mauridal
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mercoledì 2 ottobre 2024
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la tragedia della guerra
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Tutt’altro che la commedia ‘La grande Guerra di Comencini’ , questo film vuole rappresentare un aspetto della prima Guerra , una tragedia italiana nel conflitto con L Austria.Il regista Amelio ha voluto ricostruire un particolare della vicenda umana che ha coinvolto uomini soldato, mandati al macello in trincea e anche medici e infermieri che cercano di salvare feriti e moribondi negli ospedali da campo, e dunque coinvolti tutti nella guerra da diverse posizioni.
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Tutt’altro che la commedia ‘La grande Guerra di Comencini’ , questo film vuole rappresentare un aspetto della prima Guerra , una tragedia italiana nel conflitto con L Austria.Il regista Amelio ha voluto ricostruire un particolare della vicenda umana che ha coinvolto uomini soldato, mandati al macello in trincea e anche medici e infermieri che cercano di salvare feriti e moribondi negli ospedali da campo, e dunque coinvolti tutti nella guerra da diverse posizioni. Gianni Amelio ha voluto un film in fondo pacifista affermando “la guerra è un male da sradicare “ e intanto il novecento ha già visto una seconda Guerra mondiale e il secondo millennio l’inizio di nuove guerre in zone precise del mondo. Dunque il regista ha voluto rappresentare la guerra attraverso due personaggi ufficiali medici , Giulio e Stefano due uomini dalle diverse logiche di pensiero, due medici chirurghi amici dagli studi in medicina di diversa estrazione sociale ma soprattutto differenti nel affrontare la guerra ,si ritrovano a lavorare come medici in un ospedale militare in Friuli , quindi in piena guerra , ma con due posizioni verso i feriti e i soldati ricoverati . Per il capitano Stefano i soldati ricoverati per ferite auto procurate o appena curate , vanno subito rimandati al fronte pena fucilazione per tradimento . Per il medico tenente Giulio , le ferite dei poveri sodati spesso giovani, sono una possibilità di ritornare a casa . Dunque una opposta visione della guerra e dell’umanità che vi partecipa , per il dott. Giulio i feriti sono soldati da salvare riformandoli, e addirittura in casi di giovani disgraziati soldati del meridione ,le ferite e lievi menomazioni le procura lui stesso in segreto in ospedale . La differenza tra i due medici è ben rappresentata nel film come due posizioni ideologiche , militarismo guerrafondaio e antimilitarismo pacifista . Il militarismo di Stefano è la guerra come una necessità da affrontare per salvare la Patria e la storia , a tutti i costi anche con la vita dei soldati al macello, La posizione di Giulio è salvare le vite umane , soprattuto di poveri soldati a cui la storia della patria non interessa per niente poiché già derelitti e disgraziati nelle zone povere di provenienza Di questo anche la giovane infermiera Anna si rende conto , anche lei studentessa di medicina e amica dei due medici . Dunque un film chiaro nella sua semplicità di contenuto e il regista ha però reso le due figure protagoniste molto ben definite anche grazie ai due interpreti Alessandro Borghi e Gabriel Montesi che insieme a Federica Rosellini, hanno saputo ricreare l’intero reparto di un ospedale militare dove intanto verso la fine della guerra si diffonde anche l’epidemia di influenza detta spagnola che fece molti più morti civili in tutta Europa che non soldati della prima guerra .Nel finale della storia anche Giulio viene contagiato e muore di febbre sebbene assistito da Anna rimasta sua fedele amica. (mauridal)
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lunedì 30 settembre 2024
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Sono andato al cinema con grandi aspettative, Amelio è un regista che mi piace molto e la partecipazione all'81° Biennale del Cinema di Venezia era un ottimo biglietto da visita. Ne sono uscito profondamente deluso per diversi motivi.
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Sono andato al cinema con grandi aspettative, Amelio è un regista che mi piace molto e la partecipazione all'81° Biennale del Cinema di Venezia era un ottimo biglietto da visita. Ne sono uscito profondamente deluso per diversi motivi.
Iniziamo dal problema forse più grande, che riguarda la scrittura e fa perdere consistenza all’intero film. Si vorrebbe presentare il personaggio di Stefano Zorzi (Alessandro Borghi ) come una sorta di paladino della moralità, come unico portatore di umanità in una guerra che disumanizza in opposizione a Giulio Farrasi (Gabriel Montesi) zelante sostenitore della guerra e portatore di quell’ideale ancora risorgimentale per il quale fatta l’italia andavano fatti gli italiani, ovvero “uomini nuovi”, avvezzi al dovere etc.
All’inizio del film si vede come quest’ultimo giudichi come vigliacchi e truffatori i soldati ricoverati, molti dei quali effettivamente si sono provocati intenzionalmente delle lesioni per tornare a casa.
