millotta
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venerdì 4 ottobre 2013
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tempo e soldi sprecati, una noia mortale
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Ben girato, ben fotografato... e basta.
Casi umani osservati con voyeurismo quasi perverso.
Emozioni: pochissime.
Sbadigli, sbadigli e ancora sbadigli.
Da escludere l'ultimo spettacolo: l'assopimento è assicurato.
Tipico film che piace alla critica, molto meno al pubblico.
Leone d'oro? Se questo è il nuovo cinema italiano, come ci siamo ridotti...
Chi vuole comunque andare a vederlo, non dica che non era stato avvisato.
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(di nino quincampoix)
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deborissimah
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giovedì 19 settembre 2013
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il documentario riprende il suo meritato spazio
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E' bello che l'Italia sia tornata sul podio di casa ed è bellissimo che uno dei maggiori festival mondiali abbia premiato un documentario, genere troppo spesso relegato ai margini della cinematografia. A parere di chi scrive tra i film in concorso c'era di meglio, tuttavia è apprezzabile il messaggio che si è voluto dare con questa incoronazione.
Molto carino, Sacro GRA, niente di eclatante, ma decisamente godibile. Un piccolo spaccato di vita ai margini della Capitale, uno sguardo quasi poetico, mai invasivo, che ci restituisce umori, sensazioni, pensieri di persone comuni che vivono giorno per giorno, come chiunque altro. Storie vere che non hanno nulla da invidiare a quelle raccontate dalle ricostruzioni filmiche, storie riprese e restituite con tutta l'arte che il grande schermo richiede, arte che Gianfranco Rosi padroneggia magistralmente fino a fare scomparire la sottile linea che separa la realtà dalla finzione.
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E' bello che l'Italia sia tornata sul podio di casa ed è bellissimo che uno dei maggiori festival mondiali abbia premiato un documentario, genere troppo spesso relegato ai margini della cinematografia. A parere di chi scrive tra i film in concorso c'era di meglio, tuttavia è apprezzabile il messaggio che si è voluto dare con questa incoronazione.
Molto carino, Sacro GRA, niente di eclatante, ma decisamente godibile. Un piccolo spaccato di vita ai margini della Capitale, uno sguardo quasi poetico, mai invasivo, che ci restituisce umori, sensazioni, pensieri di persone comuni che vivono giorno per giorno, come chiunque altro. Storie vere che non hanno nulla da invidiare a quelle raccontate dalle ricostruzioni filmiche, storie riprese e restituite con tutta l'arte che il grande schermo richiede, arte che Gianfranco Rosi padroneggia magistralmente fino a fare scomparire la sottile linea che separa la realtà dalla finzione.
Il regista lo accenna, la Giuria di Venezia 70 lo ha ribadito: non siate prevenuti sul genere documentaristico perché sono tante le sorprese che vi/ci riserva.
Consigliato veramente a tutti.
Deborah Ugolini
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[+] né carne né pesce, in sintesi...niente
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boyracer
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mercoledì 2 ottobre 2013
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il neo neorealismo.
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Finalmente un grande film italiano in concorso a Venezia, potente, originale, coraggioso e ben fatto, tanto da conquistare meritatamente e con poche discussioni il Leone d'Oro dopo 15 anni da quel 1998 di Gianni Amelio e del suo “Così ridevano”, ultimo italiano a vincere in casa prima di questo “Sacro Gra”.
Il regista Gianfranco Rosi ha impiegato 3 anni e migliaia di ore di girato per arrivare a questi 93 minuti di vero cinema e di vera poesia.
Il film nasce da un’idea di Nicolò Bassetti, architetto paesaggista-urbanista che nel 2001, appena trasferitosi a Roma, ha iniziato a perlustrare i territori a cavallo del Grande Raccordo Anulare, la tangenziale della capitale, documentando e raccontando in centinaia di fotografie e pagine scritte i paesaggi e le persone che vivono nei pressi della più lunga autostrada urbana d’italia.
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Finalmente un grande film italiano in concorso a Venezia, potente, originale, coraggioso e ben fatto, tanto da conquistare meritatamente e con poche discussioni il Leone d'Oro dopo 15 anni da quel 1998 di Gianni Amelio e del suo “Così ridevano”, ultimo italiano a vincere in casa prima di questo “Sacro Gra”.
