vanessa zarastro
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sabato 1 dicembre 2018
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due secoli fa?
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Il film, che ha ottenuto la Palma d'Oro al Festival di Cannes, è girato quasi in tempo reale e sembrerebbe riportarci indietro di due secoli. Ci mostra una parte meno nota dell’Iran, la zona montana rurale e contadina del Nord-Ovest che confina con la Turchia, molto lontana dalla vita caotica della capitale e da cui provengono, peraltro, i genitori del regista.
Jafar Panahi e l’attrice Behnaz Jafari (interpretati da loro stessi) ricevono un video di una ragazza adolescente che vorrebbe recitare e uscir fuori da una situazione claustrofobica, è disperata perché ha bisogno di aiuto e non è mai riuscita a contattare la famosa attrice, pertanto si suicida mediante impiccagione (vera o presunta?) in una grotta sulle montagne.
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Il film, che ha ottenuto la Palma d'Oro al Festival di Cannes, è girato quasi in tempo reale e sembrerebbe riportarci indietro di due secoli. Ci mostra una parte meno nota dell’Iran, la zona montana rurale e contadina del Nord-Ovest che confina con la Turchia, molto lontana dalla vita caotica della capitale e da cui provengono, peraltro, i genitori del regista.
Jafar Panahi e l’attrice Behnaz Jafari (interpretati da loro stessi) ricevono un video di una ragazza adolescente che vorrebbe recitare e uscir fuori da una situazione claustrofobica, è disperata perché ha bisogno di aiuto e non è mai riuscita a contattare la famosa attrice, pertanto si suicida mediante impiccagione (vera o presunta?) in una grotta sulle montagne.
Il regista spaventato e l’attrice in preda a sensi di colpa partono immediatamente a bordo di un fuoristrada per questa piccola località montana per capire cosa sia realmente successo. Il viaggio e la ricerca della ragazza sembrano diventare pretesti per incontrare una realtà agricola apparentemente ospitale e formalmente gentile, ma terribilmente chiusa e attaccata alle vecchie tradizioni. Una sola strada a un’unica corsia unisce i villaggi a monte e a valle. Essendo piena di tornanti le auto o gli autobus devono suonare per avvertire che stanno passando e, a seconda dei suoni di clackson, si comunicano se c’è una particolare urgenza o addirittura emergenza.
E così dopo una notte di viaggio i due raggiungono il paesino dove vive la ragazza fanno la conoscenza di persone, e riscoprono usanze dimenticate. Particolare risalto è dato alla cerimonia del taglio del prepuzio ai maschi, la cui pelle è fonte di antiche credenze: a seconda di dove verrà sepolto deciderà i destini dei giovani. Se nel cortile di una prigione il giovane diventerà un criminale, se nel giardino di un’Università il giovane diventerà o dottore o ingegnere. Nulla per le ragazze. Anzi per la mamma di Marzieyh, il fatto che la figlia sia brava a scuola e voglia studiare è vissuto come una disgrazia.
Così il regista e l’attrice scoprono che il suicidio era solo simulato, che la ragazza è entrata all’Accademia di Teheran e che, oltre a essere mal vista da tutta la comunità, è minacciata fisicamente dal fratello conservatore e un po’ fuori di testa. Possiamo immaginare come possa essere vista nel paese una ragazzina che vuole fare l’attrice. Uno scandalo, una “intrattenitrice”! La ragazza viene allontanata dalle altre ragazze, ha solo una cugina con cui stare e una vecchia danzatrice che passa le sue giornate dipingendo nei campi considerata matta, che vive isolata, ed è stata messa al bando dai paesani.
Non ci sono medici nel villaggio né veterinari. Non c’è campo per i cellulari, l’unico elemento di “progresso” è la TV. “Ci sono più antenne che persone” dice uno degli abitanti al regista.
