Titolo originale Ford V. Ferrari.
Azione,
Ratings: Kids+13,
durata 152 min.
- USA 2019.
- 20th Century Fox Italia
uscita giovedì 14novembre 2019.
MYMONETROLe Mans '66 - La grande sfida
valutazione media:
3,65
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
James Mangold dirige la storia sulla preparazione alla 24 ore di Le Mans 1966, annata storica che portò il cambio della guardia al vertice e chiuse l’indiscussa egemonia Ferrari verso la altre case, Ford in primis. Al centro del racconto due tycoon come Henry Ford II ed Enzo Ferrari, col primo re delle vendite ma lontano da trofei sportivi e il Drake in crisi economica ma indubbio trionfatore di gare e nicchia automobilistica. E’ proprio il cavillo Le Mans che fa saltare l’accordo e l’unione finanziaria tra i due, portando il magnate americano a dichiarare guerra al rivale, pronto perciò ad assegni in bianco pur di ottenere uomini e mezzi che innalzino il suo marchio nella più prestigiosa corsa d’epoca.
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James Mangold dirige la storia sulla preparazione alla 24 ore di Le Mans 1966, annata storica che portò il cambio della guardia al vertice e chiuse l’indiscussa egemonia Ferrari verso la altre case, Ford in primis. Al centro del racconto due tycoon come Henry Ford II ed Enzo Ferrari, col primo re delle vendite ma lontano da trofei sportivi e il Drake in crisi economica ma indubbio trionfatore di gare e nicchia automobilistica. E’ proprio il cavillo Le Mans che fa saltare l’accordo e l’unione finanziaria tra i due, portando il magnate americano a dichiarare guerra al rivale, pronto perciò ad assegni in bianco pur di ottenere uomini e mezzi che innalzino il suo marchio nella più prestigiosa corsa d’epoca. E’ troppo infatti per l’italiano arrivare a patti, visto che le macchine col cavallino rampante vincono la gara consecutivamente dal 1960. Tracy Letts e Remo Girone impersonano al meglio i due boss e come la loro autorità suscitava terrore e rispetto verso chiunque ne intralciasse gloria e affari, col primo contornato di business men per l’immagine e il secondo working guy alla mano, coi padiglioni dello statunitense a cambiare modelli quotidianamente e quelli del modenese a mantenere gli stessi orgogliosi e classici prototipi da perfezionare anno dopo anno. Anche durante la sfida Ford arriva, da un’occhiata e poi però riparte con mezzi aerei privati, a differenza dell’avversario, che segue partenza, sorpassi, cambi, accelerate e lavori meccanici come fosse un dipendente qualunque. Per riuscire nel miracolo Carroll Shelby, visionario ingegnere e iconico ex vincitore di gara anni addietro, viene elevato al ruolo di comandante della scuderia statunitense, con l’autorizzazione a scegliere senza badare a spese ogni contromossa che pareggi il gap coi rivali, sopportando nemici interni e interferenze societarie, reinventandosi designer e progettista e ingaggiando per di più Ken Miles, suo collaudatore ma testa calda se ce ne è una. Matt Damon e Christian Bale si confermano nell’elite del cinema con due interpretazioni assolutamente azzeccate e riuscite, vedendo gli eventi storici e i caratteri biografici dei loro personaggi. In realtà Shelby e Miles sono la stessa persona, o meglio l’uno la capacità di concludere quello che l’altro non può più fare, a causa di un cuore malandato e l’età che avanza, la quale lo spinge a quietarsi ed accettare compromessi aziendali per “svoltare” la vita, come far fuori l’amico/socio per decisioni dall’alto, prima di battere i tacchi nell’unico modo che conosce al cospetto di Ford stesso: catapultandolo a 300 Km orari su una pista aerea. L’acting di Matt rappresenta la prova di maturità della sua ricca carriera, grazie alle mille sfaccettature che il suo Carroll riesce a trasbordarci, rassicurandoci