marcello1979
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domenica 30 ottobre 2016
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sempre lui
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Uno dei migliori film di Loach...
Ricorda molto la canzone di Clara..
Ha emozionato come lui sa, con delicatezza e senza mai eccedere.
Grande
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fabiomillo
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domenica 30 ottobre 2016
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semplicemente carino
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Daniel Blake (Dave Johns) è un uomo solo che ha appena avuto un infarto sul posto di lavoro e, com'è suo diritto farlo, si rivolge prontamente allo Stato per chiedere il sussidio di malattia. Nonostante il parere crontario dei medici che lo hanno in cura, Daniel viene ritenuto non autorizzato a ricevere alcun tipo di sussidio. Nel mentre attende in una sala d'aspetto di poter far ricorso, incontra una ragazza, Katie - interpretata da Hayley Squires - e i suoi due bambini, ridotti alla miseria e impazienti di ricevere del denaro per poter anche solo mangiare. Daniel diviene allora il protagonista indiscusso nelle loro vite, aiutando la povera famiglia in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, soprattutto nelle faccende domestiche.
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Daniel Blake (Dave Johns) è un uomo solo che ha appena avuto un infarto sul posto di lavoro e, com'è suo diritto farlo, si rivolge prontamente allo Stato per chiedere il sussidio di malattia. Nonostante il parere crontario dei medici che lo hanno in cura, Daniel viene ritenuto non autorizzato a ricevere alcun tipo di sussidio. Nel mentre attende in una sala d'aspetto di poter far ricorso, incontra una ragazza, Katie - interpretata da Hayley Squires - e i suoi due bambini, ridotti alla miseria e impazienti di ricevere del denaro per poter anche solo mangiare. Daniel diviene allora il protagonista indiscusso nelle loro vite, aiutando la povera famiglia in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, soprattutto nelle faccende domestiche. Daniel si ritrova così a lottare contro lo Stato per ottenere il suo ricorso e contemporaneamente ad aiutare la povera famiglia ogni qualvolta fosse necessario. I personaggi evolvono e crescono insieme, imparando dai loro errori ed arrivando a commettere addirittura reati causa le loro condizioni estreme: Katie infatti diventa una escort pur di guadagnare qualcosa e Daniel decide di scrivere sui muri la sua storia, come un vero e proprio vandalo, affinchè qualcuno possa dargli una mano.
'Io, Daniel Blake' è l'ultimo lavoro di Ken Loach, regista che ha passato l'intera vita a rappresentare sul grande schermo le fatiche quotidiane dei più bisognosi e le condizioni disumane nelle quali riversano. Il messaggio principale di questo film invece è far capire che 'la società non ascolta', 'il mondo è sordo', 'pochi saranno in grado di darti una mano'.
'Io, Daniel Blake' potrebbe definirsi una vera e propria condanna allo stato, un messaggio d'odio verso quest'ultimo.
Vi è una sottile differenza tra propaganda e film: in caso di propaganda un determinato messaggio viene comunicato in maniera alquanto esplicita e con modalità quasi aggressive, tanto da influire sulla psicologia collettiva (fonte: dizionario Treccani), nel momento in cui invece si decide di comunicare il proprio pensiero attraverso il cinema allora il tipo di comunicazione è molto più fine, elaborata e lo stesso messaggio celato tramite figure retoriche o 'scappatoie artistiche' - passatemi il termine. Il film per certi versi è molto più vicino al mondo della propaganda che al mondo del cinema.
L'opera in questione ha ricevuto un sacco di critiche positive soprattutto da parte del pubblico, tanto che potremmo definirla una delle rivelazioni dell'anno, ma cerchiamo di capire: il film è stato premiato per il coraggio nel trattare determinate tematiche o per il modo in cui l'ha fatto? Queste sono cose ben diverse.
Di film che parlano della povertà ce ne sono un sacco, è questa la dura realtà a cui bisogna far fronte. Dunque, in questa enciclopedia pienissima di lungometraggi che trattano lo stesso tema, come distinguere ciò che è veramente bello da ciò che è semplicemente mediocre? La risposta è semplice: il modo in cui si decide di raccontare una certa storia.