Tre sono i volti delle donne: l’anziana madre conservatrice, l’attrice adulta e affermata, la giovane ribelle ma determinata. Lo stile di Panahi è asciutto e rigoroso – in linea con un certo cinema iraniano il cui capostipite è Abbas Kiarostami (“Il sapore delle ciliegie” del 1997) - dall'andamento simile a quello di una dolente ballata, una processione che si svolge in una terra priva di libertà. È noto, infatti, che a Jafar Panahi è stato impedito sia di lasciare il paese sia di girare film, quindi con tenacia e caparbietà Panahi riesce, come per “Taxi Theran” del 2015, a riprendere scene di vita iraniana quasi interamente a bordo di un’auto con la telecamera nascosta, e con la presenza di attori che recitano se stessi, a metà tra finzione e realtà.
Così scrive Erfan Rashid in “Focus”: «Che cosa rimane a un regista quando un decreto governativo lo priva del suo diritto di fare film per vent'anni e lo costringe a rimanere a casa confiscandogli il passaporto? La prima risposta che viene in mente: "Niente! non gli rimane niente! E ciò potrebbe essere l'inizio della fine per quel regista!". Tuttavia, qualcosa gli rimane: la determinazione e la testardaggine di trasformare quella restrizione di libertà e l'emarginazione, in una resistenza per la libertà continuando a realizzare film. E non importa se quel film verrà visto da altri o no, rimane comunque un film».
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[+] i 3 volti
(di mana1971)
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kimkiduk
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venerdì 28 dicembre 2018
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panahi e il cinema
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Panahi come tutti i registi Iraniani fa cinema sull'Iran, come l'Italia del dopoguerra con il neorealismo sull'Italia, come i Cileni sul Cile ecc. ecc.
Imprescindibile per lui parlare di donne e di cinema, la libertà di un paese passa da lì.
Da una "piccola" vicenda mette a confronto tre generazioni di attrici (TRE VOLTI) del passato del presente e del futuro incerto. L'unica figura accettata e quasi idolatrata è l'attrice famosa del momento che essendo famosa risulta normale. Chi lo è stato è emarginata chi vorrebbe diventare è fortemente osteggiata addirittura isolata come l'anziana. L'uomo (il regista) guarda da dentro la macchina, ai margini, perchè il personaggio è la donna e l'uomo guarda l'uomo come reagisce, guarda il suo Iran che "forse" prova a crescere piano piano, con una fatica enorme, ancorato a tradizioni e mentalità radicate e complesse.
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Panahi come tutti i registi Iraniani fa cinema sull'Iran, come l'Italia del dopoguerra con il neorealismo sull'Italia, come i Cileni sul Cile ecc. ecc.
Imprescindibile per lui parlare di donne e di cinema, la libertà di un paese passa da lì.
Da una "piccola" vicenda mette a confronto tre generazioni di attrici (TRE VOLTI) del passato del presente e del futuro incerto. L'unica figura accettata e quasi idolatrata è l'attrice famosa del momento che essendo famosa risulta normale. Chi lo è stato è emarginata chi vorrebbe diventare è fortemente osteggiata addirittura isolata come l'anziana. L'uomo (il regista) guarda da dentro la macchina, ai margini, perchè il personaggio è la donna e l'uomo guarda l'uomo come reagisce, guarda il suo Iran che "forse" prova a crescere piano piano, con una fatica enorme, ancorato a tradizioni e mentalità radicate e complesse.
Panahi, come molti, denuncia, osserva, spera, denigra e si schiera fortemente contro una cultura ignorante, ma non odia; trasuda e traspare la considerazione di un mondo e di un ambiente difficile, la considerazione che un passo anche piccolo ha la sua importanza, nel combattere una realtà antipatica, ma nel rispetto di un paese che comunque ami.
L'iran a me colpisce per questo da sempre e Panahi ne fa uno spaccato enorme in questo film, entrando in un entroterra a noi europei sconosciuto e sicuramente non conoscibile.
L'Iran è un paese che è stato fortemente evoluto forse anche prima di noi (divorzio agli inizi del secolo scorso) donne in minigonna prima di noi, ma differenze forti tra ricchi e poveri e soprattutto una cultura immensa con grandissime università. Poi il tracollo della rivoluzione islamica il ritorno indietro e da qui il nascere di un paese con una gioventù nata oppressa nel fondamentalismo religioso e degli anziani vissuti nella "libertà" capitalista di un dittatore. Due mondi completamente diversi che convivono a fatica creando un misto affascinante nella sua drammaticità. Sono sicuro che un paese colto come l'Iran si rialzerà più forte di prima e grazie a persone come Panahi che continuano a parlarne amandolo.
