimento del Kennedy Center, i premi dell’American Cinema Editors e della Publicists’ Guild, un dottorato ad honorem in belle arti dalla Wesleyan University, ed è stato vincitore per ben cinque volte del Premio Favorite Motion Picture Actor (Attore preferito di film) dei People’s Choice Awards. Nel 1991 Eastwood è stato eletto Uomo dell’Anno dalla Harvard’s Hasty Pudding Theatrical Society, e nel 1992 ha ricevuto il Premio alle Arti da parte del Governatore della California.
In Max e i fagociti bianchi Henry Miller nella "Lettera aperta ai surrealisti", ricapitolando la sua concezione di vita 'di poeta o di pazzo', tra l'altro scrive: "La fratellanza degli uomini è una delusione permanente, comune agli idealisti di ogni Paese e di ogni tempo... non bisogna aspettarsi alcuna misericordia. Il fatto è che siamo tutti dannati."Con questo esergo potrebbe iniziare un discorso attorno alla poetica di Clint Eastwood e, in particolare, alla sua violenza e disperazione e, ad onta della sua figura di uomo d'ordine, alla sua sostanziale anarchia. Quando Eastwood intitola A Perfect World il suo film sull'America, quando insiste sull'importanza del sogno o dell'allegoria - quell'Alaska sognata in cartolina o quel mondo rivissuto a rovescio - quel sogno e quella allegoria diventano elementi essenziali di una poetica della delusione, di un ordine esasperato o di un disordine misurato, che esprimono il suo 'dannato' senso di vivere.
Se ripercorriamo l'arco dei suoi film cercando di isolarne gli elementi stilistici essenziali e coglierne il senso ci si accorge di come Clint Eastwood sia uno dei pochi autori contemporanei che, con coerenza di linguaggio, insegue il suo sogno poetico, il rigore della messainscena, la malinconia negli affetti e la conseguente delusione sulla fratellanza tra gli uomini. Non esprimerà un sistema filosofico sempre coerente ma riesce a muoversi in un intrico di intuizioni, di paure, di disperazioni che assumono l'ordine di un discorso poetico e ideologico. Nel suo cinema la trama rischia a volte di essere un groviglio di situazioni, un dispositivo anarchico di cui l'immagine costituisce il supporto. Dietro il 'reale' esibito, si intravede una alternativa alla realtà stessa, un tessuto fatto di violenza e contraddizioni. Sul piano ontologico il suo cinema propone un mondo del contingente in cui i principi stessi della legge e della convivenza vengono dissolti. Lo sguardo anarchico pone in evidenza-queste contraddizioni quasi a sottolineare che tutto ciò che accade, accade perché possa accadere qualcos'altro, lo stesso universo che esprime, questa America dai contorni definiti eppure vista come una parabola, ha una connotazione abissale; dietro il visibile si annida una America misteriosa, una idea di malessere che ne altera l'aspetto come in Mezzanotte nel giardino del bene e del male, o in Absolute Power per lasciare il posto a una zona d'ombra, quasi un territorio metafisico del rischio.
Nel cinema di Eastwood - altro aspetto della sua modernità - il fittizio non e mai nelle cose ma nell'impossibile verosimiglianza di ciò che avviene e nel nascondere l'evidenza, mostrandola. La finzione, come avverte Foucault, consiste proprio non nel far vedere l'invisibile ma nel far vedere come è invisibile l'invisibilità del visibile. Da qui l'affermarsi della identità segnica della scrittura, che diviene essa stessa narrazione, diegesi. Gli squarci di luce, il taglio preciso, d'acciaio, delle azioni o il nero della pioggia che oscura le sequenze drammatiche di Unfogiven, affascinano più del disporsi dei fatti. Sono il moderno che si innerva nel modello classico, le trasgressioni che determinano le rotture, le impronte di Don Siegel e di Cimino, che lo hanno diretto nei suoi primi film, che riemergono.
In A perfect World la 'delusione permanente' per un mondo che di perfetto ha solo il nome, è esemplificata dall'apparenza di un paesaggio tranquillo dove la gentilezza e il sorriso nascondono profondi rancori e l'ordine pubblico, violenza e incomprensioni. Le lunghe sequenze in cui l'uomo e il bambino rapito attraversano questa America ottusa, avrebbero innamorato Genet, per quella forza di amicizia assoluta, che si conclude nel cerchio perfetto di vita e di morte. Paradossalmente è proprio questa specie di amour fou, inseguito per tutto l'arco del film, dal primo incontro tra lo sguardo di Phil, un bambino pieno di gioia di vivere e lo sguardo dell'adulto che quella gioia forse non ha mai vissuto, a divenire l'asse portante di questa tragica parabola. Il colpo implacabile del poliziotto-killer metterà la parola fine ma quel colpo di rivoltella sparato dal bambino come esorcismo ad una delusione, seguito da un abbraccio disperato, resta il punto più alto di questa storia d'amore, quasi un Sonetto di Shakespeare.
