andrea alesci
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venerdì 27 gennaio 2017
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il doloroso scarto dell’indicibile
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Tornare è sempre la parte più difficile. Ma dire, dire ciò che non vorremmo sentire, quella è la parte davvero difficile. Lo sa Louis Knipper (Gaspard Ulliel) e lo sappiamo noi, dacché le regole sono chiare dal principio. Da quando le immagini sbilenche di un giovane col cappellino in testa ci portano verso la meta di un ritorno calcolato dal 27enne Xavier Dolan.
È solo la fine del mondo, d’altra parte. Nulla di più che questa storia, mutuata dall’omonima pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce. Una storia normale, ce lo dice già l’avverbio del titolo, salvo smarrirci subito dopo con il resto della frase.
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Tornare è sempre la parte più difficile. Ma dire, dire ciò che non vorremmo sentire, quella è la parte davvero difficile. Lo sa Louis Knipper (Gaspard Ulliel) e lo sappiamo noi, dacché le regole sono chiare dal principio. Da quando le immagini sbilenche di un giovane col cappellino in testa ci portano verso la meta di un ritorno calcolato dal 27enne Xavier Dolan.
È solo la fine del mondo, d’altra parte. Nulla di più che questa storia, mutuata dall’omonima pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce. Una storia normale, ce lo dice già l’avverbio del titolo, salvo smarrirci subito dopo con il resto della frase. Entriamo confusi e desiderosi di conoscere la storia, quella che Dolan ci mostra con la strumentale maestria del cineasta, capace di trattare un tema convenzionale e perfino banale (l’incomunicabilità famigliare) in un modo del tutto spiazzante.
Ci spiazza conoscere subito il senso del ritorno a casa di Louis dopo dodici anni: l’annuncio della sua morte. Non ci importa sapere perché né quanto gli resti da vivere; ciò che conta è l’irrimediabilità della sentenza. A sballottarci però è il come, il modo in cui stiamo con Louis al cospetto della sua famiglia.
Nei modi sta la chiave per leggere un film che fa sorridere e immalinconire, soprattutto fa provare quel sentimento che sempre ci irretisce quando siamo con gli altri: l’imbarazzo. Siamo imbarazzati come lo saremmo nella vita reale quando Louis varca la soglia di casa, trovando la madre (Nathalie Baye) intenta ad asciugarsi col phon lo smalto sulle unghie, la sorella Suzanne (Léa Seydoux) ad abbracciarlo timidamente, il fratello Antoine (Vincent Cassel) che appena lo saluta, la cognata Catherine (Marion Cotillard) che gli sorride con la ritrosia degli sconosciuti.
Un fatto questo, perché Louis è uno sconosciuto, è uno straniero in casa sua. Il tempo ha cancellato ogni sua orma in quella famiglia, tutto ha le sembianze vaporose di un imbarazzo che si traduce in inquadrature sfuocate, figure spezzate, oggetti che prendono lo spazio delle persone. E persone che in quel salotto esistono soltanto nei momenti di urla furiose, scatti volgari, battute venali, tentennamenti eloquenti.
Ogni personaggio si definisce dentro quest’atmosfera di agitazione perenne, definendo i contorni di un dramma familiare che va componendosi tra sfuocamenti e balbettii, soprattutto grazie a Catherine. Lei sempre ammodo, ingessata nel suo abito di carinerie, lei che non ha mai visto Louis ma è l’unica a cercare di farlo sentire in famiglia, lei che nel continuo scusarsi e nelle esitazioni sa intuirne il segreto.
Quella verità che gli altri non vedono o forse hanno soltanto bisogno di capire a loro modo. Così, nel procedere di Xavier Dolan senza rispettare la consuetudine tecnica, si rispecchia l’insolito garbuglio di un dramma familiare che possiamo capire soltanto negli incontri tête-à-tête fra Louis e gli altri, come dentro un confessionale, empio però dei (presunti) peccati del confessore.
E alla fine non c’è più nulla da aggiungere. Nulla da dire per chi sta in quella casa nell’ennesimo imbarazzo di un film che si è annunciato come missione di dichiarazione e termina senza averla fatta quella dichiarazione. Termina nel volo spezzato di un uccellino che sembra essere rimasto intrappolato nell’orologio a cucù per il tempo necessario a raccontare l’inafferrabilità, le paure, le solitudini che separano chi rimane da chi se n’è andato. E in fondo ci dice dell’inevitabilità degli affetti e dei suoi incontrollabili effetti.
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sabato 7 gennaio 2017
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non sono dialoghi ma un balbettare superficiale...