Zorzi invece opera delle mutilazioni sui feriti con l’obiettivo di farli tornare a casa, si comporterebbe come un “salvatore” e “buon medico” e soprattutto un individuo che agisce con testa propria, senza rimanere preda di un sistema spietato. Questo sostanzialmente è il tema principale attorno al quale si sviluppa la narrazione.
Mi sfugge tuttavia dove possa risiedere l’eccellenza morale di queste azioni, la compassione, difatti tanti uomini tornavano a casa creando dei “buchi” tra le fila quanti sarebbero stati chiamati al fronte dalle nuove leve per rimpiazzarli, esattamente come avvenne nel 1917 dove furono chiamati in trincea i giovani della classe 1899 (dunque poco più che adolescenti), i quali inizialmente non avrebbero dovuto combattere al fronte (ciò avvenne in seguito alle ingenti perdite avvenute con la decima offensiva delI’ Isonzo e la battaglia dell’Ortigiara). Lo stesso accade nel 1918 con la chiamata alle armi dei ragazzi nati nel 1900.
Lo si può quindi chiamare medico “dal buon cuore” come la narrazione del film lo vorrebbe far passare? Si tratta a mio parere di un medico che fa tornare a casa persone adulte le quali in ragione dei traumi provocati dal conflitto si automutilano, per condannare a morte dei ragazzi perpetuando in tal modo la spirale di morte senza porvi una fine ma semplicemente spostandola altrove.
Pulendosi superficialmente la coscienza il dott. Zorzi preferisce salvare chi si trova davanti ai suoi occhi e perde di vista completamente il quadro più generale: giovani esseri umani sarebbero ugualmente morti, magari sul campo, in altri ospedali, ma non in sua presenza e forse in tal senso la frase che si sente ripetere più volte nel corso del film: ”Qui non muore nessuno” assume un significato più profondo.
Nel non prendere in considerazione ciò, nell’adozione di una narrazione che nemmeno troppo velatamente encomia “l’umanità” di questo medico il film sbanda completamente, privando di consistenza il materiale del racconto. Potremmo dire con Nietzsche (in voga in q che il dottor Zorzi infine non è altro che l’esempio di uomo del ressentiment, che non riesce a guardare la realtà nella sua interezza, che la teme, che ha bisogno di sentirsi più che di essere effettivamente buono.
Ci sono poi errori di regia che uno spettatore attento non può fare a meno di notare e storcere ripetutamente il naso in più occasioni. Certamente ne è un esempio la non direzione delle comparse e delle figurazioni speciali: soldati che si apprestano a fucilare un condannato che non sanno marciare e non ci provano nemmeno. Sembra che camminino per strada come se fosse un giorno qualunque. Sempre nella stessa scena una lunga carrellata ritrae il pubblico di infermi e militari che assisterà all'esecuzione, seduti all’esterno dell’ospedale. Dove sarebbe il problema? Ci troviamo in Friuli e sulle montagne la neve è abbondante ma tra le persone che animano la scena non c’è il minimo accenno alla sensazione di freddo, sembra che le figurazioni siano sedute aspettando semplicemente di essere inquadrate, nessuno sta vivendo la scena.
Sulla stessa linea ho trovato fastidiosi gli attori che interpretano soldati provenienti da più parti d’Italia che quando parlano alternano il dialetto ad un Italiano sporcato ma pienamente comprensabile. Forse Amelio aveva l’intenzione di ritrarre le difficoltà
comunicative tra soldati dello stesso paese che parlavano lingue diverse ma lo ha fatto maldestramente. Non dimentichiamo che nelle trincee c’era un vero problema di comunicazione, spesso i soldati non capivano gli ordini, i dialetti dell’epoca erano molto più forti di quelli attuali, spesso c’era ben poco di lingua italiana, e non è stato fatto un lavoro per raccontare onestamente questa realtà che spesso aveva esiti tragici. La questione è stata banalizzata e presa superficialmente. Gli attori parlano con l’accento di oggi, non parlano una lingua come poteva essere il siciliano o il lucano e l’aggiunta dei sottotitoli è pleonastica in quanto i dialoghi sono facilmente comprensabili al pubblico.
Ulteriore difficoltà nel credere a ciò che si vede è rappresentata dai soldati in reparto: quando la telecamera passa tra i letti non si percepisce in alcun modo la loro sofferenza. Se non fosse per il trucco che mette in evidenza quelle tremende ferite, ustioni etc, la scenografia, i costumi macchiati di sangue, non avrei la percezione del dolore. Nella recitazione l’abito contribuisce a fare il monaco, ma se non si è minimamente monaco il pubblico se ne accorge.