Il regista Gianfranco Rosi ha impiegato 3 anni e migliaia di ore di girato per arrivare a questi 93 minuti di vero cinema e di vera poesia.
Il film nasce da un’idea di Nicolò Bassetti, architetto paesaggista-urbanista che nel 2001, appena trasferitosi a Roma, ha iniziato a perlustrare i territori a cavallo del Grande Raccordo Anulare, la tangenziale della capitale, documentando e raccontando in centinaia di fotografie e pagine scritte i paesaggi e le persone che vivono nei pressi della più lunga autostrada urbana d’italia. Tante persone, la stragrande maggioranza degli abitanti dell’intera “Roma Capitale”. In seguito l’incontro con il regista documentarista Gianfranco Rosi ha dato il via al progetto cinematografico.
Rosi però ha rifatto tutto da capo, nel senso che a sua volta ha iniziato ad esplorare il territorio, e per molto tempo, molti mesi, ha conosciuto, frequentato, avvicinato umanamente tanti abitanti e frequentatori assidui di quella terra complessa e variegata che rappresenta attualmente, nel bene e nel male, il vero cuore della città di Roma. Alcune di quelle persone, oltre che suoi amici, sono diventate i personaggi del film, ripresi con la macchina da presa solo dopo una condivisione profonda delle loro vite e del loro universo, nella naturalezza e spontaneità del non essere attori.
Propria questa gestazione lenta e profonda ha dato vita così ad un film potentissimo, forte della realtà delle persone/personaggi e delle situazioni di normalità/verità in cui vengono riprese. Un film che erroneamente è stato definito “documentario”, accezione che potrebbe semmai essere attribuita alla tecnica utilizzata per le riprese e il montaggio (che pure raggiungono ottimi livelli anche sotto il profilo puramente cinematografico) ma non certo al contenuto e alla sceneggiatura, che non si limitano meramente a documentare ma che raccontano le storie di queste persone/personaggi, storie tanto normali quanto autentiche, e quindi proprio per questo coinvolgenti e naturalmente appassionanti.
Non mancano scene di partecipazione e poesia elevatissime, sempre girate con delicatezza e compostezza estreme, con un conseguente risultato finale altissimo e al limite della commozione (anche qui c’è una bellissima “scena della madre”, proprio come in un più illustre e bistrattato capolavoro assoluto degli anni venti), alcune riprese da cineasta talentuoso e diversi richiami ai maestri del cinema italiano, primo tra tutti l’iniziale citazione scritta della definizione del GRA che ne dette Fellini nel suo “Roma”, del quale questo Sacro GRA può essere considerato a bon diritto seguito ideale e “seconda parte completare”.
Anche il parallelo con “La grande bellezza” di Sorrentino non è azzardato in quanto, seppur con stili e linguaggi completamente differenti, entrambi raccontano il degrado romano e italico e la voglia di tenere duro e di rinascere di una nazione fatta di tante, tantissime persone “normali” che non hanno voce o che la alzano troppo a vanvera.
Ad un incontro con il pubblico Gianfranco Rosi ha dichiarato che non ha intenzione di girare altri film e che sicuramente in questo momento non ha nessun tipo di progetto all’orizzonte… Speriamo sinceramente che cambi idea.
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gambadilegnodinomesmith
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lunedì 30 settembre 2013
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la grande bruttezza
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Intuizione interessante per titolo e soggetto. Lo spazio di ritagli urbani che si relativizza in luogo in quanto vissuto da persone e storie ricche di incomunicabilità là dove una città risulta ai più di passaggio. Possibile risposta al decadentismo della Roma intra moenia di Sorrentino. L’operazione risulta però compiaciuta di questa trovata risultando sterile e superficiale, non riesce a superare la frammentarietà di questi ritratti di persone perché si prefigge di non scavare in profondità, ma di restare appunto in superficie. Un esercizio di stile asciutto e non lineare in cui la guida del regista, volutamente assente, trasmette un senso di appagato voyeurismo non calibrato in ritratti senza spessore di ultimi.