Da un'approccio di tipo fantastico, attraverso le fantasie spericolate dei bambini (Un ponte per Terabithia - 2007), fino ad arrivare ad un impianto thriller quasi neo-noir (City of God - 2002); entrambi sono esempi fantastici di come trattare in maniera originale la povertà ed il disagio senza allestire una sorta di propaganda anti-statale di cui Ken Loach anche questa volta si è munito.
E' da dire che in effetti molte volte il fatto di essere particolarmente espliciti è un'ottima tecnica per far arrivare un certo messaggio, tecnica che non apprezzo, ma questo è solamente un mio giudizio, condivisibile o meno.
Per ciò che riguarda l'impianto scenico tutto quadra, tutto è perfettamente capibile e ben strutturato.
Le inquadrature sono molto interessanti e all'altezza delle atmosfere cupe che rispecchiano perfettamente lo stato d'animo dei personaggi. Ogni personaggio è sufficientemente approfondito e non esasperato, cosa che in questo periodo - purtroppo - non è così scontata.
La conclusione del film è qualcosa di fastidioso, a mio giudizio, estraneo a tutta l'atmosfera creatasi precedentemente e che sicuramente non rispetta il grido di speranza di Daniel Blake; la conclusione è coerente col messaggio del regista ma non con quello del film.
'Io, Daniel Blake' in conclusione è un pugno allo stomaco che a dirla tutta può essere apprezzato o meno, e che secondo me, è semplicemente carino.
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(di maria f.)
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robroma66
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domenica 30 ottobre 2016
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gli affreschi di loach
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Sono grata a Ken Loach anche se i suoi film sono un pugno nello stomaco.
Se non ci fosse lui nessuno darebbe voce così forte e chiara alle persone stritolate dagli effetti tossici di capitalismo e burocrazia. La povertà costituisce il rimosso dei nostri tempi e Loach la racconta come fosse un pittore realista, Courbet o Guttuso.
Daniel Blake è un carpentiere di 59 anni, vedovo e senza figli. Ha una crisi cardiaca e il medico gli proibisce di lavorare.
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Sono grata a Ken Loach anche se i suoi film sono un pugno nello stomaco.
Se non ci fosse lui nessuno darebbe voce così forte e chiara alle persone stritolate dagli effetti tossici di capitalismo e burocrazia. La povertà costituisce il rimosso dei nostri tempi e Loach la racconta come fosse un pittore realista, Courbet o Guttuso.
Daniel Blake è un carpentiere di 59 anni, vedovo e senza figli. Ha una crisi cardiaca e il medico gli proibisce di lavorare. Per la prima volta nella vita è costretto a chiedere un sussidio statale. Ma la burocrazia oltre a essere sorda e cieca è anche ottusa: il suo medico dice che non può tornare al lavoro ma le norme lo obbligano a cercare lavoro -pena una severa sanzione- mentre aspetta che venga approvata la sua richiesta di indennità di malattia. Nel frattempo incontra Kate, giovane madre single con due figli piccoli e senza lavoro. Daniel e Kate, stretti nella morsa delle aberrazioni amministrative della Gran Bretagna di oggi, stringono un legame di amicizia e solidarietà per sostenersi mentre tutto sembra remare contro di loro.
Io, Daniel Blake è un film politico e di denuncia. Il suo punto di debolezza -se l'ottica è quella del realismo- è nella ostinazione manichea di Loach, nella fede utopica nella solidarietà tra proletari, nella compattezza ideologica di matrice novecentesca. Oltre i due protagonisti, ci sono bagliori di spessore umano anche nelle feroci istituzioni (come Ann, l'unica impiegata di cuore e di testa nell'algido centro per l'impiego) e nella società (i due giovani vicini di casa -traffichini ma solidali- o il responsabile del supermercato che lascia andare Kate che ha rubato qualche prodotto) ma il film è costruito sull'idea che buono e cattivo siano due insiemi che non si intersecano. Oggi tutto è tremendamente più fluido e meno netto. Essere diventati consumatori -e non più persone, o cittadini, o membri di una comunità- ha cambiato la nostra antropologia e rende obsoleto l'inquadramento dicotomico di Loach. Ma naturalmente non importa e va bene così: a un film non si deve chiedere fedeltà al reale, quasi fosse un documentario.