Stesso discorso vale in quei momenti in cui i pazienti parlano con i medici. Gli attori dicono la loro battuta, sono truccati ma in pochissimi casi ( come quello del bambino) mi è arrivata un’autentica patimento, nel resto ho ascoltato le loro parole, ma non ho provato compassione per loro. La comunicazione non passa solo per le parole, ma anche nel modo in cui vengono dette. Stridevano. E queste non sono solo mancanze degli attori, il regista deve dirigere gli attori, ho visto attori mediocri ben diretti dare vita ad ottime interpretazioni e bravi attori diretti male farne di tremende.
Ho notato poi errori grossolani di regia e recitazione nei quali era coinvolta Federica Rosellini. Nel primo caso il suo personaggio guarda un campione al microscopio in una stanza molto buia perdipiù senza alcuna luce che illumini da sotto il vetrino. Si potrebbe pensare che si tratti di un errore tutto sommato non grave, se non si è medici o biologi non si possono sapere certe cose, eppure non bisogna essere specialisti per capire che in quelle condizioni non si può osservare un bel niente. La gravità non sta nell’azione in sè, ma nel significato che essa assume quando parliamo di recitazione: ci si rende conto che l’attrice non sta vivendo la scena, non crede nell’azione che compie, semplicemente e meccanicamente la compie perchè così è scritta nel copione. Il suo personaggio ha studiato medicina, sa come utilizzare un microscopio. Da un punto di vista attoriale lo trovo un errore non da poco, mi fa rendere conto che ciò a cui sto assistendo non solo è una finzione ma una messa in scena, il che è diverso.
Altra problematicità risiede in un’altra scena, presente tra l’altro nel trailer in cui Anna (Rosellini) si trova tête-à-tête con il dott. Zorzi al di fuori del ricovero della trincea. Di nuovo ho avuto l’impressione di trovarmi davanti ad una mise-en-scene piuttosto che ad una realtà vissuta e sentita dagli attori. Forse con questo momento di intimità si voleva raccontare un possibile legame sentimentale non ancora esplicito tra i due? O semplicemente un momento in cui due esseri umani provati dalle difficoltà del conflitto e dal trovarsi come personale sanitario in un’epidemia senza controllo che miete vittime, hanno bisogno di un contatto umano? Ma ci possono anche essere altre interpretazioni sulle quali non mi interessa soffermarmi. Credo che l’ambiguità della scena sia voluta. La questione è che nelle scene precedenti, prima che Zorzi si ammali i due girano con la mascherina per evitare di venire contagiati dai soldati.
Quando Zorzi inizia a star male dando i segni dell’avvenuto contagio lei continua a stare con lui, a dormire nella stanza per poi raggiungere il massimo con quell’intimità, però contestualmente e in maniera del tutto incoerente continua a mettere la mascherina in presenza dei malati in reparto.
Ma non finisce qui, in un’ulteriore scena Anna giunge al letto di un paziente e gli copre la testa con la coperta, segno che il soldato è morto e fa ciò senza aver preliminarmente sentito il polso, il respiro etc. Insomma senza avere nessun dato che possa dirle che quel paziente è morto. Compie l’azione tanto per compierla.
Pertanto anche per questi ultimi due casi descritti vale il discorso fatto precedentemente: ho avvertito la meccanicità dell’azione, la falsità, il non interrogarsi e non vivere la contingenza del personaggio .
Sembra poi che sui costumi sia stato compiuto un lavoro a dir poco approssimativo. Anche in questo caso ho perso il senso della realtà nei confronti di ciò che stavo guardando. Da una parte c’è stata grande cura e attenzione nella scelta dei costumi, nell’uso di uniformi etc uguali a quelli usati all’epoca, dall’altra i camici erano bianchissimi ( più bianchi di quelli che si vedono nei moderni reparti) circostanza alquanto irrealistica nello scenario di un ospedale delle retrovie verso la fine del conflitto, pieno di pazienti con sangue da tutte le parti. Le uniformi dei soldati, se si esclude qualche schizzo di sangue e qualche strappo vistosamente artificioso risultano nuove. Non è stato fatto alcun lavoro di invecchiamento su uniformi che sarebbero dovute essere decisamente rovinate. Lo stesso vale per gli accessori come cinghie di pelle che reggono i fucili completamente nuove e senza alcun segno di usura.
Tutte queste osservazioni potrebbero sembrare le note di uno spettatore troppo puntiglioso e soprattutto superflue, ma credo che il senso del vero in film di questo tipo sia fondamentale e non è stato veicolato in alcun modo, dalla regia alla recitazione passando per costumi e scenografia. In tutto ciò ovviamente la responsabilità maggiore la ha il regista, colui che dirige il set e dà precise direttive durante la fase di preparazione. Quando vedo un film, soprattutto in una sala cinematografica voglio immergermi in ciò che vedo, ci voglio credere senza remore in questo consiste il patto narrativo, giusto? In questo caso ogni volta che provavo a godermi lo spettacolo venivo respinto, ed è un vero peccato. Le opere d’arte possono provocare i sentimenti e le reazioni più svariate, possono portare allo straniamento, al disgusto ma non devono mai e poi mai respingere lo spettatore, altrimenti non sono opere d’arte.
