Il film, che ha ottenuto la Palma d'Oro al Festival di Cannes, è girato quasi in tempo reale e sembrerebbe riportarci indietro di due secoli. Ci mostra una parte meno nota dell’Iran, la zona montana rurale e contadina del Nord-Ovest che confina con la Turchia, molto lontana dalla vita caotica della capitale e da cui provengono, peraltro, i genitori del regista.
Jafar Panahi e l’attrice Behnaz Jafari (interpretati da loro stessi) ricevono un video di una ragazza adolescente che vorrebbe recitare e uscir fuori da una situazione claustrofobica, è disperata perché ha bisogno di aiuto e non è mai riuscita a contattare la famosa attrice, pertanto si suicida mediante impiccagione (vera o presunta?) in una grotta sulle montagne.
Il regista spaventato e l’attrice in preda a sensi di colpa partono immediatamente a bordo di un fuoristrada per questa piccola località montana per capire cosa sia realmente successo. Il viaggio e la ricerca della ragazza sembrano diventare pretesti per incontrare una realtà agricola apparentemente ospitale e formalmente gentile, ma terribilmente chiusa e attaccata alle vecchie tradizioni. Una sola strada a un’unica corsia unisce i villaggi a monte e a valle. Essendo piena di tornanti le auto o gli autobus devono suonare per avvertire che stanno passando e, a seconda dei suoni di clackson, si comunicano se c’è una particolare urgenza o addirittura emergenza.
E così dopo una notte di viaggio i due raggiungono il paesino dove vive la ragazza fanno la conoscenza di persone, e riscoprono usanze dimenticate. Particolare risalto è dato alla cerimonia del taglio del prepuzio ai maschi, la cui pelle è fonte di antiche credenze: a seconda di dove verrà sepolto deciderà i destini dei giovani. Se nel cortile di una prigione il giovane diventerà un criminale, se nel giardino di un’Università il giovane diventerà o dottore o ingegnere. Nulla per le ragazze. Anzi per la mamma di Marzieyh, il fatto che la figlia sia brava a scuola e voglia studiare è vissuto come una disgrazia.
Così il regista e l’attrice scoprono che il suicidio era solo simulato, che la ragazza è entrata all’Accademia di Teheran e che, oltre a essere mal vista da tutta la comunità, è minacciata fisicamente dal fratello conservatore e un po’ fuori di testa. Possiamo immaginare come possa essere vista nel paese una ragazzina che vuole fare l’attrice. Uno scandalo, una “intrattenitrice”! La ragazza viene allontanata dalle altre ragazze, ha solo una cugina con cui stare e una vecchia danzatrice che passa le sue giornate dipingendo nei campi considerata matta, che vive isolata, ed è stata messa al bando dai paesani.
Non ci sono medici nel villaggio né veterinari. Non c’è campo per i cellulari, l’unico elemento di “progresso” è la TV. “Ci sono più antenne che persone” dice uno degli abitanti al regista.
Tre sono i volti delle donne: l’anziana madre conservatrice, l’attrice adulta e affermata, la giovane ribelle ma determinata. Lo stile di Panahi è asciutto e rigoroso – in linea con un certo cinema iraniano il cui capostipite è Abbas Kiarostami (“Il sapore delle ciliegie” del 1997) - dall'andamento simile a quello di una dolente ballata, una processione che si svolge in una terra priva di libertà. È noto, infatti, che a Jafar Panahi è stato impedito sia di lasciare il paese sia di girare film, quindi con tenacia e caparbietà Panahi riesce, come per “Taxi Theran” del 2015, a riprendere scene di vita iraniana quasi interamente a bordo di un’auto con la telecamera nascosta, e con la presenza di attori che recitano se stessi, a metà tra finzione e realtà.
Così scrive Erfan Rashid in “Focus”: «Che cosa rimane a un regista quando un decreto governativo lo priva del suo diritto di fare film per vent'anni e lo costringe a rimanere a casa confiscandogli il passaporto? La prima risposta che viene in mente: "Niente! non gli rimane niente! E ciò potrebbe essere l'inizio della fine per quel regista!". Tuttavia, qualcosa gli rimane: la determinazione e la testardaggine di trasformare quella restrizione di libertà e l'emarginazione, in una resistenza per la libertà continuando a realizzare film. E non importa se quel film verrà visto da altri o no, rimane comunque un film».
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