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(di fabiomillo)
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silviamorganti
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domenica 30 ottobre 2016
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un grido silenzioso di umanità
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Cento minuti di pellicola per raccontare la vita di un uomo, riassumerne il passato e concentrarsi sul suo presente: Daniel Blake. Siamo a Newcastle, di cui si vede qualche strada, qualche casa, dei capannoni, alcuni marciapiedi con steccati, interni casalinghi, un supermarket e uffici. La società contemporanea fa mostra di sé: mossa da una burocrazia schiacciante, che fa del computer uno strumento infallibile di potere e degli impiegati soltanto dei burocrati senza cuore, disumani, ciechi, incapaci di riconoscere l’umano quando è davanti a loro. Il rispetto delle regole non concede un barlume di dubbio, esitazione, strappo. Solo poche eccezioni tradiscono il quadro, come se pochi fossero “l’anello che non tiene” o il “varco” montaliano: appaiono per questo come sparuti sopravvissuti di un mondo scomparso, in cui l’umano era umano e non doveva protestare per ribadirlo, era evidente.
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Cento minuti di pellicola per raccontare la vita di un uomo, riassumerne il passato e concentrarsi sul suo presente: Daniel Blake. Siamo a Newcastle, di cui si vede qualche strada, qualche casa, dei capannoni, alcuni marciapiedi con steccati, interni casalinghi, un supermarket e uffici. La società contemporanea fa mostra di sé: mossa da una burocrazia schiacciante, che fa del computer uno strumento infallibile di potere e degli impiegati soltanto dei burocrati senza cuore, disumani, ciechi, incapaci di riconoscere l’umano quando è davanti a loro. Il rispetto delle regole non concede un barlume di dubbio, esitazione, strappo. Solo poche eccezioni tradiscono il quadro, come se pochi fossero “l’anello che non tiene” o il “varco” montaliano: appaiono per questo come sparuti sopravvissuti di un mondo scomparso, in cui l’umano era umano e non doveva protestare per ribadirlo, era evidente. Ora invece l’uomo deve scrivere su di un muro di un ufficio con una bomboletta spray: “I, Daniel Blake”, IO, sono un nome e cognome e non una pratica, un numero, un turno, un codice. Un gesto dal sapore liberatorio, un reato davanti alla legge, un grido d’aiuto raccolto da passanti e altri ‘diseredati’ che sanno ancora offrire un briciolo di solidarietà, o meglio di fratellanza (si pensa che il barbone che offre il cappotto a Daniel Blake prima che questi sia portato via dalla polizia, con le sue parole e i suoi gesti incarni il regista stesso).
Si ha timore nel vedere una simile rappresentazione, perché è lo specchio fedele della realtà.
Loach, il grande Ken Loach, con una grazia e una delicatezza senza paragoni gira un film senza mai cedere al buonismo, senza mai cedere alla tentazione di mostrare la crudeltà nei suoi risvolti più cruenti: tutto si svolge senza bisogno di attraversare fino in fondo una soglia, quella della decenza. C’è un rispetto verso la persona che è autentico, come autentico è da sempre lo sguardo di questo coraggioso regista britannico.
Gli attori sono bravi, bravissimi, in particolar modo il protagonista, interpretato da Dave Johns, e una ragazza, Kattie (nei panni dell’attrice Hayley Squires), madre di due bambini, venuta da Londra e destinata a incrociare con il protagonista il triste destino segnato dalla burocrazia.
Una scena segna la pellicola in maniera eccezionale: si svolge in una “banca del cibo”, una sorta di centro d’aiuto in cui si offrono generi di prima necessità, in cui il semplice gesto di apertura di una scatola di fagioli e il tentativo di cibarsene diventa megafono di una fame, di uno stato di povertà che lascia senza via di scampo, che inchioda tutti ad una riflessione. Si assiste a cosa vuol dire oggi umiliazione, disumanizzazione, imbarbarimento. E questo non riguarda tanto le vittime, quanto i carnefici, perché la vittima è salva, anche laddove sembra soccombere, rimanendo umana dall’inizio alla fine. È salvo Daniel Blake, uomo delicato, amante del legno, capace di aggiustare le cose e di crearne delle altre, capace di ascolto, sentinella di giustizia, generoso dispensatore di piccoli gesti salvifici, che quando esci dalla sala ti accompagna ovunque tu vada…
Un film bellissimo che ha meritato la Palma d’oro per il miglior film a Cannes nel 2016, pochi giorni prima dell’ottantesimo compleanno di Ken Loach, uomo stra-vagante e magnifico del nostro tempo.