che andrà tutto bene ma esplodendo il giusto, anche con qualche furbizia del mestiere, quando le ingiustizie sono pronte a vessare i nostri due eroi. Bale invece, ritrova Mangold dopo “Quel treno per Yuma”, e ne riceve la stessa magistrale libertà che ottenne da David O. Russel nel cavalcare il Dicky di “The Fighter”, prenotandosi l’ennesimo viaggio agli Oscar. Il soggetto è stracolmo di “direttive” sociali e di come, ieri quanto oggi, il padrone pieghi dipendenti e lavoratori, prediligendo soldi, sponsor, marketing e ricchezze varie alla scoperta del talento interno, mettendo l’immagine del proprio driver quasi sopra alle sue caratteristiche di guida. La famiglia è ciò che più di tutto permette la redenzione umana, assecondando pure nelle forastiche e deleterie diatribe coi clienti in officina, pena i sigilli all’attività, sostenendo addirittura il ritorno in pista, sia prima che dopo “l’offerta che non si può rifiutare”. Grazie a Bale, Ken Miles entra nel cuore di tutti e lo rimarrà in eterno, facendolo conoscere anche alla massa estranea al mondo automobilistico, per il quale è un’icona indelebile, pure per l’amore estremo verso l’onnipresente figlio al seguito, affetto che mischia alla grintosa strafottenza da simpatica canaglia contro chiunque raffiguri un mainstream commerciale e pubblicitario e al rispetto verso chi cavalchi l’onda della velocità, che sia Lorenzo Bandini oppure il Drake stesso, unico ad eleggerlo vincitore. E’ proprio un finale un po' dubbio che lascia pochi strascichi negativi, cambiando forse le carte in tavola su chi fosse in realtà la mente dietro l’arrivo in parata delle tre Ford, così come porre il pilota di punta Ferrari troppo rude e Franco Gozzi fisicamente improbabile, dando in maniera esagerata e hollywoodiana un’immagine negativa e nemica degli uomini in rosso. Risalta altresì maggiormente la figura rancorosa e invidiosa di Leo Beebe (Josh Lucas) a dispetto dell’astro nascente ed ideatore principe della sfida Lee lacocca, troppo presto abbandonato dalla sceneggiatura, che si fa infatti preferire nelle scene d’azione, quando Miles è solo con la sua creatura o durante le tante e appassionate rese dei conti. Scarsa, superficiale e troppo cinematografica è la spiegazione dall’appaiamento tra le due scuderie, facendo sembrare quasi elementare l’alleggerimento del prototipo americano per raggiungere finalmente il livello avversario; lo stesso si può dire degli improbabili contraccolpi e fuori giri durante i sorpassi, ma questi si possono perdonare per l’effetto scenico. La fotografia di Papamichael è eccezionalmente poco sobria e accesa, andando di pari passo con le perfette inquadrature ravvicinate, i piani sequenza e i campi lunghi ampliati del regista, che con frame accostati ai protagonisti porta lo spettatore a concorrere anch’egli. Fantastica è pure la scenografia, che ripropone fedelmente i circuiti dove si svolgono gran finale e numerose prove. Il messaggio del regista e della scrittura sta nel rendere unici questi animali da pista, risultando una comune a parte, utilizzando come ossigeno l’adrenalina e il salto nel vuoto che la loro anima ottiene quando si arriva ai famigerati 7.000 giri, momento nel quale il cuore parte verso una dimensione astratta che nessun comune mortale potrà mai capire, nonostante si vada incontro a complicazioni cardiache nel migliore dei casi o alla morte nel peggiore. Una conclusione alla American Sniper forse si sarebbe preferita, per l’amore profuso nel Bale/Miles, senza renderci partecipi della sua tragica fine ma narrandola magari con titoli di coda, mentre il commiato di Damon/Shelby col piccolo Peter è per cuori forti, prima che il rombo della sua decappottabile lo rinsavisca e riporti nella retta via, fatta di adrenalina, poesia e romanticismo!