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Intuizione interessante per titolo e soggetto. Lo spazio di ritagli urbani che si relativizza in luogo in quanto vissuto da persone e storie ricche di incomunicabilità là dove una città risulta ai più di passaggio. Possibile risposta al decadentismo della Roma intra moenia di Sorrentino. L’operazione risulta però compiaciuta di questa trovata risultando sterile e superficiale, non riesce a superare la frammentarietà di questi ritratti di persone perché si prefigge di non scavare in profondità, ma di restare appunto in superficie. Un esercizio di stile asciutto e non lineare in cui la guida del regista, volutamente assente, trasmette un senso di appagato voyeurismo non calibrato in ritratti senza spessore di ultimi. La ingiusta distanza. Considerando che il regista Rosi vive a New York probabilmente non nel Bronx, viene in mente il Sordi felliniano de “I vitelloni”: “Lavoratori?”.
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pepito1948
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lunedì 23 settembre 2013
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decoupage di "altre" storie
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Al di là della facile suggestione metaforica della circolarità che gira sempre su se stessa affermando la sua perpetuità lungo un percorso obbligato, che cos’è davvero, o meglio come percepiamo il GRA di una grande città come Roma? Una sorta di muraglia con cui la società “di dentro” si difende dalla realtà esterna, ad essa estranea (come ne “La zona” del messicano Rodrigo Plà)? O al contrario una linea di demarcazione intorno a cui si ammassa una periferia poco propensa a farsi contaminare dai falsi luccicori della centralità urbana? Un valore in sé, come democratica via di libera osmosi da un mondo all’altro, oppure un monolitico serpentone che ci ricorda la simbolica possibilità del passaggio da uno stato di stabilità sociale a quello di precarietà e di emarginazione (molto meno probabile il contrario)? Rosi non sembra assumere una posizione ideologica (o comunque di denuncia politico-sociale), limitandosi a descrivere con l’occhio attento non del documentarista puro ma del regista che usa un linguaggio narrativo la realtà composita che pullula attorno, al di qua e al di là, di quella sorta di linea magica e cangiante che è il Raccordo Anulare, ora mostro di traffico ed inquinamento ora striscia deserta e sprofondata nell’invisibilità della notte, ora formicaio metallico privo di apparenza umana ora innevato e immerso in un silenzio impalpabile, ora visto in una dimensione quasi ipnotica ( la ripresa frontale dei solchi che convergono e divergono sulla neve rievoca visivamente, anche se in bianco e nero, le strie psichedeliche che Kubrik mette nello sguardo allucinato dell’astronauta di 2001 nel viaggio verso Giove).
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Al di là della facile suggestione metaforica della circolarità che gira sempre su se stessa affermando la sua perpetuità lungo un percorso obbligato, che cos’è davvero, o meglio come percepiamo il GRA di una grande città come Roma? Una sorta di muraglia con cui la società “di dentro” si difende dalla realtà esterna, ad essa estranea (come ne “La zona” del messicano Rodrigo Plà)? O al contrario una linea di demarcazione intorno a cui si ammassa una periferia poco propensa a farsi contaminare dai falsi luccicori della centralità urbana? Un valore in sé, come democratica via di libera osmosi da un mondo all’altro, oppure un monolitico serpentone che ci ricorda la simbolica possibilità del passaggio da uno stato di stabilità sociale a quello di precarietà e di emarginazione (molto meno probabile il contrario)? Rosi non sembra assumere una posizione ideologica (o comunque di denuncia politico-sociale), limitandosi a descrivere con l’occhio attento non del documentarista puro ma del regista che usa un linguaggio narrativo la realtà composita che pullula attorno, al di qua e al di là, di quella sorta di linea magica e cangiante che è il Raccordo Anulare, ora mostro di traffico ed inquinamento ora striscia deserta e sprofondata nell’invisibilità della notte, ora formicaio metallico privo di apparenza umana ora innevato e immerso in un silenzio impalpabile, ora visto in una dimensione quasi ipnotica ( la ripresa frontale dei solchi che convergono e divergono sulla neve rievoca visivamente, anche se in bianco e nero, le strie psichedeliche che Kubrik mette nello sguardo allucinato dell’astronauta di 2001 nel viaggio verso Giove). Rosi utilizza la grande arteria –di cui si intuisce il senso del limite tra un dentro ed un fuori , ma senza espliciti confronti - non per mostrare il degrado di tutto ciò che vi è “attaccato”, che pure appare ma è volutamente sfumato (del palazzone di periferia non è mostrato l’ ambiente circostante ma solo il viavai degli aerei), ma per evidenziare che anche lì pulsa la vita, faticosa, ma dignitosa e qualche volta gioiosa. Non c’è squallore nella periferia del suo GRA, c’è povertà, semplicità, ma anche molta umanità; c’è socialità, diretta, ruspante ma anche ai limiti del filosofico (come nella stanza in cui convivono l’intellettuale decaduto e la figlia attaccata al PC, confronto sempre vivo tra approccio speculativo alla vita e modernità tecnologica), c’è la comunicazione culturale schietta di un pescatore di anguille e la lotta senza quartiere di un improvvisato quanto attrezzato ricercatore in attesa di vendetta contro un’arma di distruzione di massa minuscola quanto invincibile, il punteruolo rosso. Non manca la solitudine malinconica di chi conclude la giornata su un letto spoglio sotto un cuore di velluto rosso che parla di amore. E ci sono anche angoli di poesia, come il frusciare silenzioso della barca del pescatore di anguille sulle acque ondulate di un fiume al tramonto, che magicamente riesce ancora a produrre vita nonostante gli scarichi e le insidie della leptospirosi.