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maumauroma
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sabato 29 ottobre 2016
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io,daniel blake
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Beh, certo, muovere una critica alla filmografia di Ken Loach, quasi tutta schierata a difesa delle fasce da lui ritenute piu' deboli della societa', e' un po' come sparare alla croce rossa. In questa sua ultima opera il regista inglese prende di mira il sistema assistenziale e previdenziale del suo paese,da lui considerato particolarmente cinico e vessativo, descrivendo la vera e propria odissea vissuta da un carpentiere sessantenne, il quale soffrendo di una cardiopatia e non potendo piu' lavorare, chiede ripetutamente e senza risultato agli uffici preposti la possibilita' di ottenere un assegno di invalidita' o un sussidio di disoccupazione. Ebbene, se si considera I, Daniel Blake un film di pura finzione cinematografica non si puo' che apprezzare l'opera, ben interpretata e diretta, dai giusti ritmi, emotivamente molto coinvolgente.
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Beh, certo, muovere una critica alla filmografia di Ken Loach, quasi tutta schierata a difesa delle fasce da lui ritenute piu' deboli della societa', e' un po' come sparare alla croce rossa. In questa sua ultima opera il regista inglese prende di mira il sistema assistenziale e previdenziale del suo paese,da lui considerato particolarmente cinico e vessativo, descrivendo la vera e propria odissea vissuta da un carpentiere sessantenne, il quale soffrendo di una cardiopatia e non potendo piu' lavorare, chiede ripetutamente e senza risultato agli uffici preposti la possibilita' di ottenere un assegno di invalidita' o un sussidio di disoccupazione. Ebbene, se si considera I, Daniel Blake un film di pura finzione cinematografica non si puo' che apprezzare l'opera, ben interpretata e diretta, dai giusti ritmi, emotivamente molto coinvolgente. Considerando pero' che si tratta di un classico film di denuncia con una struttura quasi documentaristica, non si possono non evidenziare alcune incongruenze se non incompatibilita' della sceneggiatura con i fatti della realta' quotidiana del nostro protagonista. Nella vita reale infatti , il nostro Daniel Blake avrebbe pensato prima di tutto a curare bene la sua malattia; negli ultimi anni infatti la cardiologia, sia medica che chirurgica, ha fatto eccezionali progressi, permettendo alla quasi totalita' dei cardiopatici di guarire e tornare a una regolare vita lavorativa, magari con una mansione meno pesante. Inoltre, sempre nella vita reale il cittadino Daniel Blake, considerate le discrete condizioni in cui appare nella vicenda e considerato con quale abilita' di artigiano ha sistemato la modesta casa della compagna di sventure Daisy, avrebbe potuto facilmente, magari con inserzioni sui giornali, svolgere lavori privati non particolarmente pesanti di idraulica, di falegnameria ecc ecc , riuscendo tranquillamente a sbarcare il lunario in attesa di risolvere il suo contenzioso medico legale, senza rischiare di morire di fame. Ma Loach tralascia del tutto questi aspetti, anzi ,considerato che gli interessa soltanto denunciare un Sistema che secondo lui cozza con le sue fanciullesche vedute filosocialiste, introduce nella sua opera alcuni momenti volti soltanto ad alimentare la carica emotiva nello spettatore, facendogli strizzare per bene le ghiandole lacrimali, ma di cui poteva sinceramente fare a meno, come la scena della "fame" di Daisy nel centro di distribuzione del cibo, il far prostituire in maniera banalmente prevedibile la ragazza, la stessa morte di Blake poteva essere evitata senza scalfire la forza della sua denuncia. Certamente casi come quelli evidenziati nel film possono accadere ovunque, come ovunque possono accadere episodi opposti, per esempio assegni a falsi invalidi, assenteismo cronico, finte malattie e chi piu' ne ha piu' ne metta, ma se il Welfare inglese fosse sempre quello descritto da Ken Loach non credo che il referendum sulla brexit avrebbe avuto il risultato che si e' visto
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fabriziog
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venerdì 28 ottobre 2016
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un grandissimo loach
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Ken Loach, uno dei più grandi registi al Mondo del cinema impegnato, sociale e di denuncia, giganteggia in un film la cui tensione emotiva tiene in apnea lo spettatore per tutta la durata della proiezione. “Io, Daniel Blake” è bellissimo, perché è denso, perché è implacabile, perché è pura spremuta di autentica umanità.