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Dato che si svolge in un solo luogo (la casa di origine) e in un solo tempo (le poche ore della visita) ci si aspetta una costruzione dei dialoghi potente e profonda. No, non è così. Sono dialoghi superficiali, inverosimili, con molti silenzi che la fotografia non può aiutare. Non si capisce chi sono, non si capisce perché, non si capisce niente ma in compenso ci annoiamo, molto. Finale patetico, con una metafora da pensierino di terza elementare. Mi domando quale potente mafia riesca in queste promozioni di successo. Perché io, oggi, al cinema sono andato ed ho lasciato l'obolo. Ma evitate, gente, evitate...! Forse meglio il "Cliente"? Non lo sapremo mai.
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Dato che si svolge in un solo luogo (la casa di origine) e in un solo tempo (le poche ore della visita) ci si aspetta una costruzione dei dialoghi potente e profonda. No, non è così. Sono dialoghi superficiali, inverosimili, con molti silenzi che la fotografia non può aiutare. Non si capisce chi sono, non si capisce perché, non si capisce niente ma in compenso ci annoiamo, molto. Finale patetico, con una metafora da pensierino di terza elementare. Mi domando quale potente mafia riesca in queste promozioni di successo. Perché io, oggi, al cinema sono andato ed ho lasciato l'obolo. Ma evitate, gente, evitate...! Forse meglio il "Cliente"? Non lo sapremo mai.
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angelo umana
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giovedì 29 dicembre 2016
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famiglie che scoppiano
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E’ risaputo - questo film sembra dimostrarlo ulteriormente – e forse empiricamente dimostrato che “la famiglia è il posto peggiore dove nascere”, e poi … lo disse Sigmund Freud. Chissà che non sia soprattutto il posto peggiore dove crescere, visto che appena nati si viene destinati di premure e consolati dell’esser nato (così Leopardi); nel crescere invece si innestano dinamiche particolari tra i membri della famiglia, ognuno col suo temperamento genetico e i suoi modi di reagire e rapportarsi.
Un ottimo film, particolare e di valore: Xavier Dolan ne è regista sceneggiatore produttore e autore del montaggio, un lavoro davvero rimarchevole.
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E’ risaputo - questo film sembra dimostrarlo ulteriormente – e forse empiricamente dimostrato che “la famiglia è il posto peggiore dove nascere”, e poi … lo disse Sigmund Freud. Chissà che non sia soprattutto il posto peggiore dove crescere, visto che appena nati si viene destinati di premure e consolati dell’esser nato (così Leopardi); nel crescere invece si innestano dinamiche particolari tra i membri della famiglia, ognuno col suo temperamento genetico e i suoi modi di reagire e rapportarsi.
Un ottimo film, particolare e di valore: Xavier Dolan ne è regista sceneggiatore produttore e autore del montaggio, un lavoro davvero rimarchevole. Lui, ancora giovanissimo, nato a Montreal nell’89, ha posto l’attenzione su questi temi, basti pensare che il suo primo film, appena 20enne, si chiamava “Ho ucciso mia madre”, sul difficile rapporto di un ragazzo omosessuale con la madre..
Il film nasce con un viaggio in aereo, il passeggero Louis si prepara sereno al suo posto, un bambino dal sedile posteriore gioca mettendogli le manine davanti agli occhi. Pensa a quello che sta per fare, andare a ritrovare la sua famiglia dopo 12 anni di assenza, del resto lui fa quello che deve fare, come sempre (lo dirà sua madre più tardi), pensa che esiste una serie di motivazioni che ci spingono a partire senza voltarci indietro, così come ne esistono per tornare. Lui, scrittore e autore di pièce teatrali, vuole rivelare ai familiari che sta per morire. Un ultimo ritorno al nido dunque, prima della fine, come gli animali che cercano un angolo quando sentono la morte vicina. Ma quel nido si rivela il posto meno indicato per comunicare il suo segreto, un luogo per nulla accogliente, dove ognuno ha qualcosa da recriminare contro l’altro: la madre (Nathalie Baye) che discute sempre animatamente con la figlia Suzanne (Léa Seydoux), questa che ribatte colpo su colpo al fratello Antoine, “il cattivo” (eccelso Vincent Cassel), pieno di rabbia e frustrazione, sicuramente invidioso della calma del fratello Louis e delle parole efficaci che questi riesce a trovare in ogni situazione, oltreché della stima di cui gode presso mamma e sorella. Sospetta che le parole, le frasi ellittiche, servano a circuirlo o stanarlo e perciò dice Non parlo perché voglio che nessuno mi parli, esprimerà il sospetto di essere considerato dalla famiglia lo scemo del villaggio. Quando parla però urla rabbioso come un vulcano che spara lapilli e massi contro gli altri, frasi violente che feriscono. Rimprovera la moglie Catherine (notevolissima Marion Cotillard), di non difenderlo. Catherine è colei che osserva molto il nuovo venuto che non conosceva e sembra instaurare con lui l’unico rapporto empatico della scena, una cognata che con Louis non trova facilmente le parole ma le cui espressioni e sguardi sono di certo leggibili.