Rosi insomma, grazie al sapiente mix di umanità vera, rappresentazione artistica e uso magistrale degli strumenti espressivi come le luci, anche estreme (vedi il bianco accecante della visione mistica), ci offre una quadro originale di pezzi di “altre” storie che si alternano in un non racconto, e che sembrano attorcigliarsi attorno ad una linea circolare ma multi direzionale insieme, che forse accomuna più di quanto a prima vista divida.
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lucyelisa
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sabato 19 ottobre 2013
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originale
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Accanto all incessante fluire delle luci dei rumori ( quasi ossessivo il rombo di aerei ) sulla grande tangenziale che circonda la città eterna ( che per la sua struttura urbana ,meglio di altre metropoli si presta, al racconto ) si snodano le esistenze marginali di persone comuni che interpretano se stesse ,relegate negli angusti e scarni alloggi di palazzoni anonimi di periferia o in ville kitsch ,date a nolo quali set di fotoromanzi .
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Accanto all incessante fluire delle luci dei rumori ( quasi ossessivo il rombo di aerei ) sulla grande tangenziale che circonda la città eterna ( che per la sua struttura urbana ,meglio di altre metropoli si presta, al racconto ) si snodano le esistenze marginali di persone comuni che interpretano se stesse ,relegate negli angusti e scarni alloggi di palazzoni anonimi di periferia o in ville kitsch ,date a nolo quali set di fotoromanzi .
Rosi , esperto documentarista , assembla frammenti - indipendenti tra loro – di vita quotidiana di gente comune che interpreta se stessa in una dimensione esistenziale solitaria negli affanni e piccoli sogni di ogni giorno . E ‘ vero che i personaggi sono appena abbozzati senza particolari approfondimenti ma in questo sta la poesia del film ( o come è stato definito del docu film ) e di questi personaggi tratteggiati con brevi pennellate che si raccontano , con naturalezza e sobrietà , senza mai auto commiserarsi . Rosi non vuole né commuovere né divertire ma raccontare la composita umanità della periferia urbana : lo fa , guardando ai piccoli dettagli ,senza invadenza ma senza banalità , con delicatezza e sensibilità , nell’ alternarsi dei giorni e delle notti, della vita e della morte ( la scena dei necrofori al lavoro ), degli affanni e dei piccoli sogni dei suoi soggetti ( l infermiere che dopo i pesanti turni in ambulanza , rientra nella sua spoglia cucina dove cerca , in internet .la compagnia di donnine e che ricolma di tenerezza la madre disabile , l ‘intellettuale decaduto, ristretto in un angusto locale con la figlia per la quale sogna un lieto futuro sentimentale ., le due attempate prostitute che bivaccano in un vecchio camper in attesa di improbabili clienti ). Ottima fotografia : la tangenziale acquista una sua bellezza con l’ alternarsi della luce e del crepuscolo ,con il candore della neve, con le dissolvenze color ocra e lo sbiadire della scena mistica . Forse il film vuole contrapporre la solitaria e monotona vita dei borgatari alla mondanità della capitale e dei quartieri residenziali che l’ anello racchiude , ( qualcuno intravede un antitesi de La grande bellezza ) , forse la circolarità dell’ anello è una metafora della circolarità della vita ,. Sono solo suggestioni . L unica metafora esplicita è certamente quella sulla aggregazione sociale ed abitudini dei crudeli punteruoli rossi , che un solitario botanico cerca di esaminare e debellare ( le relative scene sono in prossimità dell’ inizio e fine del film ) Il ricercatore paragona l’insetto ( poi ritratto sulla locandina del film ) - inesorabile con la vittima , la palma ( simbolo dell’anima ) che divora senza scampo e con insaziabile voracità - all’ uomo perché il rumore che fanno non è diverso da quello che si stente in certi ristoranti. Originale. Un film fuori dagli schemi .