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Recensione campo di battaglia Sono andato al cinema con grandi aspettative, Amelio è un regista che mi piace molto e la partecipazione i all’81° Biennale del Cinema di Venezia era un ottimo biglietto da visita. Ne sono uscito profondamente deluso per diversi motivi. Iniziamo dal problema forse più grande, che riguarda la scrittura e fa perdere consistenza all’intero film. Si vorrebbe presentare il personaggio di Stefano Zorzi (Alessandro Borghi ) come una sorta di paladino della moralità, come unico portatore di umanità in una guerra che disumanizza in opposizione a Giulio Farrasi (Gabriel Montesi) zelante sostenitore della guerra e portatore di quell’ideale ancora risorgimentale per il quale fatta l’italia andavano fatti gli italiani, ovvero “uomini nuovi”, avvezzi al dovere etc.
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Recensione campo di battaglia Sono andato al cinema con grandi aspettative, Amelio è un regista che mi piace molto e la partecipazione i all’81° Biennale del Cinema di Venezia era un ottimo biglietto da visita. Ne sono uscito profondamente deluso per diversi motivi. Iniziamo dal problema forse più grande, che riguarda la scrittura e fa perdere consistenza all’intero film. Si vorrebbe presentare il personaggio di Stefano Zorzi (Alessandro Borghi ) come una sorta di paladino della moralità, come unico portatore di umanità in una guerra che disumanizza in opposizione a Giulio Farrasi (Gabriel Montesi) zelante sostenitore della guerra e portatore di quell’ideale ancora risorgimentale per il quale fatta l’italia andavano fatti gli italiani, ovvero “uomini nuovi”, avvezzi al dovere etc. All’inizio del film si vede come quest’ultimo giudichi come vigliacchi e truffatori i soldati ricoverati, molti dei quali effettivamente si sono provocati intenzionalmente delle lesioni per tonare a casa. Zorzi invece opera delle mutilazioni sui feriti con l’obiettivo di farli tornare a casa, si comporterebbe come un “salvatore” e “buon medico” e soprattutto un individuo che agisce con testa propria, senza rimanere preda di un sistema spietato. Questo sostanzialmente è il tema principale attorno al quale si sviluppa la narrazione. Mi sfugge tuttavia dove possa risiedere l’eccellenza morale di queste azioni, la compassione, difatti tanti uomini tornavano a casa creando dei “buchi” tra le fila quanti sarebbero stati chiamati al fronte dalle nuove leve per rimpiazzarli, esattamente come avvenne nel 1917 dove furono chiamati in trincea i giovani della classe 1899 (dunque poco più che adolescenti), i quali inizialmente non avrebbero dovuto combattere al fronte (ciò avvenne in seguito alle ingenti perdite avvenute con la decima offensiva delI’ Isonzo e la battaglia dell’Ortigiara). Lo stesso accade nel 1918 con la chiamata alle armi dei ragazzi nati nel 1900. Lo si può quindi chiamare medico “dal buon cuore” come la narrazione del film lo vorrebbe far passare? Si tratta a mio parere di un medico che fa tornare a casa persone adulte le quali in ragione dei traumi provocati dal conflitto si automutilano, per condannare a morte dei ragazzi perpetuando in tal modo la spirale di morte senza porvi una fine ma semplicemente spostandola altrove. Pulendosi superficialmente la coscienza il dott. Zorzi preferisce salvare chi si trova davanti ai suoi occhi e perde di vista completamente il quadro più generale: giovani esseri umani sarebbero ugualmente morti, magari sul campo, in altri ospedali, ma non in sua presenza e forse in tal senso la frase che si sente ripetere più volte nel corso del film: ”Qui non muore nessuno” assume un significato più profondo. Nel non prendere in considerazione ciò, nell’adozione di una narrazione che nemmeno troppo velatamente encomia “l’umanità” di questo medico il film sbanda completamente, privando di consistenza il materiale del racconto. Potremmo dire con Nietzsche (in voga in q che il dottor Zorzi infine non è altro che l’esempio di uomo del ressentiment, che non riesce a guardare la realtà nella sua interezza, che la teme, che ha bisogno di sentirsi più che di essere effettivamente buono. Ci sono poi errori di regia che uno spettatore attento non può fare a meno di notare e storcere ripetutamente il naso in più occasioni. Certamente ne è un esempio la non direzione delle comparse e delle figurazioni speciali: soldati che si apprestano a fucilare un condannato che non sanno marciare e non ci provano nemmeno. Sembra che camminino per strada come se fosse un giorno qualunque. Sempre nella stessa scena una lunga carrellata ritrae il pubblico di infermi e militari che assisterà all’esecuzione, sono seduti all’esterno dell’ospedale. Dove sarebbe il problema? Ci troviamo in Friuli e sulle montagne la neve è abbondante ma tra le persone che