“Io, Daniel Blake” è la storia di donne e uomini vandalizzati nella propria dignità da un sistema sociale feroce, fatto di implacabili regole tutte tese ad umiliare chi è caduto nella ragnatela della difficoltà economica, finché non ci si arrende, finché non si muore, finché non ci si prostituisce.
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Ken Loach, uno dei più grandi registi al Mondo del cinema impegnato, sociale e di denuncia, giganteggia in un film la cui tensione emotiva tiene in apnea lo spettatore per tutta la durata della proiezione. “Io, Daniel Blake” è bellissimo, perché è denso, perché è implacabile, perché è pura spremuta di autentica umanità.
“Io, Daniel Blake” è la storia di donne e uomini vandalizzati nella propria dignità da un sistema sociale feroce, fatto di implacabili regole tutte tese ad umiliare chi è caduto nella ragnatela della difficoltà economica, finché non ci si arrende, finché non si muore, finché non ci si prostituisce. La prostituzione non è solo un comportamento corporale ma è soprattutto asservimento ad un meccanismo, ad un ingranaggio infernale costituito da moduli da compilare, ricorsi da presentare, call center con cui interloquire, internet che non si sa adoperare, assistenti sociali che si crogiolano nella carognaggine, interminabili tempi di attesa telefonici cadenzati da musichette ripetitive che ossessionano persone disperate.
Daniel Blake è un cittadino di Sua Maestà, né più né meno, e tale vuole rimanere, fino in fondo, finché non ottiene i suoi diritti minimali oramai calpestati, ridimensionati, eliminati.
Daniel Blake non si arrende, perché il suo mondo è fatto di umanità, di aiuto, di gentilezza, e anche se lui si trova nelle peste continua a dare una mano ad una ragazza con i suoi due figli, come farebbe un padre, come farebbe un nonno. Daniel Blake non si arrende perché lui non è un numero di previdenza, lui è una persona.
Quello di Loach è un mondo impietoso, senza riguardi per i grandi problemi degli esseri umani. In questo mondo spietato ogni tanto Loach consente ad alcune figure di baluginare nel crepuscolo della coscienza con uno scintillio di comprensione negli occhi: una operatrice del welfare, una sola fra le tante pulviscolari addette al settore, perla rara dotata di nobiltà d’animo nella frastagliata fanghiglia inumana dedita alla quotidiana assenza di ascolto dell’altro; oppure il direttore di un supermercato che lumeggia con uno scatto di bontà dinanzi ad un furto per fame, bontà sfortunatamente oscurata dalla malvagità della guardia giurata che ammanta di attenzione umana ciò che è solo feroce cupidigia immorale.
Ma nonostante l’incessante, martellante, insistente, sistematico accanimento di un sistema – che nell’opera è quello britannico ma, in realtà, appartiene oramai all’intero mondo occidentale – avverso a chiunque abbia la sventura di cadere nell’ingranaggio luciferino del bisogno e della disoccupazione, la schiena di Daniel Blake rimane dritta, lo sguardo indomito, l’animo mai sconfitto, perché Daniel Blake è un cittadino e chiede soltanto il rispetto dei propri diritti, né più né meno: “I, Daniel Blake”
Fabrizio Giulimondi
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jacopo b98
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giovedì 27 ottobre 2016
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i tre bicchieri di ken loach
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A Newcastle il 59enne Daniel Blake (Jones), operaio in una falegnameria, avendo preso un infarto è costretto a chiedere un sussidio di invalidità. Lo stato glielo nega tramite una visita decisamente arbitraria. Per Daniel inizia un incubo burocratico, nel tentativo di fare ricorso. Intanto fa la conoscenza di una giovane madre (Squires) in difficoltà. Cercheranno di darsi una mano a vicenda, ma il destino sarà tragico per entrambi. A chi non è mai capitato, nel tentativo di prendere un bicchiere da un boccione d’acqua in un ufficio, di prenderne più di uno? Fanno sempre molta fatica a sfilarsi e spesso si finisce per ritrovarsene in mano un paio.