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goldy
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sabato 1 dicembre 2018
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partecipazione amorevole
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Come riuscire a rappresentare l’arretratezza culturale tuttora esistente in villaggi sperduti nelle montagne non troppo lontane da TEHERAN? Il regista lo fa Limitandosi ad osservare ciò che accade, silente lasciando parlare la macchina
da presa . Seguiamo il dramma che impedisce il realizzarsi dei progetti di una giovane aspirante attrice:: l'opposizione familiare, il biasimo dei vicini, la condanna totale al suo desiderio di emancipazione.
Con leggerezza che è cifra stilistica del regista ci perviene , ancora una volta, uno squarcio del paese e il faticoso percorso di progresso.
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Come riuscire a rappresentare l’arretratezza culturale tuttora esistente in villaggi sperduti nelle montagne non troppo lontane da TEHERAN? Il regista lo fa Limitandosi ad osservare ciò che accade, silente lasciando parlare la macchina
da presa . Seguiamo il dramma che impedisce il realizzarsi dei progetti di una giovane aspirante attrice:: l'opposizione familiare, il biasimo dei vicini, la condanna totale al suo desiderio di emancipazione.
Con leggerezza che è cifra stilistica del regista ci perviene , ancora una volta, uno squarcio del paese e il faticoso percorso di progresso. Panahi sa comunicare realtà pesanti come macigni con mano leggera e cuore partecipe. Un maestro!
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zarar
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mercoledì 5 dicembre 2018
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i tre volti di un paese
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Nel consueto mix di documentario e fiction di Jafar Panahi, i tre volti sono quelli di tre donne, due delle quali corrispondenti a personaggi reali, i cui destini casualmente si incrociano e in certo modo simboleggiano passato, presente e futuro: Shahrzad , attrice degli anni ’70, completamente emarginata dopo la rivoluzione; l’attrice Behnaz Jafari, volto ben noto di serial televisivi odierni, e la giovane ragazza Marziyeh (Marziyeh Rezai), personaggio d’invenzione, che è ostacolata dalla famiglia e dall’ambiente nel suo sogno di diventare attrice a sua volta. Si immagina che Marziyeh, che vive in uno sperduto villaggio montano, abbia inviato un video disperato, culminante in una scena di suicidio, alla Jafari da cui aveva sperato inutilmente un aiuto, e che Panahi accompagni l’attrice angosciata in un viaggio alla scoperta di chi sia questa ragazza e di che cosa le sia effettivamente successo.
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Nel consueto mix di documentario e fiction di Jafar Panahi, i tre volti sono quelli di tre donne, due delle quali corrispondenti a personaggi reali, i cui destini casualmente si incrociano e in certo modo simboleggiano passato, presente e futuro: Shahrzad , attrice degli anni ’70, completamente emarginata dopo la rivoluzione; l’attrice Behnaz Jafari, volto ben noto di serial televisivi odierni, e la giovane ragazza Marziyeh (Marziyeh Rezai), personaggio d’invenzione, che è ostacolata dalla famiglia e dall’ambiente nel suo sogno di diventare attrice a sua volta. Si immagina che Marziyeh, che vive in uno sperduto villaggio montano, abbia inviato un video disperato, culminante in una scena di suicidio, alla Jafari da cui aveva sperato inutilmente un aiuto, e che Panahi accompagni l’attrice angosciata in un viaggio alla scoperta di chi sia questa ragazza e di che cosa le sia effettivamente successo. Nel villaggio – si scoprirà – vive dimenticata ed emarginata anche Shahrzad. Ci sarà una lunga ricerca, tante ipotesi, un esito inaspettato, su cui non ci soffermiamo. Il film è un bel film, nonostante la povertà dei mezzi tecnici, la monotonia della camera fissa, i tempi lunghi non consueti nella cinematografia occidentale, i