II discorso di A Per ct World sulla messainscena di una America perbene dove le convenzioni, il benessere piccolo-borghese e l'ordine tengono come alienati in tante gabbie i cittadini, continua e si fa ancora più teso e implacabile in Absolute Power, questa altra metafora poetica e politica. "Sei un manuale" dice una ragazza rivolta a Clint Eastwood nella parte di Luther, il protgonista, mentre in un museo sta ridisegnando, con estrema esattezza, un quadro. E, in effetti, proprio come in un manuale tutta l'attenzione di Eastwood regista è volta a rimettere in scena un accadimento badando oltre che all'ordine in cui si svolgono i fatti, a questa oscillazione semantica tra l'insieme e i dettagli. È un dettaglio aver inserito uno specchio cieco all'inizio del film, mentre Luther sta svaligiando un sontuoso appartamento, artifizio che permette a Luther, non visto, di assistere a un delitto sessuale; dettaglio che cambia il corso dei fatti e modifica il ruolo del protagonista da 'spettatore' a 'regista'. Come pure e un dettaglio quella lastra di vetro che rinfrange la luce, sviando la direzionalita dei proiettili, nel quasi piano-sequenza in cui i servizi segreti tentano di uccidere Luther, in un piano ricostruito, per simmetria geometrica, come l'agguato per l'assassinio di Kennedy.
Già dall'incipit Midnight in the Garden of Good and Evil stabilisce una sensazione di presentimento, una persistenza della memoria da cui non ci si riesce a liberare, che innesta un senso malsano di inquietudine. L'azione si svolge a Savannah, in Georgia, in una atmosfera falsamente romantica (una Via col vento intrisa di mescalina) all'inseguimento a ritroso di un delitto che ha sconvolto per otto anni la borghesia della città. Anche in questo film tutto appare come predisposto, dominato dalla messa in scena che accumula dati, dettagli, non-senses che conferiscono una sensazione di disagio che cresce mentalmente. Alcuni 'segni' vagamente surreali come certi insistenti ritratti di cani disposti alle pareti, o un guinzaglio vuoto portato a passeggio, o l'uomo circondato da mosche, stravolgono l'ordine naturale e introducono nell'atmosfera apparentemente realistica di una città, come arrestata nel tempo, con le sue case, i giardini e la gente 'felice', lacerazioni inquietanti.
Ancora una volta Eastwood impone questa sua capacità di andare oltre i fatti della narrazione, per realizzare un cinema che stravolge le consuetudini, costruendo con un minuzioso lavoro iconologico, un paesaggio perfettamente coincidente con quel che 'racconta', un paesaggio diegetico che reinventa, per dirla con Goethe, "lo spirito del tempo come lo spirito di coloro nei quali i tempi si riflettono". Certe articolazioni sensoriali, certi risvolti che producono effrazioni nella logica del racconto introducono una perversione visiva alla Lynch e trasferiscono nel diegetico l'irrazionale che si sovrappone al reale, in questo caso l'oscurità di un mito remoto di una morte Voodoo. Così l'assassinio, da parte di un ricco possidente, del suo giovane amante, resta nel torbido, non si saprà se per vera o falsa legittima difesa; quel che importa è che l'ucciso richiamato dalla morte uccide a sua volta il suo assassino, in un'allucinazione che si impone come realtà. In questo senso la capacità visionaria di Eastwood diviene tendenza, lo sguardo va oltre i racconto, il film si fa saggio sulle etnie che persistono nel Vecchio Sud, sulla sopravvivenza di una cultura nera. Il ballo delle debuttanti della borghesia haitiana come il rito del bridge riservato alle Dame della borghesia bianca, sono momenti anche iconici di un immaginario, che tende a riflettere la tensione tra un pensiero magico e un pensiero logico, in una persistenza del conflittuale, che e vita.
Quei tre uomini capovolti, a testa in giù come sospesi nell'abisso, che appaiono sul manifesto di Mystic River in una sottrazione di peso, come una inerzia dei corpi, sono la 'verbalizzazione' di un'opera che nasce come metafora dell'esistente e pensiero che si riflette, come rilettura di sé. Si ritrovano gli esiti della metafisica dell'inganno, la indicibilità e la deriva di esistenze segnate dall'infanzia, in una scrittura, sempre al bivio del bene e del male. Tre uomini, tre bambini ieri, una età in formazione segnata da un dramma che uno solo ha vissuto sulla propria esperienza e gli altri nella lacerazione di un dubbio, nel silenzio, nella elisione. Proprio l'elisione, la dimenticanza voluta incide, grava sulla formazione, tra il dire e il tacere, di queste vite parallele, nell'intrico di storie geometriche. Eastwood gioca sull'analogia, forma e de-forma i caratteri secondo una sua verosimiglianza, stabilisce per ciascuno un 'destino' - una figlia assassinata, uno stato continuo di paura, una instabilità amorosa. Analogie che perpetuano una situazione a più facce, e determinano un grumo esistenziale, un istinto primitivo di violenza, una maschera reticente anche quando la tragedia si compie. Una ferocia di vita che costruisce la silloge di una messa a morte, crudele, senza scampo, vertigine che riguarda tutte e tre le loro esistenze compiute.