animano la scena non c’è il minimo accenno alla sensazione di freddo, sembra che le figurazioni siano sedute aspettando semplicemente di essere inquadrate, nessuno sta vivendo la scena. Sulla stessa linea ho trovato fastidiosi gli attori che interpretano soldati provenienti da più parti d’Italia che quando parlano alternano il dialetto ad un Italiano sporcato ma pienamente comprensibile. Forse Amelio aveva l’intenzione di ritrarre le difficoltà comunicative tra soldati dello stesso paese che parlavano lingue diverse ma lo ha fatto maldestramente. Non dimentichiamo che nelle trincee c’era un vero problema di comunicazione, spesso i soldati non capivano gli ordini, i dialetti dell’epoca erano molto più forti di quelli attuali, spesso c’era ben poco di lingua italiana, e non è stato fatto un lavoro per raccontare onestamente questa realtà che spesso aveva esiti tragici. La questione è stata banalizzata e presa superficialmente. Gli attori parlano con l’accento di oggi, non parlano una lingua come poteva essere il siciliano o il lucano e l’aggiunta dei sottotitoli è pleonastica in quanto i dialoghi sono facilmente comprensibili al pubblico. Ulteriore difficoltà nel credere a ciò che si vede è rappresentata dai soldati in reparto: quando la telecamera passa tra i letti non si percepisce in alcun modo la loro sofferenza. Se non fosse per il trucco che mette in evidenza quelle tremende ferite, ustioni etc, la scenografia, i costumi macchiati di sangue, non avrei la percezione del dolore. Nella recitazione l’abito contribuisce a fare il monaco, ma se non si è minimamente monaco il pubblico se ne accorge. Stesso discorso vale in quei momenti in cui i pazienti parlano con i medici. Gli attori dicono la loro battuta, sono truccati ma in pochissimi casi ( come quello del bambino) mi è arrivata un’autentica patimento, nel resto ho ascoltato le loro parole, ma non ho provato compassione per loro. La comunicazione non passa solo per le parole, ma anche nel modo in cui vengono dette. Stridevano. E queste non sono solo mancanze degli attori, il regista deve dirigere gli attori, ho visto attori mediocri ben diretti dare vita ad ottime interpretazioni e bravi attori diretti male farne di tremende. Ho notato poi errori grossolani di regia e recitazione nei quali era coinvolta Federica Rosellini. Nel primo caso il suo personaggio guarda un campione al microscopio in una stanza molto buia perdipiù senza alcuna luce che illumini da sotto il vetrino. Si potrebbe pensare che si tratti di un errore tutto sommato non grave, se non si è medici o biologi non si possono sapere certe cose, eppure non bisogna essere specialisti per capire che in quelle condizioni non si può osservare un bel niente. La gravità non sta nell’azione in sè, ma nel significato che essa assume quando parliamo di recitazione: ci si rende conto che l’attrice non sta vivendo la scena, non crede nell’azione che compie, semplicemente e meccanicamente la compie perchè così è scritta nel copione. Il suo personaggio ha studiato medicina, sa come utilizzare un microscopio. Da un punto di vista attoriale lo trovo un errore non da poco, mi fa rendere conto che ciò a cui sto assistendo non solo è una finzione ma una messa in scena, il che è diverso. Altra problematicità risiede in un’altra scena, presente tra l’altro nel trailer in cui Anna (Rosellini) si trova tête-à-tête con il dott. Zorzi al di fuori del ricovero della trincea. Di nuovo ho avuto l’impressione di trovarmi davanti ad una mise-en-scene piuttosto che ad una realtà vissuta e sentita dagli attori. Forse con questo momento di intimità si voleva raccontare un possibile legame sentimentale non ancora esplicito tra i due? O semplicemente un momento in cui due esseri umani provati dalle difficoltà del conflitto e dal trovarsi come personale sanitario in un’epidemia senza controllo che miete vittime, hanno bisogno di un contatto umano? Ma ci possono anche essere altre interpretazioni sulle quali non mi interessa soffermarmi. Credo che l’ambiguità della scena sia voluta. La questione è che nelle scene precedenti, prima che Zorzi si ammali i due girano con la mascherina per evitare di venire contagiati dai soldati. Quando Zorzi inizia a star male dando i segni dell’avvenuto contagio lei continua a stare con lui, a dormire nella stanza per poi raggiungere il massimo con quell’intimità, però contestualmente e in maniera del tutto incoerente continua a mettere la mascherina in presenza dei malati in reparto. Ma non finisce qui, in un’ulteriore scena Anna giunge al letto di un paziente e gli copre la testa con la coperta, segno che il soldato è morto e fa ciò senza aver preliminarmente sentito il polso, il respiro etc. Insomma senza avere nessun dato che possa dirle che quel paziente è morto. Compie l’azione tanto per compierla.