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vanessa zarastro
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venerdì 27 settembre 2013
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le non-storie nei non-luoghi
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Certamente una buona regia ma il film è un pò deludente rispetto alle aspettative; troppo poco documetario e troppa poca area metropolitana. Forse speravo che il viaggio dei 60 km del raccordo con Renato Nicolini gli avesse insegnato un pò di più, gli avesse trasmesso più piacere per le tipologie edilizie/urbane nei differenti habitat: edilizia "spontanea" vs edilizia convenzionata, ad esempio. Un occasione persa per vedere la vera Roma e comunque la Roma dell'ultimo mezzo secolo. Peccato perché i non-luoghi filmati da Wenders sono delle pietre miliari per chi si occupa di cinema e città. Molto meglio invece come Rosi ha sottolineato le tipologie umane con le loro non-storie; la sociologia evidentemente gli si adatta più dell'urbanistica.
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Certamente una buona regia ma il film è un pò deludente rispetto alle aspettative; troppo poco documetario e troppa poca area metropolitana. Forse speravo che il viaggio dei 60 km del raccordo con Renato Nicolini gli avesse insegnato un pò di più, gli avesse trasmesso più piacere per le tipologie edilizie/urbane nei differenti habitat: edilizia "spontanea" vs edilizia convenzionata, ad esempio. Un occasione persa per vedere la vera Roma e comunque la Roma dell'ultimo mezzo secolo. Peccato perché i non-luoghi filmati da Wenders sono delle pietre miliari per chi si occupa di cinema e città. Molto meglio invece come Rosi ha sottolineato le tipologie umane con le loro non-storie; la sociologia evidentemente gli si adatta più dell'urbanistica. La Roma del film di Rosi può considerarsi un controcanto al barocco film di Sorrentino e una risposta colta alla Roma banalmente rappresentata da Woody Allen.
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pietro zanaletti
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venerdì 8 novembre 2013
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una narrazione curva & frammentata.
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Il film-documentari di Gianfranco Rosi ha vinto a Venezia ma non è un film di popolare bellezza. E' un lavoro di grande intensità antropologica. Chi ha comparato il film all' anello di Saturno ha visto abbastanza bene. Personalmente credo che questo anello sia piuttosto un mondo curvo e discontinuo e che pertanto non sia in grado di strutturarsi dentro un sistema urbano periferico connesso organicamente al centro. Tanto meno esso quindi può essere adatto ha costituirsi parte complementare della Roma Capitale. Sembra che non vi sia speranza, ma non è in gioco la narrazione filmica ma la cultura urbanistica che tarda a orientare il caos. Consiglio la visione.
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howlingfantod
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domenica 27 luglio 2014
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innovativo e stupendo
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La controparte di una “Grande bellezza”, la grande bellezza della periferia, ancor più vera perché veri i personaggi così’ lontani dai salotti, dalle feste, dalle terrazze e da tutte le chiacchiere che si svolgono qualche chilometro più verso il centro, centro di che cosa poi? L’opera rompe gli schemi realtà-finzione abbattendo il muro fra fiction e documentario, abbatte il muro del girovagare romano quasi unidirezionale o comunque destinato a un fine come nell’episodio di “Aprile” di Nanni Moretti”, in quanto in Sacro GRA il girovagare è circolare come il GRA stesso che ritorna sempre al punto di partenza, abbattendo tempi e spazi. I personaggi tutti indimenticabili, difficile fare una classifica tra il figlio con la madre anziana e malata, il palmologo, il transessuale o il principe o cavaliere di Malta, loro si agitano su questo limitare non si sa se appena fuori o all’interno del GRA, si intuisce quasi appena che la loro vita e i loro sogni si svolgano intorno a questo anello, ma in fondo l’anello è solo un pretesto, un immagine sfuocata, un anello di saturno come nella didascalia iniziale che tutto contiene o tutto esclude, il GRA ricorda certi porosi confini che delimitano un dentro e fuori che non esiste.