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Di questo film, storia più o meno vera di una casa automobilistica che volle diventare anche una scuderia sportiva, si parla da quasi 10 anni, tanto ci è voluto per portarlo sul grande schermo. James Mangold al timone, l’uomo che ha risollevato le sorti del supereroe Wolverine qualche anno fa (2013 e 2017) e raccontato ancor prima le gesta di Johnny Cash (2005).
Dicevamo: siamo a metà anni ’60, e la Ford (guidata dal nipote del fondatore), decide di investire sul mercato delle auto sportive con il lancio della mitica Mustang, piccolo problema: è un brand da famiglie, e quella Mustang non la vuole nessuno. Bisogna che Ford sia associato all’adrenalina e ai 300km all’ora, alle gare eroiche, e la più eroica di tutte è la massacrante 24 Ore di LeMans.
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Di questo film, storia più o meno vera di una casa automobilistica che volle diventare anche una scuderia sportiva, si parla da quasi 10 anni, tanto ci è voluto per portarlo sul grande schermo. James Mangold al timone, l’uomo che ha risollevato le sorti del supereroe Wolverine qualche anno fa (2013 e 2017) e raccontato ancor prima le gesta di Johnny Cash (2005).
Dicevamo: siamo a metà anni ’60, e la Ford (guidata dal nipote del fondatore), decide di investire sul mercato delle auto sportive con il lancio della mitica Mustang, piccolo problema: è un brand da famiglie, e quella Mustang non la vuole nessuno. Bisogna che Ford sia associato all’adrenalina e ai 300km all’ora, alle gare eroiche, e la più eroica di tutte è la massacrante 24 Ore di LeMans. I suoi dirigenti prima provano ad acquistare la Ferrari, e ricevono uno storico due di picche da Enzo Ferrari in persona; poi decidono di affrontarla acquistando la piccola Shelby, guidata dall’ultimo vincitore americano di LeMans, Carrol Shelby, che punterà su un pilota inviso ai vertici della Ford, Ken Miles. Finale imprevedibile, come solo la realtà può esserlo.
E’ un vero e proprio omaggio al coloratissimo mondo delle corse anni ’60-70, quello di Mangold, tanto che la locandina richiama l’iconico LeMans (1971) con l’altrettanto iconico Steve McQueen; un mondo dove il pilota conta come e più dell’auto che guida a rischio constante e concreto della morte. Curiosamente non è tanto un film di Davide contro Golia, anche perché in questo caso il Davide sono i ricchi produttori della Ford, e il Golia sono i nostrani artigiani di Maranello (che Mangold, alla fine, dipinge molto più simpatici della controparte a stelle e strisce, Enzo Ferrari in primis – peraltro, bravissimo Remo Girone). Se proprio c’è una battaglia, al di là di quella sulla pista, è quella dei due amici, Shelby e Miles, legati dalla passione per i motori e dalla velocità come mezzo per trascendere la vita e la morte, e i markettari della Ford, solamente interessati a vendere auto. Più di una volta gliene faranno di tutti i colori per intralciare i due amici e prendersi i meriti seduti davanti ad una scrivania, e non in mezzo all’olio, alla benzina, alle lamiere.
Sono davvero molto bravi i protagonisti, Matt Damon nei panni del direttore della scuderia che deve coniugare lealtà e merito in un mondo dove questi non vanno di pari passo; e Christian Bale, all’ennesima trasformazione fisica (stavolta è il turno del Bale magro), pilota burbero e ossessionato dal demone della velocità. Entrambi sacrificheranno tutto o quasi. La chimica tra i due è palbabile, non ci dispiacerebbe rivederli assieme presto. Bene anche Jon Bernthal nei panni del futuro magnate di Ford e GM Lee Iacocca e l’odiosissimo Josh Lucas, nei panni del burocrate Beebe.
