Sottoposti alla rude prova del reale, Lia e Giulio fioriscono come ‘belle di notte’, il fiore del crepuscolo che si nasconde ai raggi del sole e si accende nelle notti d’estate. Al cinema.
di Marzia Gandolfi
Nei giochi infantili, la tana è quel luogo sicuro in cui ci si rifugia per salvarsi o nascondersi da un avversario (ludico). A rincorrere Lia, giovane donna introversa, è la vita, a stanarla è Giulio, vicino di casa con una manciata di anni in meno. Le stagioni e l’esperienza che li separano si riducono con l’entusiasmo di chi scopre per la prima volta l’alba. Ma nella tana del titolo, Lia custodisce un dolore e un segreto.
Al riparo dalla bellezza del mondo, che Beatrice Baldacci, al suo esordio, sublima con la luce d’estate, la protagonista accudisce sua madre, l’ombra di sua madre, affetta da una malattia degenerativa. Ed è più difficile gestire il martirio d’estate, quando le porte e le finestre sono spalancate, quando il sole ti invita a uscire e a fare l’amore sul prato. L’autrice posiziona camera e sguardo proprio lì, in quello spazio che non è più dentro né fuori. Uno spazio bucolico e brulicante di vita come un giardino che entra in camera col sole.
In quell’intervallo fisico e ideale è difficile chiudersi anche per Lia, che attraversa i campi, arriva al fiume o all’orlo di un precipizio fino a incontrare Giulio e a giocare con lui la morte in pieno sole. Perché Lia flirta con la morte che declina creativamente: scavare fosse in cui seppellirsi per un bacio, procedere a marcia indietro verso l’abisso, guidare a fari spenti nella notte “per vedere se poi è tanto difficile morire”, come per sua madre, spenta da dentro e appassita nel giardino che amava tanto.
Beatrice Baldacci frammenta il suo racconto in due istanze, il romanzo di formazione convive col tema della fine dei giorni, piantati generosamente nella natura e in un décor che non si limita a creare un’atmosfera. Alberi, fiori, acqua, sole, cielo, nuvole hanno un ruolo da giocare: schiudersi e diffondere sensazioni. Un’atmosfera fatta di malinconia, di sospensione temporale, di dolente dolcezza. Nel film ogni elemento contribuisce a comporre un corpo impossibile da smembrare.
C’è un gusto per l’erranza e il sensibile nel cinema germinale della Baldacci, che attinge le sue risorse da una perdita e da un’educazione sentimentale. La seconda bilancia la prima, prendendo su di sé il mal di vivere e il male da vivere. La morte in agguato che rode la protagonista è in risonanza con la fine dell’adolescenza di Giulio. tana disegna allora una concomitante separazione da un ambiente protetto, quella bolla che prima o poi qualcosa o qualcuno fa scoppiare. Tutto si gioca sotto la superficie delle cose, della campagna, della vita, dell’estate, stagione ambivalente con la sua bellezza a portata di mano come il vuoto, e quello che traspare non è niente comparato ai tormenti che affliggono Lia.
Non è mai facile al cinema filmare la malattia o la morte. Come possiamo rappresentare il declino, la scomparsa, il nulla? Come può il cinema, arte del visibile e della presenza, osservare quell’invisibile e silenziosa lavoratrice? La regista accompagna il non figurabile con due testimoni che non sono mai stati più vivi. Irene Vetere e Lorenzo Aloi, luminosi e in controtempo, dimostrano una determinazione e un gusto del rischio (e dell’abisso) impareggiabili. Con loro la vita si impone, dappertutto, come quell’idea essenzialmente spettacolare e catartica che è il cinema.
La tana è un film che si aggrappa al fiore della giovinezza e a due protagonisti che lo magnificano. Nel buio di una casa senza più intenzioni, resta la morte e la sua ombra, che r-inizializza la vita, sconvolge i luoghi familiari e rimescola le carte dell’identità. Sottoposti alla rude prova del reale, Lia e Giulio fioriscono come “belle di notte”, il fiore del crepuscolo che si nasconde ai raggi del sole e si accende nelle notti d’estate.