E’ stato salutato bene però Louis all’arrivo sull’uscio, un saluto struggente a questo fratello-figlio-cognato di poche parole e sempre appropriate. Un momento interessante è il viaggio in taxi che Louis fa dall’aeroporto fino a casa dei suoi, guarda i passanti per strada che vivono e sembrano soffermarsi a guardarlo: così deve sentirsi qualcuno che sa di morire presto, mentre la vita di quegli sconosciuti proseguirà. Un film scarno, essenziale, le tante parole sembrano riempire dei vuoti ma sono tutte utili, necessarie. La fotografia e le canzoni ottime, in questo momento iniziale in esterni, corredato dai colori del cibo che si prepara a casa in attesa del suo arrivo, come poi negli interni dove tutto il film si svolge. Protagonista non è solo uno ma tutti e cinque, all’interno di questo “set teatrale” che diventa la famiglia. La visita di Louis sembra acuire conflitti, ma procura almeno rassicurazioni alla giovane Suzanne che lo venera e interesse nella dimessa Catherine. Louis dice ad un amico che lo chiama: Ho paura di loro. Ripartirà senza rivelare il suo segreto.
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[+] il passeggero louis
(di angelo umana)
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aaronoelle
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mercoledì 28 dicembre 2016
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stupendo
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questo film, come sempre del resto questo giovanissimo regista, mi ha tolto le parole.
mi è sembrato un Antonioni contemporaneo con la sua incomunicabilità. Intenso, fino quasi a farmi provare disagio di fronte a certe scene familiari: mi sembrava di trovarmi al centro della scena, mai nessun film mi aveva fatto provare delle sensazioni così reali.
bravi gli attori, belle le inquadrature ed i primi piani a rendere ancora più forte l'alienazione dei protagonisti.
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no_data
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mercoledì 28 dicembre 2016
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come uno starnuto trattenuto
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E' solo la fine del mondo, di Xavier Dolan, è un film sui punti di sospensione troppo lunghi, sui ritorni fuori tempo massimo, sui temporali incombenti e borbottanti che poi non riescono a scaricarsi per la vergogna di se o per la pena degli altri, sull'incomunicabilità 2.0, sull'imbarazzo verso il figliuol prodigo, e sul rancore e il disagio che tale inadeguatezza provoca, è il malessere che lascia uno starnuto trattenuto... è un film di Xavier Dolan che non lascia indifferenti e che scava le apparenze come solo lui sa fare.
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folignoli
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lunedì 26 dicembre 2016
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la cicatrice sul viso di gaspard ulliel
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Il teatro al cinema non funziona. Ma gli attori bravissimi riescono nell'impresa di renderlo piacevole. Troppi dialoghi, troppe inquadrature ravvicinate in primo (o primissimo) piano, non riescono a far emergere la vera natura degli attori a cui si vorrebbe osservare il corpo. Il corpo parla e se questo non si riesce a vedere quasi mai, il film diventa mozzato. Tutto il contrario del teatro in cui la mimica corporea è fondamentale. Qui invece si recita col viso e il simbolo del film secondo me è la cicatrice del bellissimo Gaspard Ulliel, questa volta in un ruolo taciturno ed introverso, ma a cui la MDP regala forza espressiva grazie alla sua cicatrice in volto. Credevo fosse una piega del viso, della bocca, invece in questo film ho capito che si tratta di una cicatrice, quasi un solco che non deturpa il volto del giovane Hannibal.
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Il teatro al cinema non funziona. Ma gli attori bravissimi riescono nell'impresa di renderlo piacevole. Troppi dialoghi, troppe inquadrature ravvicinate in primo (o primissimo) piano, non riescono a far emergere la vera natura degli attori a cui si vorrebbe osservare il corpo. Il corpo parla e se questo non si riesce a vedere quasi mai, il film diventa mozzato. Tutto il contrario del teatro in cui la mimica corporea è fondamentale. Qui invece si recita col viso e il simbolo del film secondo me è la cicatrice del bellissimo Gaspard Ulliel, questa volta in un ruolo taciturno ed introverso, ma a cui la MDP regala forza espressiva grazie alla sua cicatrice in volto. Credevo fosse una piega del viso, della bocca, invece in questo film ho capito che si tratta di una cicatrice, quasi un solco che non deturpa il volto del giovane Hannibal. Bravissimo Vincent cassel. Le donne invece mi appaiono più scontate, più teatrali e retoriche. Struggente il brano del finale.