È il film in sé che, pur essendo tecnicamente ineccepibile (fotografia, musica, tutto sopra la media), incluse le gare, buon mix tra adrenalina e meccanica, sembra non sfondare mai quel “muro del suono” che separa il buon film dall’ottimo film. È che Mangold non scava mai abbastanza nell’ossessione dei due protagonisti, e come solo loro due capiscono l’auto come se fosse un’estensione del proprio corpo "a 7000 giri al minuto", e, istintivamente, rifiutano la superficialità dei burocrati della Ford: su tutte, una bellissima scena, quando Shelby “rapisce” Ford II e gli fa fare il giro sulla sua Ford GT più adrenalinico, spaventoso, e vivo della sua esistenza, tanto che lo stesso magnate scoppia in un pianto liberatorio “non avevo idea… vorrei che mio nonno fosse qui ora”. Mangold invece molla il piede dall’acceleratore quando avrebbe dovuto spingere, grazie anche ai due bravissimi protagonisti. In un ipotetico podio, questo LeMans '66 è un po’ sotto Rush di Ron Howard, secondo noi.
Ben piazzato, ma non un Vincitore. (www.versionekowalski.it) [-]
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Da quanto abbiamo visto negli ultimi anni al cinema, automobili è diventato sempre di più sinonimo di uomini pieni di steroidi, bei culi di portoricane sexy sempre alcool spesso droga o comunque malviventi.
Non è questo il caso! In questo film il tema della sfida automobilistica viene vissuto dal punto di vista sportivo. L'adrenalina non viene da colori fluo tatuaggi al limite ma dal genio del pilota che mette in pericolo la sua vita non sfidando gang o polizia, ma sfidando se stesso nel spingere la propria auto al limite.
Il tutto farcito da un film che riesce anche senza eccedere negli effetti speciali facendo volare automobili o con grafiche pirotecniche a tenere gli spettatori per oltre due ore incollati alle poltrone del cinema.
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Da quanto abbiamo visto negli ultimi anni al cinema, automobili è diventato sempre di più sinonimo di uomini pieni di steroidi, bei culi di portoricane sexy sempre alcool spesso droga o comunque malviventi.
Non è questo il caso! In questo film il tema della sfida automobilistica viene vissuto dal punto di vista sportivo. L'adrenalina non viene da colori fluo tatuaggi al limite ma dal genio del pilota che mette in pericolo la sua vita non sfidando gang o polizia, ma sfidando se stesso nel spingere la propria auto al limite.
Il tutto farcito da un film che riesce anche senza eccedere negli effetti speciali facendo volare automobili o con grafiche pirotecniche a tenere gli spettatori per oltre due ore incollati alle poltrone del cinema.
Il merito va agli attori: Mat Damon che rappresenta la maturità di un campione costretto ad abbandonare il brivido irresponsabile del proprio talento e un Christian Bale che ci restituisce un mix incosciente e selvaggi di un campione di corse automobilistiche. Tutto il cast comunque riesce a dire la sua in questo film, per questo facciamo nostre le preoccupazione di una moglie Mollie Miles (Caitriona Balfe), guardiamo il sogno di un genitore attraverso gli occhi di Peter Miles (Noah Jupe) e assecondiamo con tanto fascino quanta avversione i capricci di Henry Ford II (Tracy Letts).
Il tutto orchestrato da una regia affascinante, movimentata e mai banale che ci tiene sul filo fino ai titoli di coda.
Il mio commento?
Un film che ci fa vivere un inaspettato vortice di emozioni proti a passare dalle risate rumorose di una battuta sfrontata fino a trovarci aggrappati ai braccioli vivendo una curva in soggettiva. Sulla linea di partenza ci troviamo emozionati con il protagonista, pronti anche noi a giocarci il tutto per tutto!
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Una storia drammatica e coinvolgente con due grandi attori dall'intesa perfetta e che impersonano sogni e speranze di una nazione come gli Stati Uniti dalla grande tradizione industriale in campo automobilistico e ricca di talenti capaci di innovare e legittimare la superiorità tecnologica che ha determinato la vittoria durante l'ultimo conflitto mondiale.