dialoghi frammentari, persone qualunque attori improvvisati, attori professionisti che prestano fittiziamente il loro io reale a una fiction, uno sviluppo apparentemente casuale e girovagante. Sono condizioni in parte determinate dalla clandestinità a cui è costretto oggi Panahi come regista, in parte da sue scelte consapevoli. Ma Panahi trasforma il limite in opportunità. Il regista, che qui, come in Taxi Teheran, interpreta se stesso, in modo insieme minimalista e sofisticato ci dà il senso del suo fare cinema, del suo ‘occhio sulla realtà’: c’è in lui un’apertura totale all’ascolto e alla rappresentazione che diventa quasi un suo scomparire di fronte all’interlocutore (vedi l’emblematica scena iniziale); disponibilità infinita a dar voce ad un mondo senza intromissioni ideologiche o paternalistiche. Il messaggio politico ne emerge comunque prepotente, ma con sfumature inedite e sorprendenti che confrontano la logica dell’osservatore con una realtà che sfida qualsiasi logica e che l’occhio del regista coglie imperturbabile e sereno nelle sue contraddizioni: la ragazza determinata a vivere il suo sogno contro tutti accanto alla vecchina che riposa allegramente pregando nella sua prossima fossa, ambedue fortissime e sostanzialmente libere contro le regole assurde degli uomini; la durezza di un sistema patriarcale chiuso, percorso da scoppi di insofferenza e di orgoglio, che però alberga in sé la gentilezza di un’ospitalità senza riserve in qualsiasi circostanza; le antenne paraboliche su capanne di fango, antiche superstizioni convivono incongruamente con miti televisivi... Una rappresentazione autentica che ha anche la cifra della pazienza, un’antica pazienza e una meditata lentezza, che rivendica un tempo diverso dai nostri ritmi convulsi e non ha paura di reiterazioni, di indugi e di silenzi (qui si sente Karostami alle spalle di Panahi) , la pazienza necessaria a capire e a trovare ilpunto di rottura perché gli eventi maturino. Questa profonda empatia con l’ambiente non lascia spazio a estetismi, ma è capace di cogliere immagini simboliche di grande efficacia anche se fatte di nulla : una porta che si chiude al centro di un muro spoglio; una casetta persa nella sera con un lume acceso nel buio totale, una curva misteriosa in una strada contorta da cui non si sa chi arriverà. Da vedere.
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flyanto
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giovedì 20 dicembre 2018
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un iran tanto lontano
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E’ tornato in questi giorni nelle sale cinematografiche italiane il tanto ‘scomodo’ regista iraniano Jafar Panahi con la sua ultima opera, “Tre Volti” . “Scomodo” perchè il suddetto regista è inviso, tanto che gli è valsa in passato addirittura l’arresto in carcere, al Governo iraniano che non approva le sue pellicole dove egli denuncia apertamente molti aspetti del Paese ormai arcaici e, quindi, superati, e ne ha vietata la proiezione sul proprio suolo. E ancora una volta, in “Tre Volti”, Panahi descrive e denuncia svariati aspetti dell’Iran e le facce del titolo del film stanno ad indicare i tre aspetti diversi e contrastanti del proprio Paese a cui, nonostante tutto, egli è molto legato.
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E’ tornato in questi giorni nelle sale cinematografiche italiane il tanto ‘scomodo’ regista iraniano Jafar Panahi con la sua ultima opera, “Tre Volti” . “Scomodo” perchè il suddetto regista è inviso, tanto che gli è valsa in passato addirittura l’arresto in carcere, al Governo iraniano che non approva le sue pellicole dove egli denuncia apertamente molti aspetti del Paese ormai arcaici e, quindi, superati, e ne ha vietata la proiezione sul proprio suolo. E ancora una volta, in “Tre Volti”, Panahi descrive e denuncia svariati aspetti dell’Iran e le facce del titolo del film stanno ad indicare i tre aspetti diversi e contrastanti del proprio Paese a cui, nonostante tutto, egli è molto legato.