Pertanto anche per questi ultimi due casi descritti vale il discorso fatto precedentemente: ho avvertito la meccanicità dell’azione, la falsità, il non interrogarsi e non vivere la contingenza del personaggio . Sembra poi che sui costumi sia stato compiuto un lavoro a dir poco approssimativo. Anche in questo caso ho perso il senso della realtà nei confronti di ciò che stavo guardando. Da una parte c’è stata grande cura e attenzione nella scelta dei costumi, nell’uso di uniformi etc uguali a quelli usati all’epoca, dall’altra i camici erano bianchissimi ( più bianchi di quelli che si vedono nei moderni reparti) circostanza alquanto irrealistica nello scenario di un ospedale delle retrovie verso la fine del conflitto, pieno di pazienti con sangue da tutte le parti. Le uniformi dei soldati, se si esclude qualche schizzo di sangue e qualche strappo vistosamente artificioso risultano nuove. Non è stato fatto alcun lavoro di invecchiamento su uniformi che sarebbero dovute essere decisamente rovinate. Lo stesso vale per gli accessori come cinghie di pelle che reggono i fucili completamente nuove e senza alcun segno di usura. Tutte queste osservazioni potrebbero sembrare le note di uno spettatore troppo puntiglioso e soprattutto superflue, ma credo che il senso del vero in film di questo tipo sia fondamentale e non è stato veicolato in alcun modo, dalla regia alla recitazione passando per costumi e scenografia. In tutto ciò ovviamente la responsabilità maggiore la ha il regista, colui che dirige il set e dà precise direttive durante la fase di preparazione. Quando vedo un film, soprattutto in una sala cinematografica voglio immergermi in ciò che vedo, ci voglio credere senza remore in questo consiste il patto narrativo, giusto? In questo caso ogni volta che provavo a godermi lo spettacolo venivo respinto, ed è un vero peccato. Le opere d’arte possono provocare i sentimenti e le reazioni più svariate, possono portare allo straniamento, al disgusto ma non devono mai e poi mai respingere lo spettatore, altrimenti non sono opere d’arte.
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corebo
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domenica 29 settembre 2024
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ottimo film
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Un film storico che ti catapulta in una situazione vissuta dai nostri nonni e bisnonni, ben rappresentata la prima guerra mondiale, poco sentita da ragazzi di un Italia ancora in gran parte analfabeta, combattuta fra due fonti i cosiddetti Patrioti e i socialisti che avanzavano come classe politica. Bravi gli attori nessuno escluso in particolare i ragazzi feriti e/o gravemente malati. Film che fa riflettere sullo stato attuale delle cose dove è in corso la terza guerra mondiale combattuta a macchia di leopardo.
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enrico
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mercoledì 25 settembre 2024
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tempo buttato
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Una vera noia. Non aggiunge nulla a ciò che della guerra già si sa. Melenso, retorico, psicologia elementare. Gli attori pricipali uno strazio: la Rossellini ha sempre la stessa espressione. Pare di sentire il regista che le dice: sii triste, sii pensierosa, sii perplessa, sii arrabbiata... niente, una statua di marmo. Non portateci le scolaresche, capiranno che gli adulti mentono quando sostengono di avere dei sentimenti, visto che nemmeno nella finzione riescono a imitarli.
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luigi
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venerdì 20 settembre 2024
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top vince vivenzio (il soldato napoletano)
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Ho visto il film ieri sera, gran bel film che mostra un lato sempre tragico della guerra, ma diverso. Bravi gli attori, ma quello che mi è piaciuto più di tutti è il soldato napoletano, un interpretazione magnifica del "pazzo" le scene seduto sul camion, sotto il letto, per terra, sono da brivido mentre quella nell'osteria mostra tutta la sua presenza scenica. Che dire di Vince Vivenzio? Sicuramente un attore che merita tanto di più! Mi piacerebbe rivederlo in altre "sfide".
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vittorio stano
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giovedì 19 settembre 2024
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la guerra e'' una malattia da sradicare
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La guerra è una malattia da sradicare, ma dalle radici inafferrabili, ha affermato il regista Gianni Amelio commentando la sua ultima, intensa opera cinematografica "Campo di battaglia". Il dolore, le atrocità della guerra, la morte, dalle braci del '900 ci portano inesorabilmente alle guerre di oggi: all'Ucraina, alla martoriata Palestina, dove a tutt'oggi sono stati massacrati più di 20mila bambini. Gli echi guerreschi che coniugavano patria, gloria , vittoria, valore, eroismo, sacrificio emergono dall'immondezzaio della Sto e minacciano d'incendiare l'intero pianeta. Tocca a noi, uomini e donne di buona volontà contrapporci a questa marea di odio montante e ricacciarlo, con coraggio e fermezza fuori dalla Storia.