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A Newcastle il 59enne Daniel Blake (Jones), operaio in una falegnameria, avendo preso un infarto è costretto a chiedere un sussidio di invalidità. Lo stato glielo nega tramite una visita decisamente arbitraria. Per Daniel inizia un incubo burocratico, nel tentativo di fare ricorso. Intanto fa la conoscenza di una giovane madre (Squires) in difficoltà. Cercheranno di darsi una mano a vicenda, ma il destino sarà tragico per entrambi. A chi non è mai capitato, nel tentativo di prendere un bicchiere da un boccione d’acqua in un ufficio, di prenderne più di uno? Fanno sempre molta fatica a sfilarsi e spesso si finisce per ritrovarsene in mano un paio. O magari tre, come capita in una scena all’inizio di Io, Daniel Blake, venticinquesimo film di Loach per il cinema. In effetti, nella suddetta scena, la buona impiegata statale Ann porta allo sconvolto Daniel dell’acqua. Un osservatore attento noterà che la donna dà a Dan tre bicchieri. Un caso? Forse, ma questa casualità si inserisce perfettamente nel film, e anzi, assume un valore simbolico altissimo, quasi una dichiarazione poetica: Loach con questa immagine giura che non mentirà al suo spettatore e con il suo film andrà persin oltre il suo già accentuato verismo, mostrando sempre e comunque la realtà esattamente così com’è. Sotto questa luce si può cominciare l’analisi di Io, Daniel Blake, ennesimo capolavoro di un autore sempre schierato con gli ultimi: è un film di una potenza assoluta, di una pietas, di una dignità commovente sino alle lacrime. Lacrime che scendono inevitabilmente dai nostri occhi, messi di fronte ad una realtà di cui siamo consapevoli, ma che troppo spesso ignoriamo. La scena del banco alimentare, in cui Katie si rovescia il cibo addosso per la tanta fame, è di una essenzialità, di un realismo, di una statura cinematografica unica, grazie anche a due interpreti che donano l’anima a due personaggi indimenticabili. Non dimenticherò mai certe sequenze, certe emozioni: non è sentimentalismo, è dolore, sofferenza quella a cui Loach ci sottopone. Il dolore dell’esistenza, della realtà. Eppure il film è raccontato con una leggerezza incredibile, riesce a far sorridere anche in momenti di devastante drammaticità, quelli in cui ci si rende conto che il nostro intero Sistema ha fallito. Il finale, con il necrologio letto da Katie, è un atto d’accusa impietoso, feroce allo stato e all’umanità intera. È la morte di un Cittadino: per Loach non è routine, bensì una tragedia immane. Ha vinto una contestata Palma d’Oro a Cannes, assegnatagli dalla giuria presieduta da George Miller: molti lo han definito un film bello, ma convenzionale, a parer di chi scrive è sì un film classico, ma di un’urgenza narrativa che non poteva davvero essere ignorata. Un vero capolavoro.
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maurizio meres
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giovedì 27 ottobre 2016
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un grande regista "loach"
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Un film di una intensità emotivamente parlando, è una rabbia che attanaglia lo spettatore che solo il neorealismo Italiano sapeva dare,purtroppo non siamo nel primo dopoguerra ma siamo ai giorni nostri,con tutto il malessere sociale che piano piano sta diventando il nulla, in una indifferenza totale così come Loach rimarca,in tutte le istituzione sia laiche che religiose,portando le persone alla distruzione della propria identità senza più sapere che cosa significhi ora la parola dignità,entrando nello spirito dei vari personaggi Loach tocca ogni sentimento nascosto,il pensiero interiore è amplificato dalla sofferenza,attraverso la sopportazione dell'indifferenza e l'ignoranza altrui,o meglio dire menefreghismo.