Rispetto al miracolo italiano forse l'ndustria americana mancava di fantasiosi designers che attribuissero bellezza alle loro carrozzerie, del resto le forme aerodinamiche di origine futurista sono nate da genialità italiane e la tradizione è stata onorata a lungo anche dopo dal mito Ferrari. In questo film il regista non manca di onorare la tradizione automobilistica taliana impersonata dal vecchio burbero patron di Maranello, nella ripresa ad inizio scena degli occhiali dalle lenti scure capovolte sul tavolo,igià prima di inquadrare il volto del bravo Remo Girone.
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Una storia drammatica e coinvolgente con due grandi attori dall'intesa perfetta e che impersonano sogni e speranze di una nazione come gli Stati Uniti dalla grande tradizione industriale in campo automobilistico e ricca di talenti capaci di innovare e legittimare la superiorità tecnologica che ha determinato la vittoria durante l'ultimo conflitto mondiale.
Rispetto al miracolo italiano forse l'ndustria americana mancava di fantasiosi designers che attribuissero bellezza alle loro carrozzerie, del resto le forme aerodinamiche di origine futurista sono nate da genialità italiane e la tradizione è stata onorata a lungo anche dopo dal mito Ferrari. In questo film il regista non manca di onorare la tradizione automobilistica taliana impersonata dal vecchio burbero patron di Maranello, nella ripresa ad inizio scena degli occhiali dalle lenti scure capovolte sul tavolo,igià prima di inquadrare il volto del bravo Remo Girone.Il racconto prosegue senza trascurare particolari e dettagli tecnici che condizionano esiti e prestazioni di automobili prodigiose per tecnologia e innovazione.Ma il fattore umano che teme l'incidente mortale sempre in agguato è ben rappresentato nella scelta del pilota, che deve conservare la giusta concentrazione, prevedere gli errori di altri piloti in pista ed essere pronto ai rapidi cambiamenti climatici in una estenuante corsa come la 24 ore di Le mans.La lotta sembra essere vinta contro i pregiudizi,la necessità di marketing di un marchio prestigioso come Ford, ma la beffa finale sembra essere sempre in agguato.Quel che resta del messaggio del film è il ricordo di una grande amicizia e complicità,che però lascia libero un pilota di scegliere al di là degli ordini di scuderia sul felice o meno esito della gara a vantaggio acquisito.Il ruolo della moglie del protagonista è alquanto apprezzabile nel restare talvolta in disparte e altre volte nell'incoraggiare nei momenti difficili il partner a non demordere dai propri sogni e a seguire col figlioanche solo alla radio le corse. Per gli italiani il film offre un pizzico di nostalgia per quegli anni ruggenti,successivi alla ricostruzione che si sono distinti per imprenditorialità di singoli geniali personaggi nelsaper ridare efficienza, credibilità, ricchezza e benessereall'Italia,oltre a costituire per il mondo intero modello culturale in diversi campi,ma anche grazie ad una maggiore stabilità politica
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[+] una bella sfida, una grande parabola esistenziale (di antonio montefalcone)[ - ] una bella sfida, una grande parabola esistenziale
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Una piccola fabbrica artigianale di paese che fa i conti con un budget molto limitato viene battuta da un colosso multinazionale che stanzia un budget illimitato per sconfiggere lo sfrontato italiano che ha avuto l'ardire di non farsi comprare. Sai che forza. Il tutto condito da un'interpretazione di Christian Bale sopra le righe pure quando dorme e da una durata eccessiva. È vero, le parti in pista sono ben girate e magari anche molto fedeli, ma il resto è ben poca cosa. Conflitti non giustificati, amicizie non approfondite, personaggi tratteggiati rozzamente, scene a volte al limite del ridicolo. COmunque tornando all'inizio, la cosa che francamente lascia più perplessi è la celebrazione della vittoria di un colosso dell'industria contro una piccola miracolosa attività di paese.