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La guerra è una malattia da sradicare, ma dalle radici inafferrabili, ha affermato il regista Gianni Amelio commentando la sua ultima, intensa opera cinematografica "Campo di battaglia". Il dolore, le atrocità della guerra, la morte, dalle braci del '900 ci portano inesorabilmente alle guerre di oggi: all'Ucraina, alla martoriata Palestina, dove a tutt'oggi sono stati massacrati più di 20mila bambini. Gli echi guerreschi che coniugavano patria, gloria , vittoria, valore, eroismo, sacrificio emergono dall'immondezzaio della Sto e minacciano d'incendiare l'intero pianeta. Tocca a noi, uomini e donne di buona volontà contrapporci a questa marea di odio montante e ricacciarlo, con coraggio e fermezza fuori dalla Storia. Diplomazia e dialogo tra i popoli ci vuole. Campo di battaglia è un film d'ispirazione pacifista e antimilitarista. Fa da lente d'ingrandimento sulla guerra di un secolo fa per parlare delle atrocità di oggi, ai conflitt il nostro presente. il film inizia con una pira di cadaveri di soldati e uno di loro, più fortunato, con un pungolo fa pressione sui corpi per vedere se qualcuno ancora reagisce e portarlo dove può essere curato. Essere rimessi in sesto più che guarirli, con lo scopo di rispedirli presto i prima linea, pronti per morire per la patria lungo le trincee. La narrativa si sposta in un ospedale militare non lontano dal fronte friulano. Qui troviamo tre amici di estrazione altoborghese, due medici e un'infermiera che con il loro approccio verso i soldati feriti e mala esprimono tre differenti morali. Stefano (Gabriel Montesi) è un capitano burbero e disumano, non accetta la "codardia" dei "furbetti che "tolgono il posto letto ai valorosi". Secondo lui i simulatori sono miserabili che si sono procurati da soli il modo di evitare il combattimento. E' l'archetipo del militare distante dagli uomini e pronto a mandarli al massacro senza risparmio. Ottuso e insensibile anche di fronte alla carneficina della guerra. Stefano è pronto a una carriera politica nel dopoguerra. Giulio (Alessandro Borghi) è sensibile e comprensivo, capace di immedesimarsi nelle paure dei soldati/pazienti. Arriva a contagiare, mutilare e privare (magari temporaneamente) della vista e dell'udito quei soldati che vorrebbero solo tornare a casa ad abbracciare i loro cari. Per loro lui è "la mano santa". Anna (Federica Rossellini), infermiera volontaria della Croce Rossa, tra le più brave all'Università, ma non ha potuto laurearsi in Medicina per stereotipi contro le donne. La stessa famiglia non ha voluto. <<...E poi ho messo la testa a posto!>>, dice lei. E' quindi anche la mancanza di autostima che l'ha portata a sottovalutare le proprie qualità, non solo la società maschilista del tempo. Anna ascolta Stefano e Giulio esercitando una pietas istintiva verso quei soldati poveri e giovanissimi che si esprimono solo in dialetto e si sono trovati in mezzo a un CONFLITTO CHE NON LI RIGUARDA AFFATTO. Gianni Amelio simpatizza per i soldati, anime semplici che parlavano un'altra lingua: i contadini del regno della meschina italietta sabauda. Mentre morivano nelle trincee, i loro superiori proseguivano le loro cene e i loro calcoli strategici per conquistare pochi metri in mesi di massacri. Queste anime semplici stanche e stremate dal prolungarsi dei combattimenti reclamano il riposo, il cambio, essendo repressi con le decimazioni. Per questi soldati non era una guerra di popolo, ma una guerra dalle logiche di classe molto forti. Si fece ricorso al carcere e alle fucilazioni e decimazioni contro i renitenti. Sono questi, insieme a chi moriva in trincea, carne da macello. Sono calabresi, sardi, siciliani, pugliesi, friulani che occupano le corsie, spesso automutilandosi con la speranza di ritornare a casa , invece che all'appuntamento con la morte. Diverse migliaia di loro furono condannati a morte o all'ergastolo, con la sola colpa di VOLER VIVERE. Sul fronte di guerra , proprio verso la fine del conflitto, si diffonde una infezione che colpisce più delle armi nemiche: la "febbre delle trincee". E' l'influenza Spagnola. E presto contagia anche la popolazione civile. La diffusione verrà favorita dal massiccio spostamento di truppe nel mondo e dalle pessime condizioni igieniche di trincee e accampamenti. L'estensione del lutto nella popolazione mondiale a seguito di questi eventi è stata tale da farci pensare che nessun nucleo familiare ne sia rimasto indenne. Fece temere la "fine del mondo". I giornali non ne parlavano ma la pandemia fece in Italia più di 600mila morti (50milioni in tutto il mondo). I morti italiani nella grande guerra furono ufficialmente 650mila, ma qualche storico ipotizza che il numero globale raggiunse il milione, calcolando le decine di migliaia di militari che morirono anche anni dopo il conflitto in conseguenza delle malattie o delle ferite contratte in guerra. Oltre 1 milione e mezzo i feriti, tra questi 500mila rimasero mutilati o invalidi permanenti. Campo di battaglia è un monito che ci invita a guardare all'oggi, ai conflitti che devastano il nostro presente, alle terribili conseguenze che si ripercuotono immancabilmente sull'incolpevole popolazione civile. Toccante il grido di sdegno e di dolre della donna che viene respinta con ferocia, insieme al suo bambino malato, dai militari: ASSASSINI ! VITTORIO STANO