La storia si svolge tutta intorno ad un suicidio annunciato in un video ripreso sul cellulare ed inviato da una giovane aspirante attrice alla nota Behnaz Jafari la quale, insieme allo stesso regista Panahi, abbandona improvvisamente il set in cui sta girando la sua ultima pellicola cinematografica e si reca nel paesino situato a nord-ovest dell’Iran alla ricerca della suddetta ragazza o del suo corpo. Nel corso del viaggio i due artisti protagonisti incontrano svariati personaggi di ogni età residenti in questa zona rurale e sperduta del paese e, in giro su una sorta di camper, non potranno fare a meno di notare quanto ancora l’Iran sia lontano, in certe aree, dalla condizione di emancipazione esistente nelle città ormai raggiunta dalla Società. Dopo svariate ricerche essi riusciranno a svelare il ‘mistero’ dell’annunciato suicidio e conseguentemente si allontaneranno da quella zona, facendo di nuovo ritorno alla città.
Tre volti, cioè, tre aspetti differenti ed, allo stesso tempo, coesistenti in Iran riguardanti la mentalità e le istituzioni che in maniera preponderante e stridente cozzano tra loro, tra la tradizione e lo spirito innovativo e la conseguente condizione attuale. La tradizione arcaica ed ormai desueta delle aree meno evolute viene simboleggiata dai vari personaggi abitanti la regione del nord-ovest del Paese, la condizione moderna ed all’avanguardia delle città, dall’attrice Behnaz Jafari ed dallo stesso regista Panahi, entrambi qui nei ruoli di se stessi, e l’aspirazione e la volontà di cambiare verso una condizione più emancipata e consona all’epoca attuale derivanmte dalle giovani generazioni , a sua volta è simboleggiata dalla giovane aspirante attrice che col suicidio si ribella al sistema chiuso e retrogrado proprio del suo Paese, Una rappresentazione quanto mai obiettiva, purtroppo, veritiera che, come in altri suoi precedenti films, Panahi consegna sullo schermo allo spettatore ricorrendo nuovamente alla modalità di improvvisarsi come autista di qualche mezzo di locomozione da cui osservare tutto intorno. Un metodo, in realtà già ‘inventato’ in passato dal regista, suo connazionale, Abbas Kiarostami ne “Il Sapore della Ciliegia”, ma pur sempre particolare ed efficace al fine della storia.
La regia di Panahi si conferma sempre lucida, ben scandita, armoniosa e, sebbene le sue opere non siano all’insegna dell’azione ma più dell’introspezione, essa risulta sempre fluida e ben dialogata. In “Tre Volti” è da menzionale ed ammirare anche la fotografia che qui è particolarmente suggestiva in quanto ritrae in maniera particolare e toccante paesaggi di zone remote, selvagge e poco conosciute dell’Iran, richiamando quasi quelle a loro volta indimenticabili del film “Delitto in Anatolia” del regista turco Ceylan .
Sicuramente consigliabile ma per estimatori.
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stefano capasso
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lunedì 17 giugno 2019
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la possibilità di seguire le proprie aspirazioni
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Behnaz è una famosa attrice iraniana e sta lavorando sul set di un film, quando riceve un video in cui una ragazza che vive nelle montagne del nord del paese si impicca perché impossibilitata a studiare da attrice per la mentalità ristretta della famiglia. Behnaz chiede aiuto al regista Panahi per recarsi sul posto e verificare di persona gli avvenimenti; ha qualche dubbio dopo aver notato dei possibili “tagli” al video.
Panahi elegge il suo 4x4 come cuore della narrazione, molte delle scene vedono Il vetro della macchina somigliare quasi allo schermo del cinema. Insieme alla riflessione sulla possibile autenticità del video fa del film una riflessione sul dispositivo cinema.
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Behnaz è una famosa attrice iraniana e sta lavorando sul set di un film, quando riceve un video in cui una ragazza che vive nelle montagne del nord del paese si impicca perché impossibilitata a studiare da attrice per la mentalità ristretta della famiglia. Behnaz chiede aiuto al regista Panahi per recarsi sul posto e verificare di persona gli avvenimenti; ha qualche dubbio dopo aver notato dei possibili “tagli” al video.