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Una piccola fabbrica artigianale di paese che fa i conti con un budget molto limitato viene battuta da un colosso multinazionale che stanzia un budget illimitato per sconfiggere lo sfrontato italiano che ha avuto l'ardire di non farsi comprare. Sai che forza. Il tutto condito da un'interpretazione di Christian Bale sopra le righe pure quando dorme e da una durata eccessiva. È vero, le parti in pista sono ben girate e magari anche molto fedeli, ma il resto è ben poca cosa. Conflitti non giustificati, amicizie non approfondite, personaggi tratteggiati rozzamente, scene a volte al limite del ridicolo. COmunque tornando all'inizio, la cosa che francamente lascia più perplessi è la celebrazione della vittoria di un colosso dell'industria contro una piccola miracolosa attività di paese. Come se Coppola invece di raccontare la storia di Tucker che sfida le multinazionali per costruire un'auto meravigliosa avesse esaltato l'abilità dei colossi in grado di far chiudere i battenti al minuscolo sognatore americano. Che almeno non se ne vantino
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[+] retorica fuori luogo e fuori tempo (di panzy)[ - ] retorica fuori luogo e fuori tempo
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Bel film che passa dal biografico all'intrattenimento. Sugli italiani si è un po' ecceduto in caricature ma, perlomeno, è stata mantenuta una certa integrità di Enzo Ferrari, che spicca in due scene: una in cui rifiuta la supponente ed irrispettosa offerta degli yankee e l'altra in cui si toglie il cappello per complimentarsi con Ken Miles (Bale), al termine della gara, denotando grande signorilità. I maggiori punti d'interesse della narrazione riguardano sicuramente le parti sullo sviluppo della macchina e quelle riguradanti le difficili interlocuzioni tra gli alti papaveri Ford e Shelby (Damon), oltre, ovviamente, alle gare vere e proprie. Il rapporto tra il nostro pilota e suo figlio, nella dinamica complessiva, ricorda moltissimo quello omologo tra il pugile Billy (Voigt) e T.
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Bel film che passa dal biografico all'intrattenimento. Sugli italiani si è un po' ecceduto in caricature ma, perlomeno, è stata mantenuta una certa integrità di Enzo Ferrari, che spicca in due scene: una in cui rifiuta la supponente ed irrispettosa offerta degli yankee e l'altra in cui si toglie il cappello per complimentarsi con Ken Miles (Bale), al termine della gara, denotando grande signorilità. I maggiori punti d'interesse della narrazione riguardano sicuramente le parti sullo sviluppo della macchina e quelle riguradanti le difficili interlocuzioni tra gli alti papaveri Ford e Shelby (Damon), oltre, ovviamente, alle gare vere e proprie. Il rapporto tra il nostro pilota e suo figlio, nella dinamica complessiva, ricorda moltissimo quello omologo tra il pugile Billy (Voigt) e T.J. del celebre film di Zeffirelli, The Champ, ma non raggiunge quei limiti emozionali. Per quanto concerne le interpretazioni, be', Christian Bale è il solito mostro di bravura, ma anche Matt Damon fa un'ottima figura. Inusuale, invece, il ruolo di alto dirigente Ford affidato a Jon Bernthal: una figura che parte bene ma che perde di spessore col passare dei minuti. Due ore e mezza niente male.
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Va riconosciuta a Mangold una capacità di messa in scena degna di un grande racconto hollywoodiano, in grado di esprimersi al meglio sia attraverso sorprendenti sequenze spettacolari sia nei momenti più intimi e delicati.
Un film orgogliosamente fuori tempo, nel bene e nel male. Forse incapace di riflettere e veicolare urgenze prettamente contemporanee eppure, proprio per questo, in grado di ambire ad un'atemporalità che è prerogativa dei grandi classici.
Le Mans ‘66 è un film che parla di supereroi che non possono integrarsi fino in fondo in questo mondo perché troppo puri, troppo autentici. Carroll e Ken costruiscono l’epica, la vivono con tutto il peso della vita e del talento.
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Va riconosciuta a Mangold una capacità di messa in scena degna di un grande racconto hollywoodiano, in grado di esprimersi al meglio sia attraverso sorprendenti sequenze spettacolari sia nei momenti più intimi e delicati.