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laurab
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giovedì 19 settembre 2024
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quando il bel cinema fa riflettere
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Una mano che si protende e chiede aiuto, chiede di essere salvata e dice “ascoltami, sono ancora viva”. In una lingua che a tratti sembra incomprensibile ma che racconta di mille vite diverse che si ritrovano a servire una patria e un ideale percepito dai più come un ingannevole obbligo.
E così, nella totale assurdità della guerra e in una variegata umanità, ci sono uomini che fanno la differenza, che scelgono di agire seguendo il proprio sentire.
Giulio e Stefano, medici e amici, hanno due opposte visioni della guerra e della vita e agiscono seguendo l’uno la salvezza e l’altro il sacrificio. Umanità e dovere è il binomio che si dipana per tutto il film diretto con grande maestria dal regista che non cade mai nella tentazione di propendere per uno dei due protagonisti, lasciando allo spettatore la riflessione su quanto sia profonda l’insensatezza di ogni perdita umana e di ogni guerra.
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Una mano che si protende e chiede aiuto, chiede di essere salvata e dice “ascoltami, sono ancora viva”. In una lingua che a tratti sembra incomprensibile ma che racconta di mille vite diverse che si ritrovano a servire una patria e un ideale percepito dai più come un ingannevole obbligo.
E così, nella totale assurdità della guerra e in una variegata umanità, ci sono uomini che fanno la differenza, che scelgono di agire seguendo il proprio sentire.
Giulio e Stefano, medici e amici, hanno due opposte visioni della guerra e della vita e agiscono seguendo l’uno la salvezza e l’altro il sacrificio. Umanità e dovere è il binomio che si dipana per tutto il film diretto con grande maestria dal regista che non cade mai nella tentazione di propendere per uno dei due protagonisti, lasciando allo spettatore la riflessione su quanto sia profonda l’insensatezza di ogni perdita umana e di ogni guerra.
E così ognuno la combatte a modo suo cercando di sconfiggere l’impotenza opponendo la ragione e il sentimento, travalicando ogni confine e ogni rigida imposizione.
Il film colpisce duro, l’angoscia e la sofferenza sono percepibili come la disperata ricerca di cura e di protezione contro una pandemia che inesorabilmente riporta ad avvenimenti maledettamente recenti.
Ma ciò che mi ha toccato nel profondo, è stata la consapevolezza della cecità umana, di quanto il potere e l’arroganza riescano ad offuscare le menti e a prevaricare sul senso di giustizia e di pace. Declinati nel passato e, purtroppo, nel presente.
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lunedì 16 settembre 2024
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smettiamo di andare alla guerra
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Più che un commento la mia è una riflessione; mi piacerebbe che ogni uomo invece di autoferirsi per uscire dala guerra si rifiutasse a priori di andare a combattere in nome di sporchi interessi di pochi cinici individui..... Purtroppo mi rendo conto che esistono fanatici che amano la violenza e la guerra, amano uccidere .... sob
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rosmersholm
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venerdì 13 settembre 2024
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nobile
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Film di nobili intenzioni e notevole sforzo produttivo, appesantito da una sceneggiatura scolastica che enuncia continuamente i temi del conflitto senza che questi si sviluppino veramente. La recitazione poi, nonostante sia affidata ai migliori attori italiani, soffre una direzione superficiale: troppo monocorde Montesi così come Borghi, che sembra muoversi al rallentatore per tutto il film. La Rosellini, formidabile attrice di teatro, continua a non trovare la sua vera dimensione di attrice cinematografica. Alcune incongruenze macroscopiche, come la mano del soldato siciliano durante la fucilazione che si libera magicamente per togliere la benda o l'ingresso, totalmente forzato, di Anna nella fortezza.
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