Panahi elegge il suo 4x4 come cuore della narrazione, molte delle scene vedono Il vetro della macchina somigliare quasi allo schermo del cinema. Insieme alla riflessione sulla possibile autenticità del video fa del film una riflessione sul dispositivo cinema. Come stabilire cosa è vero e cosa non lo è? Qual è il punto di osservazione degli eventi? Panahi risponde con un’indagine nella quale mette in gioco le contraddizioni culturali e politiche del paese. In una sorta di diario personale, il regista sceglie di privilegiare le inquadrature lunghe, con pochi movimenti di macchina, per dare vita ad una storia nella quale emerge il fatto che è sempre possibile dare corso alle proprie aspirazioni, nonostante tutto.
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cardclau
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sabato 1 dicembre 2018
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... ero straniero e mi avete accolto ...
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I film iraniani, di primo acchito, mi scombussolano un pochino perché avverto una differenza culturale clamorosa, con quella di noi occidentali. Potrebbero sembrare un po’ primitivi, forse anche un po’ prefreudiani. Poi ripensandoci e riflettendoci appare invece clamoroso l’insegnamento che questa differenza ci può dare: soprattutto nella linea della consapevolezza, del rendersi conto delle differenze “… ero straniero e mi avete accolto …”. Quindi della difesa della libertà nel confronto, col desiderio reale di crescere, tutti, nel rispetto dell’altro.
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I film iraniani, di primo acchito, mi scombussolano un pochino perché avverto una differenza culturale clamorosa, con quella di noi occidentali. Potrebbero sembrare un po’ primitivi, forse anche un po’ prefreudiani. Poi ripensandoci e riflettendoci appare invece clamoroso l’insegnamento che questa differenza ci può dare: soprattutto nella linea della consapevolezza, del rendersi conto delle differenze “… ero straniero e mi avete accolto …”. Quindi della difesa della libertà nel confronto, col desiderio reale di crescere, tutti, nel rispetto dell’altro. Il film Tre Volti di Jafar Panahi è uno di questi, e nel suo genere è splendidamente coraggioso. Non possiamo assolutamente valutarlo mediante i nostri parametri e non basta sapere che Jafar Panahi vive in un ambiente e in una società assai diversa da come lui si sente e si vive. Affronta diversi temi e ci mostra un Iran pastorale e montagnoso e povero, è vero, con i suoi limiti. Mi ha ricordato il libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli. Ma non lo fa col dito puntato, irato, ma con tenerezza, in punta di piedi, dove la speranza non cede mai alla disperazione. Ad un certo momento il racconto ci mostra Panahi (che oltre ad essere regista, è anche attore) che guida col parabrezza scheggiato, non dice nulla, e poco prima avevamo visto un grosso individuo, un po’ ritardato mentale, che oltremodo arrabbiato perché le cose non stavano andando secondo una supposta millenaria consuetudine, aveva preso in mano un asperrimo pietrone. Una metafora. Ma il tema più potente, gridato a squarciagola, è la necessità che ha l’essere umano, di andare al di là della routine quotidiana. Dal dizionario, routine: “abitudine lentamente acquisita per mezzo della pratica e della esperienza; più comunemente, a proposito di una monotona e deprimente consuetudine”. E lo fa in un modo delizioso, di un pensiero e una creatività sorprendenti, attraverso una storia che parte da un video drammaticamente drammatico che una ragazza (Marzyhe Rezaei) invia, da un paesetto sperduto, nel nord montuoso dell’Iran, ma non lontanissimo da Teheran, ad una attrice (Benhaz Jafarì) sulla cresta dell’onda per i serial televisivi, per chiederle aiuto, motivata dal desiderio di fare anche lei l’attrice, perché si sente diversa. Benhaz Jafarì risponde a quella chiamata visceralmente come una madre che potrebbe aver perso la figlia, quindi parte immediatamente con Jafar Panahi, alla sua ricerca. E agisce tutti gli aspetti contraddittori, e comprensibilissimi, di una madre. La ragazza Marzyhe Razaei (bellissima in tutti i sensi) ti fa profondamente capire che la vita viene portata avanti dalla gioventù. Da un frammento di una poesia di Aleksandr Sergeevic Puskin “… Tornate, anni della mia primavera, tornate!”
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