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Un film di una intensità emotivamente parlando, è una rabbia che attanaglia lo spettatore che solo il neorealismo Italiano sapeva dare,purtroppo non siamo nel primo dopoguerra ma siamo ai giorni nostri,con tutto il malessere sociale che piano piano sta diventando il nulla, in una indifferenza totale così come Loach rimarca,in tutte le istituzione sia laiche che religiose,portando le persone alla distruzione della propria identità senza più sapere che cosa significhi ora la parola dignità,entrando nello spirito dei vari personaggi Loach tocca ogni sentimento nascosto,il pensiero interiore è amplificato dalla sofferenza,attraverso la sopportazione dell'indifferenza e l'ignoranza altrui,o meglio dire menefreghismo.
Sembra che l'essere umano abbia creato un meccanismo come se la vita di tutti i giorni sia una rappresentazione teatrale,fatta di persone disagiate che riescono attraverso i loro problemi nel dare uno scopo di vita a tutti gli altri,perché la difficoltà altrui può essere,nel profondo dell'anima una specie di appagamento.
La grande bravura del regista è quella di far aprire la mente dello spettatore a qualsiasi pensiero sia giusto che sbagliato deve sempre esserci il rispetto della persona,attraverso questo film egli vuole denunciare quello che chi dovrebbe,non fa,le istituzioni sono sempre impegnate nella finanza,nel dividersi le cariche,e questo accade ovunque,non si gestisce uno stato con dei burattinai e culturalmente ignoranti,e qui entriamo in una girandola di clientelismo che non a fine.
Gli attori tutti bravissimi,entrati nella parte così come il regista desiderava,molto realistici,senza mai entrare nel patetico,in una ambientazione grigia,cupa come una vita senza colore,ma questa è l'Inghilterra.
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giorgio47
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giovedì 27 ottobre 2016
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non tutti i diseredati sono immigrati
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Avevo letto alcune recensioni di questo film che ponevano una serie di problemi e che in ogni caso non erano entusiastiche ma molto critiche e la cosa mi sembrava alquanto strana perché quest’ultime non erano indirizzate al film, alla regia, ma al contenuto dello stesso. Insomma ero perplesso, poi oggi sono andato a vederlo e ho assistito alla proiezioni di un film non solo girato bene, ma coraggioso e lineare, come tutta la filmografia di Loach e del suo sceneggiatore preferito Laverty è sempre stata. Nel film c’è amore, solidarietà, rispetto ma anche indifferenza, disinteresse, freddezza da parte della burocrazia e dei suoi robot. Ed allora mi sono domandato da cosa potevano scaturire le “riserve” sul film e sul suo regista, ed ho capito! Loach viene criticato perché parla degli ultimi, dei diseredati, ma questi non sono gli immigrati, sono i fantasmi della società, sono i reietti che nessuno vuol vedere perché ci dicono che non sono persone che scappano da una guerra o attraversano il mare sui barconi, sono i prodotti di una società sempre più meccanizzata ed indifferente, sono persone che non vogliono l’elemosina (bellissima la lettera finale) non pretendono la carità, tutte cose che fanno sentire bene i piccolo borghesi del nostro mondo, vogliono i propri diritti come cittadini e mettono in evidenza le ingiustizie, le iniquità, le prepotenze e le prevaricazioni che i nostri sistemi, grazie alla nostra complicità, attuano sui più deboli.