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La controparte di una “Grande bellezza”, la grande bellezza della periferia, ancor più vera perché veri i personaggi così’ lontani dai salotti, dalle feste, dalle terrazze e da tutte le chiacchiere che si svolgono qualche chilometro più verso il centro, centro di che cosa poi? L’opera rompe gli schemi realtà-finzione abbattendo il muro fra fiction e documentario, abbatte il muro del girovagare romano quasi unidirezionale o comunque destinato a un fine come nell’episodio di “Aprile” di Nanni Moretti”, in quanto in Sacro GRA il girovagare è circolare come il GRA stesso che ritorna sempre al punto di partenza, abbattendo tempi e spazi. I personaggi tutti indimenticabili, difficile fare una classifica tra il figlio con la madre anziana e malata, il palmologo, il transessuale o il principe o cavaliere di Malta, loro si agitano su questo limitare non si sa se appena fuori o all’interno del GRA, si intuisce quasi appena che la loro vita e i loro sogni si svolgano intorno a questo anello, ma in fondo l’anello è solo un pretesto, un immagine sfuocata, un anello di saturno come nella didascalia iniziale che tutto contiene o tutto esclude, il GRA ricorda certi porosi confini che delimitano un dentro e fuori che non esiste.
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max.antignano
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domenica 9 marzo 2014
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quando la realtà supera la finzione
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In molti hanno detto e scritto di Sacro Gra come di un eccelso documentario, ma a vederlo si rimane veramente in dubbio se si stia assistendo a un documentario ben girato o a un film degno della migliore tradizione neorealista. La trama è complessa, un collage di storie di varia umanità suburbana legate dalla soffocante presenza (sic!) dell'autostrada urbana più famosa d'Italia.
C'è davvero di tutto, dall'infermiere sull'ambulanza del 118 al professore che studia le palme invase dal malefico punteruolo rosso (che campeggia nel manifesto del film), dal pescatore di anguille sotto il ponte del raccordo alle prostitute ageè (trans?) che lavorano sul camper all'uscita dello stesso; dall'affittacamere con villa in (dis)gusto hollywoodiano agli abitanti della palazzina popolare.
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In molti hanno detto e scritto di Sacro Gra come di un eccelso documentario, ma a vederlo si rimane veramente in dubbio se si stia assistendo a un documentario ben girato o a un film degno della migliore tradizione neorealista. La trama è complessa, un collage di storie di varia umanità suburbana legate dalla soffocante presenza (sic!) dell'autostrada urbana più famosa d'Italia.
C'è davvero di tutto, dall'infermiere sull'ambulanza del 118 al professore che studia le palme invase dal malefico punteruolo rosso (che campeggia nel manifesto del film), dal pescatore di anguille sotto il ponte del raccordo alle prostitute ageè (trans?) che lavorano sul camper all'uscita dello stesso; dall'affittacamere con villa in (dis)gusto hollywoodiano agli abitanti della palazzina popolare...
Vedute del Gra, grandi pascoli, il fiume, il raccordo sotto la neve... ottima fotografia, storie appassionanti. Ogni personaggio combatte la sua personale battaglia, sopravvivendo alla realtà e alla novità. La romanità soprattutto sopravvive imperterrita, con le unghie e con i denti, ed è uno spettacolo vedere un pescatore di anguille leggere una rivista specializzata e parlare ( monologare sarebbe più appropriato) con una donna che annuisce distratta mentre lavora ai ferri, con sullo sfondo un extracomunitario che riavvolge la rete da pesca... ed è come rivedere l'Albertone nazionale e Annarella....scomparsi e presenti.
Roma torna alla ribalta, curioso che dopo averla vista svuotata e ridotta a simulacro di se stessa ne La Grande Bellezza , Sacro Gra ce la restituisca poi tumefatta ma viva all'estrema periferia, quasi quest'autostrada sia il monumento della modernità, e il famoso insetto simbolo dell'umanità sofferente e devastante che siamo diventati.
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