Un film orgogliosamente fuori tempo, nel bene e nel male. Forse incapace di riflettere e veicolare urgenze prettamente contemporanee eppure, proprio per questo, in grado di ambire ad un'atemporalità che è prerogativa dei grandi classici.
Le Mans ‘66 è un film che parla di supereroi che non possono integrarsi fino in fondo in questo mondo perché troppo puri, troppo autentici. Carroll e Ken costruiscono l’epica, la vivono con tutto il peso della vita e del talento. Sono talmente grandi che non hanno neanche bisogno di “arrivare primi”. Non sono come i “colletti bianchi” che pianificano, calcolano, mentono. Gli altri potranno pure scrivere la Storia, ma non raggiungeranno mai la Poesia. Quella spetta a James Mangold e ai suoi personaggi. La Poesia è davanti ai nostri occhi, nel dettaglio di un cappello abbandonato per sempre, nei punti di fuga di uno specchietto retrovisore, nelle luci notturne di una pista vuota. È tutta dentro questo film meravigliosamente pieno e leggero. Sospeso tra l’asfalto e l’orizzonte. Tra il sacrificio e la vittoria. Bellissimo.
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Una storia vera di passione, coraggio e sport. Quella che portò il pilota Ken Miles a vincere con la Ford la 24 ore di Le Mans. In quegli anni la macchina che vinceva era sempre una, quella con il cavallino rosso, la macchina di Enzo Ferrari, la tecnologia applicata alla maniacalità dell’artigianato. Dall’altra parte il colosso di Detroit, la casa automobilistica che più di tutte incarnava il sogno americano, di un benessere per tutti. Due concetti di automobile del tutto opposti, una vincente e per pochi, l’altra banale nelle sue standardizzazioni. In mezzo un ex pilota che progetta automobili, con la passione di Ferrari. E quando viene ingaggiato da Henry Ford e riesce ad imporre le sue regole e la splendida follia di Ken Miles porta la macchina americana ad una impensabile vittoria.
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Una storia vera di passione, coraggio e sport. Quella che portò il pilota Ken Miles a vincere con la Ford la 24 ore di Le Mans. In quegli anni la macchina che vinceva era sempre una, quella con il cavallino rosso, la macchina di Enzo Ferrari, la tecnologia applicata alla maniacalità dell’artigianato. Dall’altra parte il colosso di Detroit, la casa automobilistica che più di tutte incarnava il sogno americano, di un benessere per tutti. Due concetti di automobile del tutto opposti, una vincente e per pochi, l’altra banale nelle sue standardizzazioni. In mezzo un ex pilota che progetta automobili, con la passione di Ferrari. E quando viene ingaggiato da Henry Ford e riesce ad imporre le sue regole e la splendida follia di Ken Miles porta la macchina americana ad una impensabile vittoria. Un bel film che si avvale di due straordinari interpreti, Matt Damon e Christian Bale, in perfetta forma e sintonia. La sfida di Le Mans fu vinta dalla Ford, ma il vero vincitore di questo film è l’Italia ed un uomo che ha sempre incarnato il modello vincente del nostro Paese, Enzo Ferrari.
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Quando il “Drake” Enzo Ferrari (qui Remo Girone), rifiuta la proposta di collaborazione con l’ovale blu della Ford, Henry Ford II (Tracy Letts) non ci sta e vendica l’affronto tentando di battere La Casa del Cavallino sul suo stesso terreno d’elezione: il motorsport.
Fondamentale, per la Ford, l’apporto dell’ex pilota Carroll Shelby (Matt Damon) – già vincitore a Le Mans nel ’59 – e di Ken Miles (Christian Bale) che porterà l’Ovale blu alla vittoria a Le Mans nel 1966, spodestando l’imbattuta Ferrari con ben tre GT40, occupando l’intero podio.
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Quando il “Drake” Enzo Ferrari (qui Remo Girone), rifiuta la proposta di collaborazione con l’ovale blu della Ford, Henry Ford II (Tracy Letts) non ci sta e vendica l’affronto tentando di battere La Casa del Cavallino sul suo stesso terreno d’elezione: il motorsport.