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kaipy
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lunedì 26 dicembre 2016
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sono solo 5 stelle ma ne darei di più
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Agli attori si rimprovera di recitare, agli scrittori di raccontare storie, alla famiglia di amare disperatamente.
Un film intenso e lacerante che si snoda su dialoghi serrati, esasperati.
Fiumi di parole a cui i personaggi si aggrappano per nascondere la gioia, il dolore, la paura.
Dietro quel flusso inarrestabile di frasi, Louis, silenzioso e sensibile, è muto, travolto dalla fiumana dei sentimenti e da un senso di impotenza sempre più grande.
Parole che gridano e chiamano altre parole, taciute.
Urla silenziose di una verità che ha mille facce di cui è possibile affrontare solo i riflessi.
Intensa prova per tutti gli attori, travolti nel occhio del ciclone, nella calma della campagna, nel tormento del cuore.
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Agli attori si rimprovera di recitare, agli scrittori di raccontare storie, alla famiglia di amare disperatamente.
Un film intenso e lacerante che si snoda su dialoghi serrati, esasperati.
Fiumi di parole a cui i personaggi si aggrappano per nascondere la gioia, il dolore, la paura.
Dietro quel flusso inarrestabile di frasi, Louis, silenzioso e sensibile, è muto, travolto dalla fiumana dei sentimenti e da un senso di impotenza sempre più grande.
Parole che gridano e chiamano altre parole, taciute.
Urla silenziose di una verità che ha mille facce di cui è possibile affrontare solo i riflessi.
Intensa prova per tutti gli attori, travolti nel occhio del ciclone, nella calma della campagna, nel tormento del cuore.
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francesca50
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mercoledì 21 dicembre 2016
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che noia!
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Ho trovato il film noioso perché tratta un tema arcinoto, quello del malato di Aids morente. Gli attori sono ottimi ma è come un pezzo teatrale: noioso quindi sullo schermo! Gli Americani non fanno mai film noiosi... Come mai il cinema europeo talora lo è?
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(di no_data)
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lbavassano
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domenica 18 dicembre 2016
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contravveleno natalizio
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Ottimo film teatrale, e come tale fondato sulla saldezza della sceneggiatura, sulla bravura degli interpreti, tutti, ma anche sul virtuosismo del montaggio, sulle vertiginose accelerazioni dei campi-controcampi e sulle pause riflessive, squarci nell'interiorità dei personaggi. Film di monologhi, in realtà, più che di dialoghi, perché nessuno, forse neppure il taciturno protagonista, ha volontà di ascoltare e comprendere, ma bisogno di urlare, anche sottovoce, la propria sofferenza, e l'invito al silenzio rivolto alla balbettante cognata (la sempre più grande Marion Cotillard) è il gesto che significativamente suggella il tutto. Film di ferite mai cicratizzate, pronte a riaprirsi e grondare sostanze sgradevoli (Vincent Cassel, straordinario "cattivo", anche e soprattutto nelle crepe della propria cattiveria).
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Ottimo film teatrale, e come tale fondato sulla saldezza della sceneggiatura, sulla bravura degli interpreti, tutti, ma anche sul virtuosismo del montaggio, sulle vertiginose accelerazioni dei campi-controcampi e sulle pause riflessive, squarci nell'interiorità dei personaggi. Film di monologhi, in realtà, più che di dialoghi, perché nessuno, forse neppure il taciturno protagonista, ha volontà di ascoltare e comprendere, ma bisogno di urlare, anche sottovoce, la propria sofferenza, e l'invito al silenzio rivolto alla balbettante cognata (la sempre più grande Marion Cotillard) è il gesto che significativamente suggella il tutto. Film di ferite mai cicratizzate, pronte a riaprirsi e grondare sostanze sgradevoli (Vincent Cassel, straordinario "cattivo", anche e soprattutto nelle crepe della propria cattiveria). Film sugli errori e gli orrori della famiglia, e come tale ottimo film natalizio, perfetto contravveleno ai cinepanettoni.
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[+] film noioso...
(di francesca50)
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brunodedomenico
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domenica 18 dicembre 2016
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non vedetelo. palla immonda
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Palla immonda. Non vedetelo. Non rovinatevi un pomeriggio/serata. E' vero che i temi sono importanti. Ma le facce sempre le stesse, la storia (storia?) senza capo né coda... insomme di quelle cose che dovrebbero essere fighe all'insegna dell'incomunicabilità. Horrible
[+] il linguaggio tradisce
(di angelo umana)
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