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Avevo letto alcune recensioni di questo film che ponevano una serie di problemi e che in ogni caso non erano entusiastiche ma molto critiche e la cosa mi sembrava alquanto strana perché quest’ultime non erano indirizzate al film, alla regia, ma al contenuto dello stesso. Insomma ero perplesso, poi oggi sono andato a vederlo e ho assistito alla proiezioni di un film non solo girato bene, ma coraggioso e lineare, come tutta la filmografia di Loach e del suo sceneggiatore preferito Laverty è sempre stata. Nel film c’è amore, solidarietà, rispetto ma anche indifferenza, disinteresse, freddezza da parte della burocrazia e dei suoi robot. Ed allora mi sono domandato da cosa potevano scaturire le “riserve” sul film e sul suo regista, ed ho capito! Loach viene criticato perché parla degli ultimi, dei diseredati, ma questi non sono gli immigrati, sono i fantasmi della società, sono i reietti che nessuno vuol vedere perché ci dicono che non sono persone che scappano da una guerra o attraversano il mare sui barconi, sono i prodotti di una società sempre più meccanizzata ed indifferente, sono persone che non vogliono l’elemosina (bellissima la lettera finale) non pretendono la carità, tutte cose che fanno sentire bene i piccolo borghesi del nostro mondo, vogliono i propri diritti come cittadini e mettono in evidenza le ingiustizie, le iniquità, le prepotenze e le prevaricazioni che i nostri sistemi, grazie alla nostra complicità, attuano sui più deboli. Questo non ci fa sentire bene, non ci da quell’appagamento che si ha nel “fare del bene”, nel fare l’elemosina e nell’essere a favore degli immigrati. Loach ci spiattella in faccia la nostra ipocrisia e il nostro squallido perbenismo infarcito di falsità! Un film bello e duro se si guarda con la dovuta attenzione!
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fabiofeli
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giovedì 27 ottobre 2016
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"sono un cittadino, niente di più, niente di meno"
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Daniel Blake (Dave Johns) è un carpentiere sessantenne di sessanta anni che vive a Newcaste; ha appena subito un infarto cardiaco ed il medico gli proibisce il rientro al lavoro; è in attesa del riconoscimento della invalidità, ma si trova nella situazione kafkiana di dover chiedere un impiego tramite una specie di “agenzia per il lavoro” pena la perdita dei sussidi. Ogni azione “sbagliata”, ogni dichiarazione errata nei questionari da compilare on-line fruttano a Daniel la riduzione o addirittura la sospensione degli aiuti economici.
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Daniel Blake (Dave Johns) è un carpentiere sessantenne di sessanta anni che vive a Newcaste; ha appena subito un infarto cardiaco ed il medico gli proibisce il rientro al lavoro; è in attesa del riconoscimento della invalidità, ma si trova nella situazione kafkiana di dover chiedere un impiego tramite una specie di “agenzia per il lavoro” pena la perdita dei sussidi. Ogni azione “sbagliata”, ogni dichiarazione errata nei questionari da compilare on-line fruttano a Daniel la riduzione o addirittura la sospensione degli aiuti economici. Eppure nella falegnameria è ancora un asso, ma è completamente incapace di manovrare un “mouse”, il topo che fa correre la freccetta sullo schermo del computer. Nella “agenzia per il lavoro” fraternizza con una giovane londinese con due figli piccoli (Hayley Squires), sanzionata a sua volta per un ritardo – un autobus perso – all’appuntamento con gli impiegati. Daniel esegue piccole riparazioni nell’appartamento assegnato alla giovane privo di riscaldamento; si ingegna inventando un rudimentale scaldino con vasi di coccio e ceri e regalando ai bambini un poetico pendaglio con pesci di legno per sognare di stare sotto il mare. Ma non sembra esserci una giusta via di uscita per i diseredati nella Inghilterra di oggi …
Doveva essere indignato e furioso Ken Loach per tornare dietro la cinepresa che aveva appeso al chiodo. Ed è un bene, perché il regista regala ancora una storia asciutta, premiata a Cannes 2016, solo una delle tante che raccontano una incolpevole povertà nel deserto del benessere neoliberista. Tutto il mondo è paese e peggiora allo stesso modo con la crescente distruzione dei diritti e i tagli sempre più all’osso del welfare. L’umiliante scena della banca del cibo, una iniziativa caritatevole che può diventare uno schiaffo in faccia, è un capolavoro che commuove senza ricerca di effetti. Daniel si descrive così: “Non sono un ladro, non sono un accattone, non sono un evasore fiscale; sono un cittadino, niente di più, niente di meno”. Una storia tosta nella quale piovono pietre, recitata con il giusto rigore da attori non professionisti, diretti con mano felice da Loach, che speriamo continui a raccontarci storie come questa. Se i prossimi film saranno all’altezza non dovremo mancarli.
Valutazione ****
FabioFeli
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