Fondamentale, per la Ford, l’apporto dell’ex pilota Carroll Shelby (Matt Damon) – già vincitore a Le Mans nel ’59 – e di Ken Miles (Christian Bale) che porterà l’Ovale blu alla vittoria a Le Mans nel 1966, spodestando l’imbattuta Ferrari con ben tre GT40, occupando l’intero podio.
Le Mans ’66 – La grande sfida, di James Mangold è… wow!
Questa è sicuramente l’esclamazione che più di ogni altra parola, ogni altro aggettivo, potrebbe mai descrivere un film come questo.
Il film è costruito sulla falsariga di Rush di Ron Howard, che racconta la storica rivalità tra i due piloti James Hunt (Chris Hemsworth) e Niki Lauda (Daniel Brühl) e, come in quest’ultimo, anche in Le Mans ‘66 ciò che viene messo in risalto è una rivalità corretta, pulita. Soprattutto il film non si focalizza solamente sull’aspetto sportivo della vicenda, ma tende a evidenziare i rapporti umani interpersonali come fondamentali per la vita di ciascuno: in questo senso, per Miles la moglie e il figlio Piti (Peter) sono indispensabili ad incoraggiarlo a portare avanti il progetto, mentre lo stesso Miles diventa a sua volta indispensabile per Shelby, come ingegnere, come pilota, ma soprattutto come amico.
E che dire di un artista – perché di arte si tratta – come Bale? La spocchia e l’irriverenza di cui si copre lo rendono insopportabile, tanto da avere qualcuno che cerca continuamente di tagliarlo fuori dal progetto, ma necessario al tempo stesso.
E Bale, evidentemente smagrito per entrare nella parte, ci restituisce Ken Miles come una combinazione di mille sfaccettature, perché se di fronte agli altri si mostra così arrogante, è con la sua famiglia che fuoriesce un lato tenero da renderlo, paradossalmente, quasi adorabile.
Stessa sorte per Damon che, sempre bello come il sole, dopo circa due anni fa ritorno sul grande schermo… e in grande stile.
Il personaggio di Shelby è definito da un’estrema solidità morale; imperturbabile di fronte alle minacce, inflessibile quando lo si prova a corrompere.
Prima di passare brevemente in rassegna i punti di forza del lato tecnico, è fondamentale sottolineare l’esperienza adrenalinica che il lungometraggio regala.
Ok, si può anche immaginare – o direttamente conoscere – la 24 ore di Le Mans del 1966, ma è chiaro che viverla dal punto di vista sia di chi guida sia di chi guarda è un’esperienza unica, nella quale Mangold riesce a far immergere lo spettatore… il cuore batte all’impazzata in modo del tutto simultaneo – ci piace pensare – a quello di Ken Miles, mentre sta ancora aspettando di sapere se i freni reggeranno fino a fine gara.
Quanto al lato tecnico: bellissima la fotografia, ampio spazio alla luce, che sia quella naturale del sole o quella artificiale dei fanali delle GT40, e che infatti ne costituisce praticamente tutti i toni caldi della palette.
Le Mans ’66 è un progetto che tiene col fiato sospeso dall’inizio alla fine, un lungometraggio di circa due ore e mezza delle quali non si sente minimamente il peso.
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Avvincente film sul mondo delle corse d'auto e sui suoi protagonisti. il film ricostruisce bene un episodio passato alla storia (quando la Ford vinse, unica volta nella storia, la 24 ore di le mans).
Mangold riesce bene nelle scene d'azione: belle inquadrature e sonoro, l'adrenalina è assicurata.
Meno riuscito il compito di trasmettere la passione, il mistero che spinge gli uomini al limite ed oltre.
Più efficace è stato "Veloce come il vento" di Rovere, dove senti la puzza dell'olio e della benzina ma trovi il taglio psicologico, l'umano è davvero protagonista.
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