Come per una partitura musicale, il cui approccio ermeneutico, segue un atto di amore e di corteggiamento, anche per milions dollars Baby occorre entrare in un atto amoroso, in conflitto e in dialettica, con quel 'circolo ermeneutico' che Gadamer definisce circolo della comprensione, esigendo risposte esaustive, in uno scontro frontale, anche violento, perché con violenza si vuole entrare nell'intimità dei pensieri, rubarne i segreti. Impadronirsi del testo, della sua vertigine, domandarsi del perché Eastwood ci porti in una America fuori dal tempo, in una luce che testimonia l'assenza e il silenzio, in un territorio sperduto di luci e di ombre a contatto con corpi solitari, in un'ansa remota, dove tutto ritorna ad essere familiare di quella grande lezione stilistica, che è stata l'America letteraria di Sherwood Anderson, di John Fante, delle fotografie dell'antologia Americana, di strade vuote, di grattacieli in controluce, di spiagge solitarie, di un mare invernale. Del perché questa scelta, ai confini della memoria ma tuttora presenti, del perché penetrare nei meandri di ricordi, di rimpianti, di stagioni rimosse, in questa palestra di ombre, di personaggi trasognati eppure così vitali nella loro semplice umanità. E di quelle intemerate, intestardite voglie di imparare a boxare, di quei saltelli e quei pugni su sacchi immobili, fermi nell'aria o su quei ring domestici, quasi in una danza di morte, di desideri insperati. Entrare nel gioco dei suoi pensieri significa 'verbalizzare' le intenzioni, i modi con cui Eastwood esprime le sue immagini, permettendo alla sensazione una consapevolezza riflessiva delle stesse intenzioni, andare oltre, leggere il film come metafora di un amore segreto, come piacere del corpo, come possessione e dolore, fino al sacrificio mortale dove si sente il peso del corpo, la leggerezza dei gesti, il maglio della sfida mortale. "Involando il tesoro della sua primavera:/ quel giorno a venire io fortifico ora/ contro al ferro crudele di distruggitrici Età/ perché non possa mai recider da memoria/ la bellezza del mio dolce amore ma soltanto la sua vita./ In queste nere linee parrà la sua bellezza/ e in loro egli vivrà di eterna giovinezza." (Shakespeare, Sonetto LXIII).
Eastwood non guarda che la memoria di qualcosa già accaduto che riaccade e il ricordo, che a sua volta ri-guarda, intriga la realtà che continua, crudelmente l'alienazione di sempre, la difficoltà di comunicare. Forse anche di amare nel senso comune, non di amare nel sussumere in proprio il destino dell'essere, nel gioire dei rischi e dei successi, spietatamente, sino al loro sublime - 'forma' questa di ogni innamoramento alle gioie in comune, ai dolori, alla morte. La voce recitante reintroduce nell'epica, la figura poetica della cantata, dà, ai fatti che accadono, il tono della ballata, il dolore della tragedia in atto, reintroduce la terza persona come in talune prose di Beckett, per scoprire come la ripetizione possa equivalere all'ostentazione di una non-persona, il fato, catalizzatrice di un dato crudele.
L'ostinazione della ragazza e la roccia della decisione, è il punto di una volontà, che insegue la brevità e la concisione, di voler essere allenata, di voler trasferire tutta se stessa nelle attese di grandi vittorie. Rigore, sacrificio, allenamento, giorni e giorni a provare, riprovare, bruciando gli anni di una vita breve, in una ascesi impossibile. Quasi un atto d'amore e di sacrificio, come l'amore tra l'uomo e il bambino in Perfect World, come il suono del sonetto di Shakespeare, rivissuto con una ragazza virile, dall'aspetto incantato e risoluto, dalla grazia brutale del danzatore e la lucida perdita di dimensione, quando 'gioca' sul ring. Nelle sequenze finali si sente una violenza rivolta a se stessi di un soffrire tutta la sofferenza possibile, restando alla soglia dell'abisso che attrae, per ritrovarsi al di là, come se si fosse attraversata la morte, per restituirla in un linguaggio secondo. In un universo dove il dopo è visto come già dato, in una rivisitazione à rebours.
Da Ritratti Autoritratti, Bulzoni Editore, Roma, 2006